Il
cinema POV (in cui tutta la vicenda è vista come registrazione di
una telecamera, con la giustificazione diegetica di un documento
girato sul campo) ha un suo indubbio fascino di pseudo-realismo
aggiuntivo – e questo è il motivo per cui esso viene applicato
principalmente alla dimensione del fantastico. Si parva licet
componere magnis, è paragonabile all'uso della prima persona in
un racconto. Se c'è nella storia narrata (ossia sul piano diegetico)
un filmato, ci dev'essere un filmante; per cui alla classica domanda
“chi filma?”, il film risponde “il personaggio stesso”,
rinunciando audacemente a proporre l'illusione di “farsi da sé”.
Eccoci
dunque davanti al POV Blair Witch, deplorevole sequel del
bellissimo (sempre POV)
The
Blair Witch
Project – Il mistero della strega di Blair del 1999 (tra i
responsabili ci sono, spiace dirlo, Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez,
i registi del primo film). Un gruppo di quattro ragazzotti, due
maschi e due femmine, decidono di compiere la fatidica ricerca della
casa misteriosa che compariva nel filmato originario. Uno di loro è
personalmente coinvolto, essendo il fratello minore di Heather, la
protagonista scomparsa del primo film. Al gruppo si aggiungono due
tipi un po' ambigui, un ragazzo e una ragazza del luogo, che dicono
di sapere qualcosa e possono fare da guida (viene eliso dall'universo
diegetico del film il primo sequel, BW2 – Il libro segreto delle
streghe, di Joe Berlinger). Molto confidenti nella tecnica, i
nostri eroi partono provvisti
di videocamere
auricolari con GPS
incorporato, una per
ciascuno, una telecamera
HD fissa e perfino un drone.
E'
proprio questa moltiplicazione degli apparati di ripresa a provocare
la seconda domanda, che manda al tappeto Blair Witch. Okay per
“chi filma”; ma “chi monta?”
Non
c'è neanche l'invenzione (come in The Blair Witch Project) del
ritrovamento e del possibile editing del materiale. Siamo
dentro la registrazione nel momento
stesso in
cui viene effettuata, e così,
chi
sceglie
fra le
differenti registrazioni? Lo
stesso passaggio da una telecamera all'altra è editing.
Ci
sono dei campi e controcampi di dialogo. Ci sono dettagli, che
implicano un montaggio: un personaggio guarda la registrazione della
telecamera fissa (posizionata su un ramo) sul suo tablet e noi
vediamo in dettaglio quello che vede. Nel finale, quando la ragazza
striscia nel tunnel, vediamo la sua telecamera che riprende parte del
suo corpo – e vediamo anche un controcampo di lei inquadrata da
davanti, come se fosse ripresa in un'inquadratura oggettiva. In altre
parole, in Blair
Witch
c'è
(ingenuamente visibile) un'istanza superiore che
si occupa del montaggio.
Certo,
potremmo postulare per convenzione che come spettatori abbiamo il
potere di spostarci fra le varie registrazioni visive (magari con
momenti di racconto “oggettivo”), recuperando l'onnipotenza dello
sguardo del cinema in generale; ma a questo punto, evidentemente,
risulta distrutta l'essenza stessa del film POV. Per
inciso, Blair Witch non
è il primo o il solo film a cadere in questa trappola; diciamo però
che lo fa con una percentuale di ingenuità (o sciatteria) che altri
stanno ben più attenti
ad
evitare.
Se
anche a qualcuno tutto ciò non importasse, comunque la sceneggiatura
è frammentaria e fiacca. Il film non ha un'ombra della drammaticità,
della convinzione, della naturalezza dei personaggi di The
Blair Witch Project. Gli
unici momenti che fanno effettivamente correre un brivido sono solo
due: quando qualcosa si muove dentro la ferita infetta nel piede di
una ragazza, e quando ricompaiono due dispersi e scopriamo che sono
passati cinque
giorni (mentre noi coi protagonisti abbiamo “vissuto” solo una
notte). I personaggi sono scialbi e mal definiti (per inciso:
non per essere politically correct, ma perché nelle cattive
sceneggiature, se nel gruppo c'è un negro, dev'essere sempre il più
stupido della compagnia?). La loro logica comportamentale lascia
pesantemente a desiderare (esempio: l'unico che crede fin dall'inizio
alle forze malefiche del bosco è quello che si allontana dal gruppo
in piena notte perché ha sentito un rumore inquietante e va a
vedere).
Va
aggiunto che Blair Witch cerca,
com'è naturale,
di costruirsi sul gioco fra intelligibilità e inintelligibilità
dell'immagine, con la mimesi delle telecamere fuori controllo, gli
errori di ripresa, i difetti tecnici e quant'altro;
ma questi
“errori” nel presente film appaiono più che altro opportunisti,
tesi soprattutto a tener desto l'aggancio visivo dello spettatore. Un
film POV “deve” avere una costruzione frammentaria, scomposta e
frazionata; ma qui lo fa con un girare in tondo per cui un film di 89
minuti sembra lunghissimo. A dirla tutta, più che un sequel sembra
in effetti un cattivo remake.
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