A
onta del pregiudizio di portasfiga del numero, la diciassettesima
edizione del Far East Film Festival di Udine (aprile-maggio 2015) non
poteva andar meglio. Mi ripeterò, ma la cosa che si nota a prima
vista in questo festival è la sua atmosfera felice. Il concerto di
Joe Hisaishi il giorno prima dell'apertura, la rutilante apparizione
di Jackie Chan in persona il primo giorno (per inciso, una lezione di
gentile professionalità per tutti quei divetti italiani che se la
tirano, mentre non sarebbero riconosciuti se andassero a
Capodistria), i bambini e adulti filippini in estasi davanti ad Anne
Curtis, la
simpatia degli ospiti
in generale: queste immagini mantengono nel ricordo un calore che,
come dire, ti illumina il giorno.
Sì,
ma i film? Ebbene, anche in un'annata che non si può considerare la
migliore del cinema asiatico, il festival è riuscito a presentare
almeno un capolavoro, 0.5mm
di
Ando
Momoko, e una pattuglia di ottimi film, fra i quali una tripletta
coreana che ha fatto man bassa dei premi del pubblico.
Ma
restiamo in Giappone.
Ferma restando la preminenza del citato 0.5mm
(vedi
scheda sotto),
vorrei segnalare subito la splendida coppia Parasyte
e Parasyte
2
di Yamazaki Takashi, un regista (da Always
– Sunset on Third Street
a The
Eternal Zero)
unisce alla verve narrativa una forte carica di umanità. Vale anche
per questi due film di invasione aliena, in
cui
dei parassiti intelligenti si impossessano degli umani producendo
memorabili trasformazioni orrorifiche, e nutrendosi del primo
malcapitato che passa. Portando sullo schermo il manga di Iwaaki
Hitoshi, Yamazaki realizza un grande fantahorror pieno di suspense,
venato di umorismo e popolato di personaggi memorabili - a partire
dal protagonista due-in-uno, il giovane Takashi e il parassita Migi
che abita nella sua mano destra (come frutto di una possessione mal
riuscita): una coppia di amici-nemici e poi amici che avrebbe
divertito Howard Hawks.
Conviene
ricordare come nel Sei-Settecento andasse di moda in letteratura
sottoporre la civiltà europea ad analisi critica attraverso l'occhio
di un osservatore “alieno”: persiani (nelle Lettres
Persanes
di Montesquieu), irochesi, seleniti (in Cyrano de Bergerac), fino
agli abitanti delle isole impossibili di Swift. Ebbene, Parasyte
fa
qualcosa di simile: questi parassiti che impadronendosi dei cervelli
umani arrivano a una specie di para-umanità (un tema esplorato
specialmente attraverso il personaggio della dottoressa) consentono
al film di elaborare uno sguardo esterno e tuttavia partecipe, con
notevoli risultati satirici e a modo loro filosofici.
Altro
regista ricco di calore umano è Okita Shuichi (di cui abbiamo visto
un paio d'anni fa The
Woodman and the Rain).
Il suo Ecotherapy
Getaway Holiday è
un piccolo film basato su un concetto semplicissimo: un gruppo di
donne ultraquarantenni si trovano perse e abbandonate a se stesse
durante una gita in un posto montagnoso del Giappone - che,
dimensioni a parte, ricorda il Friuli. Pieno di episodi gustosissimi,
il film è molto preciso nel descrivere “in punta di penna” i
piccoli tratti dei personaggi: è una commedia di osservazione, dove
anche l'elemento di essersi perdute non rappresenta la peripezia
narrativa ma serve a dare un punto d'appoggio all'interazione. Le
rivelazioni sulle loro vite e personalità che emergono via via
compongono un ritratto psicologico non banale.
Il
delizioso Make
Room
di Morikawa Kei, visibilmente tratto da un lavoro teatrale (dello
stesso regista), si svolge tutto nella sala
del make-up del tournage
di un film AV, cioè un porno. Non è però un film erotico; anzi, è
castissimo, a parte il dialogo sboccato (ma alla giapponese, non
all'americana, vale a dire senza volgarità), che deriva dal contesto
professionale. Per dare un'idea, ricorda Rumori
fuori scena
di Bogdanovich: è un film sul backstage,
molto divertente, molto ben recitato e anch'esso pieno di calore
umano senza esagerazioni. Piace il suo sguardo “affettivo” ma
realistico, realistico ma non moralistico, sul mondo del porno. Si
vede bene che il regista Morikawa ne proviene!
Un
altro film, meno bello, che getta uno sguardo sul backstage
del
cinema (qui i film di supereroi e mostri per bambini, alla Power
Rangers) è il passabile Unsung
Hero
di Take Masaharu (del quale ho perduto 100
Yen Love).
Commovente il suo omaggio all'umile arte dello stuntman. Ben più
rilevanti però sono il folle The
End of the World and the Cat's Disappearance di
Takeuchi Michihiro
e il sentimentale
Forget
Me Not
di Horie Kei (per
ambedue, vedi schede sotto).
Delude
invece Kabukicho
Love Hotel,
del bravo ma irregolare Hiroki Ryuichi. Questo film su un “hotel
dell'amore” è, come
si suol dire, telegrafato, con personaggi e dialoghi troppo
visibilmente ad effetto, con pagine sentimentali ovvie (non per il
contenuto: per la realizzazione). Fra queste storie interlineate,
l'unica veramente riuscita è quella dei due poliziotti vanno
all'hotel per far sesso e si accorgono che la cleaning
lady
è una ricercata. Sarebbe stato meglio incentrare su di essa l'intero
film. Anche la resa degli attori è varia: bene le interpreti
femminili, ma il protagonista Sometani Shota è un belloccio
totalmente inespressivo che lavora contro il film.
Hong
Kong
era presente con alcuni supercolossi in coproduzione con la Cina, a
partire da Dragon
Blade di
Daniel Lee che ha inaugurato il festival. Se entrerà nelle storie
del cinema, più che per il valore artistico è per i valori
produttivi: questo film costosissimo unisce Jackie Chan agli
hollywoodiani John Cusack e Adrien Brodyper una bizzarra fantasia
storica che fa incontrare nel 48 a.C.i cinesi dell'Impero con una
legione di antichi romani sperduta sulla Via della Seta, divisa tra
buoni e cattivi. E' un film gradevole, super-solenne e mortuario,
basato sulla logica del sacrificio, con dell'ottima action
e una messa in scena spettacolare. La scena in cui tutte le etnie
guerriere della Via della Seta scendono in campo contro gli invasori
– ciascuna accompagnata da un diverso strumento per la propria
musica marziale – da sola vale il prezzo del biglietto.
Invece
è mediocre Helios
di Sunny Luk e Longman Leung. A parte le vivaci scene d'azione non
c'è nulla; può essere interessante il suo aspetto “panasiatico”
- ma alla fine (che resta sospesa, essendo questo un primo capitolo)
ad affrontare il cattivissimo Helios restano solo i cinesi, cioè chi
ha messo i soldi per il film. Osservazione personale: io nei gialli
non capisco mai in anticipo chi è l'assassino, in Helios
invece l'ho capito non appena è comparso, e ne ho avuto la conferma
(spoiler) quando a un certo punto annuncia coram
populo
che va a telefonare. O sono diventato intelligente, o la
sceneggiatura è sciocca (temo la seconda).
Ma
più doloroso è ammettere di esser rimasti delusi dal kolossal di
chiusura The
Taking of Tiger
Mountain
del grandissimo Tsui Hark. Certo, l'action
fa strabuzzare gli occhi (più di tutte una scena che coinvolge una
tigre) ma da Tsui Hark ci si aspettava che fosse inserita in un
racconto - qui invece assai scialbo. In questo senso, The
Taking è
l'anti-Detective
Dee.
Non a caso le sole figure interessanti sono la folle coorte dei
cattivissimi, nella quale si infiltra l'eroe, con un gioco di inganni
debitore alla tradizione wuxia.
Com'è
noto, Hong Kong, sempre più schiacciata dal regime cinese, cerca di
riaffermare nel cinema la propria individualità. Un esempio, pur
essendo una coproduzione, ne è Kung
Fu Jungle
di Teddy Chen. Storia della lotta fra un ex carcerato e un serial
killer, ambedue maestri di kung fu, si svolge interamente nel mondo
delle arti marziali, con buona tensione e sicurezza narrativa. Ma
soprattutto è un omaggio affettuoso al vecchio mondo del cinema di
arti marziali hongkonghese, recuperandone tutti i personaggi-simbolo
in un'orgia di cameo e citazioni.
Passando
ai film di provenienza interamente hongkonghese, il più bello, e uno
dei migliori del festival, è l'impegnativo Port
of Call
di Philip Yung. Tratto
da un fatto reale, è un'investigazione sull'assassinio di una
prostituta sedicenne – dove il problema non è chi sia l'assassino
ma perché l'ha uccisa e ne ha smembrato il cadavere (in una
sequenza molto grisly).
L'investigazione, condotta da un poliziotto malinconico (Aaron Kwok),
è più che altro uno scavo psicologico; però alla fine il mistero
delle psicologie e delle motivazioni è stato, volutamente, appena
scalfito. Più che un thriller è quasi un film d'essai che
riorganizza la materia del thriller, sull'antica domanda: da dove
viene il male? Il regista e sceneggiatore Yung si affida a uno stile
estremamente moderno, con uno svolgimento ellittico in cui la
narrazione si compone di frammenti spesso enigmatici che saltano
avanti e indietro da un anno all'altro. Non è quindi inutile notare
che nei ringraziamenti sono menzionati autori come Ann Hui e Fruit
Chan, e che c'è Patrick Tam fra gli interpreti.
Infine,
i giovani del concorso hongkonghese di cortometraggi Fresh Wave
mostrano che ci sono sempre nuove energie in crescita, e potrebbero
essere i nomi (anche del Far East Film Festival!) di domani. Vorrei
menzionare in particolare Being
Rain:
Representation and Will di
Chan Tze-woon per la genialità dell'idea (l'ipotesi di una
cospirazione cinese per far piovere ogni volta che c'è una
manifestazione per la democrazia) e iPhone
Thieves
di Louis Wong, per la sicurezza con cui realizza nel breve spazio del
cortometraggio un autentico thriller hongkonghese, dando anche
spessore al personaggio del protagonista.
Passiamo
da HK alla Cina
continentale
- il che è proprio quanto ha fatto il regista hongkonghese Pang
Ho-cheung, un regular
del festival, che in Cina ha realizzato Women
Who Flirt.
Una commedia dove c'è qualche scena o battuta carina, ma dell'audace
Pang Ho-cheung è rimasto poco, salvo alcune cosette stilistiche
(accelerazioni ecc.) che sembrano messe a mo' di firma. La commedia
cinese del genere “come siamo diventati ricchi” continua a fare
vittime! Comunque, una grande come Ning Ying ha fatto di peggio col
suo ultimo film, l'orrido Romance
Out of Blue,
che gli spettatori del Far East Film non hanno visto - e per questo
dovrebbero offrire una pinta di birra ai selezionatori.
Invece
un
wuxiapian veramente
bello, anche al di là del fascino proprio del genere,
è
Brotherhood of Blades di
Lu Yang. Parla di tre spadaccini della polizia segreta imperiale
incaricati di scovare un ex potente che ora è ricercato; ma come
sempre nelle lotte di potere, è alle tue spalle che si nasconde il
pericolo maggiore. Dai wuxia
non si pretendono psicologie bergmaniane, ma certamente personaggi
ben delineati entro una trama intrigante, e questo Brotherhood
of Blades lo
provvede in abbondanza. E' ottima la caratterizzazione dei tre
protagonisti (giustamente Maria Barbieri in una bella scheda sul
catalogo del festival menziona Dumas); idem per i cattivi,
fra i quali spicca per una convincente bizzarria maligna l'eunuco
Wei.
Zhang
Meng, che anni fa aveva presentato al festival il
bellissimo The
Piano in a Factory,
conferma le sue doti con Uncle
Victory,
una storia
di pentimento e redenzione dove un ex gangster che ha passato 10 anni
in prigione (Huang Haibo) mette su un asilo infantile, aiutato
dall'infermiera tough-as-nails
Zhang Xinyi. Non è una commedia, anche se i bambini dell'asilo
provvedono molti momenti divertenti, ma un film nostalgico (sul
passato e sulle cose che si dovevano fare e non si son fatte) e
drammatico. La mano dell'autore
di The
Piano in a Factory
è riconoscibilissima: la recitazione impassibile dei personaggi, il
concetto del movimento (staticità rotta da improvvisi sbalzi di
velocità), lo stile della fotografa, l'amore scenografico per gli
scenari desolati dell'archeologia industriale da un lato e il teatro
dall'altro, tutto si colloca in una linea di continuità con quel
film. Zhang Meng è un autore assolutamente da seguire.
Mi
scuso per non aver visto altro della selezione cinese; lo stesso vale
per la
“terza Cina”, Taiwan,
presente con soli tre film quest'anno, dei quali ho visto uno solo:
Meeting Dr. Sun
di Yee Chih-yen, non sgradevole ma in ultima analisi trascurabile.
Un'altra
nazione poco rappresentata quest'anno, dopo la grande esplosione
dell'anno scorso, sono state le Filippine.
E' intelligente e divertente la
commedia The
Gifted
di Chris Martinez, storia amabilmente sfacciata di due amiche poi
diventate nemiche fin dai tempi della scuola, che tanto erano brutte
alolora quanto diventano belle dopo (sono Cristine Reyes e la
glamorous
Anne Curtis). Martinez, che è uno dei migliori sceneggiatori
filippini, ci costruisce intorno una umoristica riflessione
metanarrativa, che sfocia dopo i titoli di coda in un rovesciamento
radicale (ciò non stupirà chi conosce il capolavoro di Marlon
Rivera
The Woman in the Septic Tank,
che Martinez ha sceneggiato).
Una
commedia assai diversa, meno spumeggiante ma sempre piacevole, è
Where
I Am King
di Carlos Siguion-Reyna, che mette in scena le differenze di classe -
nonché la lotta fra generazioni - nella storia di tre ricchi (un
nonno e i nipoti) che vanno ad abitare nel quartiere più povero di
Manila.
In
compenso la Corea
non solo era presente in forze ma, come anticipato sopra, si è
pappata il primo, secondo e terzo premio del pubblico (un colpo
riuscito in precedenza solo al Giappone). Il film vincitore è il
pregevole e commovente Ode
to
My
Father di
J.K. Youn. Attraverso la storia della vita di un uomo ossessionato
dal senso di colpa - da bambino ha perso la sorellina durante
un'evacuazione nella Guerra di Corea - e dalla memoria del padre,
perduto nella stessa occasione, il film si allarga al racconto della
storia dell'intera nazione: dall'invasione cinese fino al giorno
d'oggi, passando per l'emigrazione nelle miniere in Germania e la
guerra del Vietnam. Chi durante il film non ha mai avuto gli occhi
umidi – beh, probabilmente non dovrebbe andare al cinema.
Al
secondo posto è stato votato il film storico The
Royal Tailor
di Lee Wok-suk, già vincitore in passato con How
to Use Guys with Secret Tips (ha
detto sul palco di considerare Udine la sua seconda casa). L'impianto
di questo racconto di rivalità fra due sarti di Corte è sempre
quello del mito di Mozart e Salieri: il mix di invidia e ammirazione
di un artista di successo per un artista innovatore più dotato di
lui. Non è solo la sontuosità di costumi e scenografie a imprimersi
sullo schermo ma una tragedia personale e d'ambiente (gli intrighi di
Corte).
Al
terzo posto My
Brilliant Life di
E J-yong,
davvero un grande del cinema coreano. Anche se in Corea è quasi un
genere quello delle malattie e della morte (pensiamo a ...ing
di
Lee Eon-hee), ci vuole sia coraggio sia grande arte per fare un film
come My
Brilliant Life, il
ritratto di un sedicenne colpito da progeria - una malattia che fa
invecchiare a ritmo accelerato, e infatti lui sembra un vecchio - e
la cronaca del suo ultimo anno di vita con i suoi genitori. O meglio,
farlo senza finire nel Kitsch della spettacolarizzazione del dolore e
della retorica strappalacrime. Questo è un film estremamente
commovente, certo, ma mai piagnone: è attraversato da una serietà e
una leggerezza (e perfino un sense
of humour)
ammirevoli. Le interpretazioni del padre, della madre e del vicino di
casa sono eccellenti (rispettivamente Gang Dong-won, Song Hye-kyo e
Bauk Il-seob), ma è sconvolgente quella dell'attore bambino Jo
Sung-mok, il cui realismo assoluto va oltre quello impressionante del
makeup di Greg Cannom.
Fra
gli altri film coreani (non tutti visti) presenti al festival vorrei
segnalare Confession
di Lee Do-yun. Si tratta di un thriller psicologico del genere
"Delitto e castigo", dove conosciamo fin dall'inizio
l'accaduto ma l'argomento è la progressiva disintegrazione psichica
di tre amici d'infanzia: due che sono colpevoli (uccidono senza
volerlo la madre del terzo durante una rapina, con lei complice, per
fregare l'assicurazione) e il terzo, che non ha idea che siano stati
loro e vuole trovare l'assassino col loro aiuto. Le tre
interpretazioni - diverse come stile - sono spettacolose. Non capita
tutti i giorni
di vedere un giallo coreano così solido: prosegue in modo
nettissimo, matter
of fact,
con una specie di ferocia consequenziale sul piano narrativo e senza
la minima sbavatura.
Gangnam
Blues di
Yoo Ha (del quale, a proposito di film storici, vorrei ricordare
l'ottimo A
Frozen Flower)
ci porta nel quartiere oggi più fashionable
di Seul quando era solo un villaggio contadino, e la speculazione
edilizia basata sul gangsterismo si apprestava a papparselo.
Sicuramente debitore al cinema americano (Scorsese e Coppola) è un
vasto affresco gangsteristico e politico, che segue il modello della
“vita esemplare” raddoppiandolo in due protagonisti, la cui
ascesa è destinata a finir male.
Anni
fa
TAZZA: The High Rollers di
Choi
Dong-hoon, un
thriller sul gioco d'azzardo tratto da un manga coreano, aveva avuto
grande successo in patria (ed era anche piaciuto al Far East Film).
Ora trova un seguito con TAZZA:
The Hidden Card
di Kang Hyoung-chul, sempre ambientato nel mondo dei giocatori e dei
bari. Film piacevolissimo,
pieno di musica, spirito e vivacità, dalla prima scena col bambino
terribile fino a una magnifica partita a carte (giocata seminudi per
ridurre le possibilità di imbroglio) alla fine. C'è una scena di
romanticismo sanguinario assai bella, e sul piano dell'azione il film
funziona come un orologio (vedi lo scambio “ostaggi contro denaro”
con benzina e accendino, o poco dopo un car
chasing
velocissimo).
Infine,
in un anno di nuovo privo dell'Horror Day, non dimentichiamo il
notevole psycho-horror The
Wicked
di Yoo Young-seon (vedi
scheda sotto).
Il
2015 è stato l'anno del debutto al Far East Film Ferstival della
Cambogia,
un debutto importante, visto che The
Last Reel
di Sotho Kulikar ha vinto il premio Black Dragon (voto degli
abbonati sostenitori). Dedicato alle vittime della crudeltà dei
Khmer Rossi, è un melodramma imperniato sul tentativo di ri-girare
l'ultima bobina, perduta, di un film realizzato subito prima che
questi assassini si impadronissero del paese. Pur con qualche tratto
di ingenuità didattica nella sceneggiatura di Ian Masters, specie
nella caratterizzazione dei personaggi, è un film convincente. Degno
di nota l'aspetto metacinematografico, con un'affascinante
rispecchiamento, che si rivela a poco a poco, tra l'antico
film-nel-film e la vicenda dei protagonisti.
L'Indonesia
era rappresentata da un solo film, ma significativo, Siti
di Eddie Cahyono. Girato in b/n, il
semplicissimo e raffinato film indonesiano parla di una donna dalla
vita difficile: è poverissima e indebitata, perché il marito
pescatore è paralizzato in letto dopo un incidente in cui ha perso
la barca. Siti vive con lui, con una suocera molto umana e con un
figlio bambino piuttosto discolo. La cosa peggiore è che da quando
lei ha cominciato a lavorare al karaoke per guadagnare qualche soldo
il marito non le parla più. Siti è stanca di lui, ed è anche
corteggiata da un poliziotto che le piace, ma cerca di tirare avanti.
La freschezza nel
fotografare situazioni d'ogni giorno (i lavori in casa) e rapporti
umani (quello col figlioletto ma non solo), la quieta espressività
con cui il film riferisce i dolori quotidiani, e contestualmente la
nettezza di questa ambientazione poverissima – tutto ciò mi sembra
debitore della lezione (si capisce, estremamente superiore) di
Satyajit Ray. Sono storie di vinti, ma non rassegnati. La
protagonista Sekar Sari, dal viso non bello ma interessante,
trasmette tutto questo con una recitazione minimale, di ottimo
livello. Magnifica la fotografia in b/n di Ujel Bausad: per citare
solo un esempio, il finale – che allude al suicidio in mare – con
Siti che cammina nel buio è davvero imponente.
Chi
scrive non aveva mai sentito parlare di Viet-horror, ma sì: esiste
una produzione horror in Vietnam!
Lo testimonia Hollow
di Tran Ham: è un (ambizioso) horror in senso stretto, con
possessioni di spiriti a catena; evidentemente il Vietnam non segue
la stupida politica proibizionista della Cina in merito. Il
sottotesto, poi, parla di ragazzine che i gangster rapiscono per
venderle ai bordelli dove i ricchi le possono stuprare, e siccome il
film è di ambientazione contemporanea pare un'ammissione abbastanza
franca delle magagne locali; unico accenno “ufficiale”
un'irruzione della polizia, messa in scena in modo piuttosto
ridicolo; per il resto davvero sembra un paese senza legge. In
sé il film ha aspetti positivi (i trucchi sono discreti, la figura
della bambina posseduta è adeguatamente sinistra,
la
prima parte è agile), ma anche negativi: la seconda parte è un po'
gonfia dal punto di visto narrativo, a tratti quasi confusa, anche se
è quella in cui si scoprono gli altarini; ci sono alcune goffaggini
nella caratterizzazione dei personaggi; gli attori non sono tutti di
buon livello (pessimo il patrigno che poi si rivela il cattivo, ad
esempio).
Restiamo
in campo horror per parlare della Thailandia.
The
Swimmers di
Sophon Sakdaphisit è
interessante, ha molte idee, ma le mischia a delle ingenuità (fra
cui i classici “soprassalti a vuoto” dell'horror povero). Uno
sceneggiatore più esperto avrebbe isolato l'idea migliore di tutte -
il tema dell'aborto e dell'uomo incinto (un rovesciamento di
prospettiva anche morale, una delle poche volte che il discorso
critico di gender
è giustificato) - costruendoci sopra tutto il film; qui invece esso
si sviluppa nella seconda parte, misto a molto materiale secondario
quando non inutile. Ma ciò non vuol dire che il film non abbia dei
numeri. L'autore ha visibilmente studiato e ristudiato Hitchcock.
Anche l'ambientazione nel mondo dei nuotatori sportivi e delle
piscine – per una volta, senza influenza del J-horror – mi sembra
nuova.
Sempre
dalla Thailandia arriva l'apprezzabile The
Last Executioner,
che Peter Waller ha tratto dal libro di memorie dell'ultimo boia
thailandese. E' un ambizioso biopic
sull'ultimo carnefice (l'ultimo prima che si passasse dall'esecuzione
con arma da fuoco all'iniezione letale), che riesce a concentrarsi
sulla sua psicologia e la sua riflessione sul karma senza cascare nel
pamphlet all'americana. Il quadro che ne emerge è variegato e
completo (un carnefice che ama Elvis e sognava da giovane di
diventare una rock star non si incontra tanto spesso), ben servito
dall'interpretazione di Vithaya Pansringarm. Notevoli le scene della
prigione, impressionanti quelle delle esecuzioni. Il film tiene un
piede saldamente nel realismo e l'altro, in modo via via più
evidente, nel simbolismo fantastico; l'inquietante attore David
Asavanond - che avevamo già visto come spirito vendicativo in
Countdown
di Nattawut Poonpiriya – appare anche qui nel ruolo di uno spirito
presente nella vita/nella psiche del protagonista. Forse nella parte
finale questo simbolismo diventa un po' opprimente, ma anch'esso
contribuisce alla riuscita del film.
Il
terzo film della selezione è saldamente ambientato in Thailandia
anche se è un po' un mix internazionale, coproduzione
thai-indonesiano-americana diretta da un regista coreano-americano.
How
to Win at Checkers (Every Time) di
Josh Kim è la storia, raccontata
in flashback, di una crescita nell'ambiente povero thailandese e del
rapporto del bambino col fratello maggiore (che è omosessuale, ma
questo in Thailandia non sembra comportare il minimo problema). Il
film ha i suoi difetti: un uso eccessivo della voce narrante nella
presentazione dei personaggi all'inizio, alcuni cali di ritmo, un
personaggio di cattivo (il giovane Junior) del tutto inutile. Però
Josh Kim ha talento, sa lanciare uno sguardo sulle cose, e il film
aumenta man mano di ritmo e di livello. Anche
a parte l'aspetto estetico, il film desta l'interesse per la
rappresentazione tanto del mondo della prostituzione omosessuale, con
una notevole scena in un bar gay, quanto del curioso sistema
thailandese del servizio di leva per estrazione a sorte.
Uno
pensa a Singapore
come a un posto piuttosto noioso – o almeno, con un cinema poco
vivace. Ebbene, ecco
che arriva a smentirci una commedia delirante e assolutamente
oltraggiosa, Rubbers
(“Preservativi”) di Han Yew Kwang. Che fa anche cambiare idea
sulla censura di Singapore: evidentemente la nudità è assolutamente
proibita, nemmeno un capezzolo, ma tutto il resto è permesso, da
mimare il pompino in mille maniere a un'orgia di condom e dildo in
primo piano (usati in tutti i modi possibili), al linguaggio e alle
gag più spinte.
E'
una raccolta di tre storie interlineate sul tema dei condom, una
realistica con un fondo sentimentale, due fantastiche e surreali (in
una appare un condom umano come consigliere invisibile di una condom
reviewer
che vuole sedurre un idraulico, ma ancora più divertente è l'altra,
a sfondo onirico, in cui la barzelletta della donna che rimane
attaccata per la bocca facendo un blowjob
all'uomo viene prolungata e declinata nel modo più perverso). Il
divertimento non viene solo dall'argomento: la regia è buona, al
pari della recitazione (vedere una seria attrice sessantenne che
maneggia un dildo con assoluta nonchalance vale da solo il prezzo del
biglietto). Rubbers
vince
il piccolo premio im/morale di questo blog quale film più bawdy
del festival.
Inutile,
infine, menzionare l'importanza delle sezioni collaterali dei
documentari
(apprezzatissimo quello di Sunada Mami The
Kingdom of Dreams and Madness,
uno sguardo in profondità sullo Studio Ghibli), dei classici
restaurati (fra
i quali ho spazio per menzionare solo lo sconvolgente The
Tragedy of Bushido
di Morikawa Eiko), e infine la sezione retrospettiva Martial
Arts
curata da Roger Garcia, che ha permesso agli spettatori di vedere o
rivedere alcuni classici del genere – stimolando il rimpianto per
un cinema povero e sincero che, quale che sia lo state
of the art del
cinema
hongkonghese e asiatico, comunque non si fa più.
Nessun commento:
Posta un commento