lunedì 29 agosto 2016

Il diritto di uccidere

Gavin Hood

Un commento preso al volo dimostra che Il diritto di uccidere (Eye in the Sky) di Gavin Hood è un film riuscito: “Io non avrei saputo cosa rispondere”, sento dire da una spettatrice all'uscita dalla sala. Perché Eye in the Sky non è un thriller bellico-avventuroso (come suggerisce un trailer un po' opportunista) ma un film morale – ovvero, della scelta.
Un comando di militari e politici occidentali tiene sotto sorveglianza elettronica (superbo il finto coleottero con telecamera!) una casa di città in Africa dove si sono riuniti alcuni capi terroristi (degli Shabaab) super-ricercati: questi stanno armando di cintura esplosiva due kamikaze, che fra poco provocheranno una strage in qualche luogo affollato. Siccome il quartiere è in mano agli Shabaab, l'unica possibilità è di uccidere il gruppetto tirando sulla casa un missile da un drone già in volo. I militari sono per passare all'azione, i politici, che devono autorizzarla, nicchiano, perché presso il muro esterno della casa ha messo il suo piccolo banco una bambina che vende pagnotte di pane, e ci sono altissime possibilità che resti uccisa nell'esplosione (quella bambina il pubblico già la conosce dallo svolgimento antecedente, e sa anche che lei pure è una vittima degli integralisti: il padre la fa studiare di nascosto).
Sacrificare un innocente per salvarne ottanta? Suona alquanto neutro, “innocente”. Concretizziamolo meglio: uccidere una bambina per salvarne molti altri? Questa è quella che si chiama l'alternativa del diavolo (che non è certamente nata con la guerra contemporanea). Non è semplice matematica: la differenza sta nel corpo e nel sangue. Quale demoniaca equazione può risolvere il rapporto fra il sangue di un innocente e quello di molti? Non per nulla una risposta possibile è l'obiezione di coscienza del robot senziente che dovrebbe guidare i droni nel recente bel film coreano Sori: Voice from the Earth di Lee Ho-jae.
Il punto di merito di Eye in the Sky è la nettezza drammatica con cui pone il tema, creando una vera e propria suspense etica. Dipinge con forza il modo in cui il dialogo, congiungendo in tempo reale quattro continenti, rivela la nebbiosa confusione fra il problema morale e quello più volgare di pararsi il didietro (l'insistenza sui pareri legali) e, a ciò connesso, l'opportunismo dei politici (la descrizione del loro frenetico scaricabarile è impietosamente realistica). E tuttavia, a livello della buona sceneggiatura di Guy Hibbert, questi non sono mai personaggi a tesi (con una singola eccezione). Li interpretano ottimi attori fra i quali si segnalano i grandi anziani Helen Mirren e Alan Rickman, alla sua ultima interpretazione.
I limiti del film attengono piuttosto a una sorta di contraddizione fra sceneggiatura e linguaggio: certi aspetti di fisiognomica (la burocrate americana che interviene in collegamento) e di inquadratura sembrano a tratti voler ridurre all'alternativa “buoni versus cattivi” una dialettica molto più complessa, e con ciò indeboliscono la portata morale del dilemma. Difetto minore, appaiono come sovrapposti al dramma ossia fanno sentire il lavoro di sceneggiatura alcuni tocchi di suspense tipicamente hitchcockiana, come i pani venduti dalla bambina che diminuiscono sempre più (se li vende tutti, va via e si salva, donde la classica angoscia del tempo che scorre); o anche la telecamera-spia in casa dei terroristi che smette di funzionare, benché questo abbia una più importante funzione diegetica (l'imprevista cecità rende più urgente la decisione).
Eye in the Sky è un film sullo sguardo. E' cupamente affascinante nel mettere in luce una caratteristica essenziale della guerra contemporanea, la rilevanza degli ordigni spia (“l'occhio nel cielo”): le telecomunicazioni superano le distanze spaziali trasformando l'“adesso non visibile” nell'“adesso visibile”: non solo ora ma qui. Va detto che l'eliminazione della distanza visuale non sposta concretamente il problema morale ma lo rende più lacerante a livello individuale.
Prendiamo a esempio il più terribile atto di guerra del Novecento. I piloti che gettarono la bomba atomica su Hiroshima, volando nel loro aereo, non vedevano la popolazione giapponese che sarebbe stata annientata. Se pure lo prevedevano, la loro percezione dell'atto era astratta (il momento della visione e del suo orrore, con lo shock del pentimento, viene dopo). Il caso limite, che per fortuna il mondo non ha vissuto, è il dito che schiaccia il bottone del missile atomico. Nel presente film, i comandanti e gli operatori del drone vedono materialmente sul loro schermo i loro bersagli e, molto più importante, quelli che vengono chiamati eufemisticamente “danni collaterali”. Possono esplorare e zoomare; vedono la bambina fino a contare i pani rimasti sul banco (e poco prima l'hanno vista giocare con l'hula hoop).
Vedere e non vedere, questa è la tragica contraddizione. Val la pena di osservare che la nuova concretizzazione visuale offerta dal progresso tecnologico ci riporta a prima dell'invenzione preistorica dell'arco e del giavellotto: la distanza è stata abolita, e così la separazione visiva. Così l'astratto etico (si può uccidere uno per salvarne cento?) si collega drammaticamente al concreto empatico del visto da vicino
 

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