Robert Zemeckis ha sempre
amato dipingere le situazioni estreme. Un detective hard-boiled che vive in un mondo misto di umani e cartoons ed è
costretto a diventare lui stesso un cartoon (è il senso del finale di Chi ha incastrato Roger Rabbit). Un naufrago
su un’isola che ha solo una faccia dipinta su un pallone con cui parlare. Due
donne morte-vive che nascondono la decomposizione sotto chili di trucco. Un
pilota ubriaco costretto a compiere un volo coll’aereo rovesciato. E come dimenticare
le pericolose passeggiate nel tempo di Marty McFly?
Metaforicamente possiamo
dire che Zemeckis è attratto dai personaggi che camminano in bilico su una
corda. Ora la metafora si avvera con The
Walk, epica del funambolismo che
racconta la camminata sul filo di Philippe Petit fra le Twin Towers il 7 agosto
1974.
Sgombriamo subito il
campo dall’idea che l’attrattiva di The
Walk consista semplicemente nella camminata: scena madre, certo, ma
l’inevitabile fascino di un funambolo sul filo a 415 metri di altezza, con
sotto lo spazio vertiginoso in 3D, non basterebbe a supportare un intero film. The Walk vive per il suo senso
complessivo, e non solo per quella scena. Nonostante il suo linguaggio moderno,
è un solido film all’antica; Zemeckis – anche co-sceneggiatore con Christopher
Browne, dal libro di Petit - ha, in modo molto classico, diviso il film in tre
atti e un epilogo.
Primo atto: formazione.
Con un amabile tono bohémien (la
descrizione iniziale di una Parigi fatata, piena di giochi e spettacoli per
strada), e con uno svolgimento amoroso delicato, quasi da innamorati di Peynet,
il film ci mostra la passione di Petit (l’ottimo Joseph Gordon-Levitt,
addestrato da Petit in persona) per il funambolismo, nonché il suo primo
addestramento sotto la ruvida guida di Papa Rudy (Ben Kingsley). E’ in questa
sezione, più che nelle altre due, che Zemeckis sfoggia quella gradevole modernità
di linguaggio, che dà un tocco di leggerezza.
Nel secondo atto,
l’organizzazione della camminata fra le Twin Towers, il film diventa in tutto e
per tutto uno heist movie: un
thriller su un colpo grosso, come svuotare una banca. Il colpo di genio di
Zemeckis e Browne è proprio l’ostinazione nel raccontare un’azione certo not totally legal (sono parole vere di
uno dei “complici”) ma non criminale attenendosi accuratamente alla retorica e agli
stilemi del cinema del crimine: l’attenta preparazione, l’osservazione del
luogo, i complici infidi, l’audacia dei primi passi, la suspense
dell’inevitabile imprevisto che rischia di far saltare tutto. Così viene attivata
tutta quell’attrazione che arriva a farci battere il cuore per ogni intoppo
perfino quando vediamo preparare un’azione da galera (potenza del punto di
vista!), ma qui agganciandosi a quella leggerezza e quella tollerante adesione
psicologica già costruite.
Il terzo atto - la
camminata, inquadrata per lo più "a piombo" - è un’esplosione spettacolare: tutti i fili accuratamente preparati
in precedenza vengono tesi al massimo (non è un indice della riuscita del film
il fatto che ci sentiamo portati a parlarne con metafore tratte dallo stesso?).
C’è qualcosa di sadico nel modo in cui The
Walk sfrutta al massimo la durata, con Petit che quando vede i poliziotti accorsi
sulla Torre si volta e torna indietro, poi lo fa di nuovo, si inginocchia,
perfino si sdraia sul filo… Non importa qui quanto sia successo realmente e
quanto no (ci sono libri e documentari, ma si può trovare subito un
interessante articolo sul sito History vs
Hollywood). Quel che importa è che è grande cinema di suspense, la tensione
è come carta vetrata sui nervi, e si prova la voglia di unirsi ai poliziotti
nell’implorare Petit di smettere.
Ora parliamo del 3D.
Bisogna ricordare che il film è narrato in flashback dal protagonista che sta sulla
cima della Statua della Libertà, con sul fondo le Twin Towers nel sole, e in mezzo
uno specchio azzurro di mare. Quest’inquadratura ricorrente esprime visivamente
il concetto base del 3D come lo usa Zemeckis: la distanza. Siccome la natura del 3D è di amplificare la lontananza
fra i piani, esso favorisce l’idea di una distanza invalicabile; è lo stesso
uso che ne ha fatto Cuarón per Gravity (diverso,
naturalmente, quello bellissimo di Wenders in Ritorno alla vita). Il 3D in The
Walk serve a mettere in risalto questa distanza paurosa del sotto, così lontano oltre il vuoto
dell’aria, e così tanto più minaccioso. I
funamboli, ci informa Petit nel film, non guardano mai in basso. Ma noi
spettatori sì, noi guardiamo per lui,
e l’abisso del 3D è per noi.
La parte finale fornisce
un caldo, e imprevedibile, epilogo. Mentre molte sceneggiature avrebbero
insistito sul successo raggiunto, o avrebbero smiagolato sull’improvvisa
separazione fra Petit e la bella (Charlotte Le Bon), The Walk si eleva a un tono umanistico diventando un’elegia delle
Twin Towers - alle quali l’impresa di Petit ha “dato un’anima”.
Non c’è mai, in questo sguardo retrospettivo, una
menzione nemmeno implicita all’11 Settembre. Proprio questa omissione, così
voluta, così patente, da rientrare nella figure retorica dell’aposiopesi (o
reticenza), rende il disastro delle Twin Towers di nuovo dolorosamente vicino. E
qui diventa possibile tracciare un collegamento ideale con la Parigi sognante del primo
atto: dopo l’11 settembre quella spensieratezza dans la rue è diventata un ricordo, appartiene allo stesso modo
delle Twin Towers nel sole alla dolcezza di un passato che è passato.
1 commento:
Miglior commento critico che io abbia letto. :)
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