Nello
splendido The Witch, scritto e diretto da Robert Eggers, siamo
nel tetro New England puritano del Seicento. Una famiglia, padre,
madre e quattro figli, viene allontanata dal villaggio per dissensi
religiosi e si stabilisce al limitare della foresta. L'assalto delle
forze diaboliche, annunciato dalla misteriosa sparizione di un figlio
neonato, la distruggerà. La figlia maggiore, la giovane Thomasin
(Anya Taylor-Joy) è il fulcro di questo racconto psicologicamente
articolato, con una notevole descrizione dei personaggi e una verità
antropologica nella ricostruzione del passato.
La
narrazione, lontana dai consueti stilemi dell'horror, è sobria,
cupa, drammatica, audacemente scandita da “neri” lunghi e come
dolorosi. La magnifica fotografia di Jarin Blaschke possiede un tocco
pittorico che trasforma le frequenti scene di interni bui illuminati
dalle candele in senso rembrandtiano (mentre si potrebbe vedere un
ricordo di Andrew Wyeth nel nudo di spalle davanti alla foresta che
apre il finale).
Quando
la famiglia espulsa se ne va, la sua uscita dal villaggio su un
carretto è una semisoggettiva mentre il viaggio verso la foresta
cantando un inno è un'inquadratura oggettiva ripresa da dietro: i
protagonisti non se ne rendono compiutamente conto, ma è un'uscita
dal consorzio umano in un viaggio verso la wilderness:
la foresta dove
si annida il male. Perché la sterminata foresta americana non
è la foresta europea (che pure è luogo di creature mitiche); la
wilderness americana è un territorio totalmente altro,
in ragione della sua grandezza inconcepibile (i primi pionieri dovevano sentirsi come topolini entrati nella casa di un gigante).
Questa enorme distesa selvaggia integra la wilderness
interiore (ed ecco che la scena del “catechismo” fra padre e
figlio nella foresta, con la sua insistenza sul peccato originale
nella cupa visione calvinista, non è per nulla solo descrittiva).
Conquistare la prima vuol dire domare l'altra – ma qui
un'antropologia totalmente negativa come quella calvinista lascia
l'uomo pressoché disarmato. The Witch riprende perfettamente
il grumo di paure dei primi colonizzatori: in una parola, il sospetto
che il diavolo sia americano.
Così,
due campi, due territori si fronteggiano: la misera fattoria
assediata e l'immenso spazio boscoso che le si stende davanti. In
coerenza con le credenze tradizionali sulla stregoneria, che il film
tiene accuratamente presenti, i rappresentanti dell'assalto del male
sono gli animali: la lepre scura che appare nella foresta, il lupo
(solo evocato), i corvi, e naturalmente il caprone nero.
E'
pur vero che la scena della preghiera appena arrivati, rivolti verso
la foresta, riporta il volontarismo del pioniere puritano
(l'inquadratura che la precede, col cielo immenso sopra le colline, è
insieme sgomentante e consolante); ma già in questa scena il
commento musicale (ottimo lavoro di Mark Korven) le si oppone
significando ansia. Da notare che nella conclusione troveremo
un'inquadratura opposta, che è quasi un'immagine generatrice del
film: la testa di Thomasin, da dietro, in PPP, fuori fuoco, mentre a
fuoco è la foresta davanti a lei.
Ed
è pur vero che, come dice il padre al figlio Caleb, “Conquisteremo
questa terra selvaggia, non ci faremo distruggere”. Ma a
quest'affermazione risponde più tardi il “Moriremo tutti” della
madre disperata. Che la foresta non si lasci conquistare lo mostra,
prima ancora dell'attacco del male, il mais guasto e malato del
campo.
Lo
spirito di persecuzione puritano – lo stesso che si espresse lo
stesso secolo nei processi di Salem – attraversa il film fin dalla
scena di apertura, che mostra una condanna reciproca: allorché i
cittadini del villaggio espellono la famiglia, il padre annuncia la
loro dannazione. Bene si esprime nella cupa e commovente
“confessione” in preghiera dei propri peccati (miseri peccati!)
con la quale ci viene presentato il personaggio di Thomasin. Nel
corso del film, la famiglia puritana si disgrega in una rete di
obblighi e di patti/ricatti di silenzio, di segreti e menzogne per
omissione, che avvolge tutti. Sul che s'innesta il sospetto della
stregoneria (“Orridi simulatori tutti!” urla il padre).
Naturalmente nella diegesi di questo film, che è un alto esempio di
horror, le forze demoniache sono una realtà oggettiva, ma The
Witch non dimentica mai il doppio livello, le contraddizioni
entro la famiglia e il potere maligno che spira dalla foresta: doppio
livello che prima scorre parallelo e poi si fonde in un quadro di
veridicità impressionante. Nel quale rientra naturalmente la
sessualità: la nascita della sessualità adolescenziale di Caleb,
che prima si esprime in insistiti sguardi al seno della sorella
maggiore e poi viene sussunta in senso demoniaco (la strega dai
grandi seni nella foresta). A tale proposito, un tocco geniale è la
sensualità ambiguamente presente nell'invocazione a Gesù del
ragazzo morente, che contiene un vero frisson infernale.
Come
accade sempre nella caccia alle streghe la domanda è: chi di noi?
Chi è la strega (witch può essere anche maschile) nella
famiglia? L'aggressione esterna si rovescia in interna. Accuse e
controaccuse attraversano il film. E' Thomasin lo strumento
dell'infiltrazione diabolica,
o lo sono i due gemelli disobbedienti, che dicono di parlare
col caprone e inventano inquietanti canzoni in sua lode? “Siete
stregoni?”, è la domanda angosciata che Thomasin rivolge loro
quando sono rinchiusi insieme dal padre terrorizzato e furente.
Bisogna
aggiungere (a costo di un grosso spoiler) che l'innocente Thomasin,
quella più sospettata, è - entro un contesto horror, beninteso -
analoga alla Anne del dreyeriano Dies Irae:
il sospetto ingiusto di
stregoneria la renderà una strega nello sconvolgente finale. Nessuno
si salva, la preghiera si rivela inefficace; il diavolo vi prenderà
attraverso i vostri figli, sembra sussurrare la foresta ai due
genitori; nessuno è al sicuro perché nessuno è sicuro. Così il
film riprende il pessimismo radicale espresso da Nathaniel Hawthorne – che
del New England puritano è il cantore – nel famoso racconto Il
giovane Goodman Brown.
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