Un
commento
preso al volo dimostra
che Il
diritto di
uccidere
(Eye
in the Sky)
di
Gavin
Hood
è
un film riuscito: “Io non avrei saputo cosa rispondere”, sento
dire da una spettatrice all'uscita
dalla sala. Perché Eye
in the Sky
non è un thriller bellico-avventuroso (come suggerisce un
trailer un po' opportunista) ma un film morale – ovvero,
della
scelta.
Un
comando di militari e politici occidentali tiene
sotto sorveglianza elettronica (superbo il finto coleottero con
telecamera!) una casa di
città
in Africa
dove si sono riuniti alcuni capi terroristi (degli Shabaab)
super-ricercati: questi stanno armando
di cintura esplosiva
due
kamikaze, che fra poco provocheranno
una strage in
qualche luogo affollato. Siccome
il
quartiere è in
mano agli
Shabaab,
l'unica
possibilità
è
di uccidere
il gruppetto
tirando sulla casa un missile da un drone già
in volo.
I
militari sono per passare all'azione, i politici, che devono
autorizzarla, nicchiano, perché
presso
il muro esterno della casa ha messo il suo piccolo banco una bambina
che vende pagnotte di pane, e
ci sono altissime possibilità che resti uccisa nell'esplosione
(quella
bambina il pubblico già la conosce dallo svolgimento antecedente, e sa anche che lei pure è una vittima degli integralisti: il padre la fa studiare
di nascosto).
Sacrificare
un innocente per salvarne ottanta? Suona
alquanto
neutro, “innocente”. Concretizziamolo
meglio:
uccidere una
bambina
per salvarne molti
altri?
Questa
è quella che si chiama l'alternativa
del diavolo (che
non
è certamente nata con la guerra contemporanea).
Non
è semplice
matematica:
la differenza sta nel corpo e nel sangue.
Quale demoniaca equazione
può risolvere il rapporto fra il sangue di un innocente e quello di
molti? Non
per
nulla
una
risposta possibile
è l'obiezione
di coscienza del robot senziente che dovrebbe guidare
i droni nel recente
bel
film
coreano
Sori:
Voice from the Earth
di Lee
Ho-jae.
Il
punto
di merito di Eye
in the Sky
è
la nettezza
drammatica
con
cui pone
il
tema, creando
una
vera e propria suspense etica. Dipinge
con forza il modo
in cui il dialogo, congiungendo
in tempo reale quattro continenti, rivela
la nebbiosa
confusione fra il problema morale e quello più volgare di pararsi il
didietro (l'insistenza sui pareri legali) e, a ciò
connesso,
l'opportunismo dei politici (la
descrizione del loro frenetico scaricabarile è impietosamente
realistica).
E tuttavia, a
livello
della buona sceneggiatura di Guy
Hibbert, questi
non sono mai personaggi a tesi (con una singola
eccezione). Li
interpretano
ottimi attori fra i quali si segnalano i grandi anziani Helen Mirren
e Alan Rickman, alla sua ultima interpretazione.
I
limiti
del film attengono piuttosto a una
sorta di contraddizione fra sceneggiatura e linguaggio:
certi aspetti di fisiognomica (la burocrate americana che interviene
in collegamento) e di inquadratura sembrano a
tratti
voler
ridurre
all'alternativa “buoni versus
cattivi” una
dialettica
molto
più
complessa, e
con
ciò indeboliscono
la portata morale del dilemma. Difetto
minore, appaiono
come sovrapposti al dramma –
ossia
fanno
sentire il lavoro di sceneggiatura –
alcuni
tocchi di suspense tipicamente hitchcockiana, come i
pani venduti dalla bambina che diminuiscono sempre più (se
li vende tutti, va via e si salva, donde
la classica angoscia del tempo che scorre);
o
anche
la
telecamera-spia in casa dei terroristi che smette di funzionare,
benché
questo
abbia
una più
importante funzione
diegetica (l'imprevista
cecità rende più urgente la decisione).
Eye
in the Sky è
un
film sullo sguardo. E' cupamente
affascinante
nel mettere in luce una caratteristica essenziale della guerra
contemporanea, la rilevanza degli ordigni spia (“l'occhio nel cielo”): le
telecomunicazioni superano le distanze spaziali trasformando
l'“adesso non visibile” nell'“adesso visibile”: non
solo ora
ma
qui.
Va
detto che l'eliminazione
della
distanza visuale non sposta concretamente
il problema morale ma lo rende più lacerante a
livello individuale.
Prendiamo
a esempio il più terribile atto di guerra del Novecento. I piloti
che gettarono la bomba atomica su Hiroshima, volando nel loro aereo,
non vedevano la popolazione giapponese che sarebbe stata annientata.
Se pure lo prevedevano, la loro percezione dell'atto era astratta (il
momento della visione e del suo orrore, con lo shock del pentimento,
viene dopo). Il caso limite, che per fortuna il mondo non ha vissuto,
è il dito che schiaccia il bottone del missile atomico. Nel presente
film, i comandanti e gli operatori del drone vedono materialmente sul
loro schermo i loro bersagli e, molto più importante, quelli che
vengono chiamati eufemisticamente “danni collaterali”. Possono
esplorare e zoomare; vedono la bambina fino a contare i pani rimasti
sul banco (e poco prima l'hanno vista giocare con l'hula hoop).
Vedere
e non vedere, questa è la tragica contraddizione. Val
la pena di osservare che la
nuova
concretizzazione
visuale
offerta
dal progresso tecnologico ci
riporta a
prima
dell'invenzione preistorica
dell'arco e del giavellotto: la distanza è stata abolita, e così la
separazione visiva. Così l'astratto etico (si
può uccidere
uno per salvarne cento?) si collega drammaticamente al concreto
empatico del visto
da vicino.
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