Mettiamo
le mani avanti: Dunkirk
di Christopher Nolan è un buon film di guerra. E' adeguatamente
emozionante durante la sua ora e tre quarti e lo spettatore non esce
insoddisfatto. Sennonché... e già, c'è un sennonché.
Ci
sono film che crollano sotto il peso delle loro ambizioni. Per
Dunkirk
la faccenda è un po' diversa, forse più gloriosa, forse meno:
Dunkirk
crolla sotto il peso del suo trailer. In altre parole, il trailer che
ha battuto ossessivamente i cinema era così ben realizzato da farci
entrare con grandi aspettative (poi c'entra qualcosa anche il nome
del regista); ci aspettavamo non già un film discreto ma un
capolavoro del cinema bellico – e non lo abbiamo avuto. Sulla
drammatica evacuazione di Dunkirk (che fuori dal mondo di lingua
inglese sarebbe Dunkerque, ma pazienza) ci ha detto di più in pochi
asciutti minuti il capolavoro di Noël
Coward e David Lean In
Which We Serve
che tutto il film di Nolan.
Vediamo innanzitutto
gli aspetti positivi. Dunkirk è un incrocio di linee geometriche che
si dipartono da un punto che è la spiaggia: dove – in quella che è
l'immagine più memorabile del film – linee di soldati inglesi
aspettano in fila ordinata un possibile imbarco per la salvezza. Verso questo punto
focale si dirigono le navi di salvataggio e le imbarcazioni dei
civili inglesi, qui rappresentate per sineddoche dal piccolo yacht di
Mr. Dawson, come pure gli Spitfire della RAF, come angeli
vendicatori, che si impegnano in combattimento contro gli aerei
tedeschi. Da questo punto focale si allontanano le navi cariche di
soldati in ritirata, magari destinate a una triste fine per le bombe
e i siluri nemici. Questo sistema spaziale è ricco di fascino e dà
una struttura forte al film.
Un'idea molto efficace
è che il nemico nel film non ha volto. I tedeschi che stringono
d'assedio l'esercito inglese “parlano” all'inizio attraverso i
volantini che fanno piovere dai loro aerei, ma per il resto del film
rimangono un nemico esterno, quasi astratto, che si manifesta dal
fuori campo attraverso cannonate, fucilate e siluri; vediamo solo
gli aerei della Luftwaffe, di cui però indicativamente non vengono
mai inquadrati i piloti (in netto contrasto con quelli della RAF). I
soldati tedeschi appaiono come ombre indistinte solo in un segmento
del finale.
Le scene più
interessanti sono quelle di guerra aerea; qui il film mostra in modo
eccellente la “fatica” del combattimento aereo, le difficoltà a
inquadrare l'aereo nemico nel mirino e a colpirlo con le
mitragliatrici in un punto vitale.
Dove Dunkirk è
carente invece è sul piano umano, e questo è il grave limite della
sceneggiatura, anch'essa firmata da Christopher Nolan. Questi soldati
sono anonimi (e no, non possiamo farlo passare come simbolismo,
poiché tutto l'impianto del film si muove in direzione contraria).
Probabilmente ciò è
anche causato da una scelta narrativa che sulla carta sembra
vincente: frazionare il racconto in una serie di sottostorie in un
ossessivo montaggio parallelo – che viene però indebolito
dall'incapacità del film di costruire degli autentici
personaggi/episodio. Anche quei personaggi cui viene dato più
spazio, non è che emergano a tutto tondo sul piano psicologico. In
generale i personaggi non hanno consistenza – il che equivale a
dire che ormai Hollywood ha perduto una delle componenti più
preziose della sua eredità classica.
A tal proposito devo
richiamarmi, in contrapposizione a questo film, alla lezione
figurativa del cinema bellico inglese (anche realizzato “in
diretta” durante la guerra, come il film di Coward e Lean sopra
citato) – il quale poi era influenzato dalla grande scuola
documentaristica dei Grierson e dei Jenkins.
L'elemento di maggior
consistenza umana prima del solenne pre-finale, quando il mare
davanti a Dunkirk si riempie delle piccole navi dei civili inglesi
accorsi al salvataggio (ma perché così poche in un film ricchissimo
di effetti speciali?), l'ho trovato all'inizio del film, quando i
soldati francesi sulla barricata gratificano di sguardi ostili e di
un sarcastico “Bon voyage” il soldatino inglese in fuga. Fuga
che, beninteso, era una necessità strategica. “Dobbiamo riprendere
il nostro esercito”, dice il contrammiraglio - perché la temuta
invasione nazista dell'Inghilterra è alle porte. Nella ritirata di
Dunkerque vengono salvati, che nella logica spietata della guerra
vuol dire risparmiati, 335.000 soldati (non avere usato i carri
armati fu il grande errore strategico di Hitler, sul quale ancora si
discute).
In
conclusione, l'impressione generale che lascia Dunkirk
è che tutto quello che il film dice sia già stato detto meglio.
Sulla tragedia della guerra fra mare e sabbia resta inarrivabile la
sconvolgente apertura di Salvate
il soldato Ryan
di Steven Spielberg. Le esplosioni disastrose sulle navi col massacro
di chi c'è sopra non valgono quelle del recente e superbo The
Eternal Zero
di Yamazaki Takashi. Più in generale, il senso di minaccia e di
intrappolamento (la tragedia di Dunkerque, come di Dien Bien Phu o
simili, è quella della condizione dell'animale in trappola) viene
espresso adeguatamente sul piano narrativo ma sarei perplesso a dire
che il film riesca a trasmetterlo compiutamente in modo empatico, né
l'angoscia del tempo che sgocciola via. Avete visto per esempio il
dimenticato Hunde,
wollt ihr ewig leben
(Stalingrado)
di Frank Wisbar? E la frenesia disperata della sconfitta l'abbiamo
vista molto meglio, per fare un nome illustre, in Michael Cimino.
Tuttavia,
mi sembra giusto aggiungere che non è fair
play
nei confronti di Nolan criticarlo per non aver raggiunto quei
livelli; è più giusto paragonarlo a Nolan stesso; e anche qui,
bisogna dire che Dunkirk
non vive al livello della drammaticità potente di Interstellar
(“Non sono montagne, sono onde!”) o di altre opere nolaniane.
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