martedì 2 giugno 2015

Youth

Paolo Sorrentino

I protagonisti del cinema di Sorrentino hanno per così dire messo il cuore tra parentesi. Figure chiuse, che nascondono anche a se stessi il dolore e l'incertezza del vivere sotto uno strato di apatia (una parola importante in quel capolavoro che è Youth).
Si sa, i grandi registi declinano un tema fisso nei loro film. Hitchcock – l'uomo comune che si accorge che il mondo è un posto irrazionale e oscuro. Ozu – la crisi di una famiglia sotto l'inevitabile mutevolezza delle cose della vita. Welles – la caduta di un personaggio “shakespeariano” bigger than life. Kubrick – la sconfitta della pianificazione davanti all'imprevedibilità del destino. Ford – la dolorosa marcia della civiltà americana verso il futuro. Hawks – il professionismo del maschio che viene sconvolto dall'incontro con la donna. In Sorrentino: l'uomo che si è creato una barriera, e il modo in cui questa barriera entra in crisi.
Youth è un film sull'uomo davanti al tempo, ma costruito sulla forma del rodere del tempo, e della vita, che scavano su quella corazza che tutti noi ci formiamo intorno, ma per molti di noi diventa un guscio, una dura conchiglia. Ora, da un lato tale processo si cristallizza sovente col procedere dell'età, dall'altro è proprio l'età, con la forza delle cose e del tempo, che contribuisce a incrinare il guscio. Per questo troviamo tanti vecchi nel cinema di Sorrentino. Ed è stupenda l'idea di guardare la giovinezza attraverso il cannocchiale rovesciato (c'è nel film una precisa immagine in proposito) della vecchiaia.

Siamo in un albergo di lusso in Svizzera (direi che nel film si aggira l'ombra di Thomas Mann, La montagna incantata), dove tutti gli ospiti sembrano lì per fare i conti con se stessi. I protagonisti Fred e Mick sono ottantenni, amici da una vita. Fred Ballinger (Michael Caine) è un compositore e direttore d'orchestra in ritiro, tampinato da un buffo e nervoso inviato della Regina d'Inghilterra perché accetti di dirigere le sue Canzoni semplici in un concerto che Sua Maestà vuole offrire al Principe Filippo per il suo compleanno. Ma lo spinoso musicista rifiuta senza dare spiegazioni.
La parola chiave per intendere Fred, che ha una storia familiare disastrosa alle spalle, è appunto apatia. Di completa aridità morale (“Non hai mai dato niente”) lo accusa sua figlia Lena (Rachel Weisz), mentre sono coperti di fango terapeutico, in una di quelle analisi accusatorie spietate che conosciamo da Bergman. Nota che più in là nel film l'alpinista Luca inizia goffamente il corteggiamento di Lena raccontandole di un suo cugino scalatore di vette che si è rotto un braccio in bagno, e lei: “La vasca da bagno è più pericolosa dell'Everest”. Non credo sia sbagliato vedervi anche un senso ironicamente metaforico, di rispecchiamento del concetto ritornante nel film e in tutta l'opera del regista: la quotidianità è più pericolosa dell'evento eroico, perché appunto apre la strada all'aridità.

L'altro protagonista è Mick Boyle (Harvey Keitel), un famoso regista ora in declino. La scena in cui in un momento di disperazione “vede” tutti i personaggi femminili dei suoi film sul versante della collina è un'antologia del cinema: la fantascienza, l'horror (una Carrie), il thriller, il dramma in costume, il mélo; perfino una Eva; e una Gilda in b/n, che pronuncia una battuta memorabile. Mick sta scrivendo il suo ultimo film insieme a un gruppo di sceneggiatori – un gruppo, per inciso, divertentissimo: perché Youth è attraversato da una vena di humour delizioso. A un certo punto sembra che due giovani sceneggiatori, innamorati senza saperlo, stiano provando un dialogo, e invece stanno litigando per amore (Sorrentino è specialista in queste false piste).
Il film-testamento di Mick si chiama “L'ultimo giorno della vita”, e la sceneggiatura è pronta, salvo il finale: i tentativi per trovarlo sono un tormentone di Youth, ma qui l'umorismo si colora di nero, perché è un'evidente premonizione; in Sorrentino la morte è sempre una presenza forte del film. Ora, Mick ha la possibilità di fare il film solo perché vi parteciperà la non più giovane star Brenda Morel (Jane Fonda), di cui lui è innamorato. Ma Brenda - una superdura che parla come uno scaricatore di porto - arriva e gli annuncia che non farà più il film. Il furioso litigio che segue (“Non sai più vedere il mondo - sai vedere solo la tua morte che è lì dietro l'angolo che ti aspetta”) a un certo punto imprevedibilmente rivela, dietro l'aggressività, l'amore. Dunque la scena era stata anticipata nel litigio dei due sceneggiatori innamorati. Quello di Sorrentino è un cinema-mosaico, accuratamente intessuto. Se guardi troppo da vicino, come può capitare nell'immediato delle scene, vedi solo le tessere separate – ma alla visione completa tutto appare collegato in una costruzione di fulminante giustezza.
Lo svolgimento è inframmezzato dagli spettacoli offerti agli ospiti dell'albergo su una piattaforma girevole; dopo Brenda ha detto a Mick che abbandona il film, il passaggio allo spettacolo sul palco rotante è un evidente riferimento alla scena precedente, qualcosa di analogo a una mise en abyme, giacché mostra bolle di sapone giganti che scoppiano lasciando sul tavolino un'impronta di saponata. O pensiamo al geniale collegamento che raccorda il suicidio di Mick buttatosi dalla finestra, la crisi isterica di Brenda sull'aereo e un paracadutista che scende sul prato dove Fred – quello che non piangeva mai – finalmente piange.

Quello tra Fred e Mick è un contrasto a due, una rappresentazione di opposte visioni, che riporta nel film la tematica principe di Sorrentino. Un'opposizione che si gioca tutta fra due proposizioni, “Le emozioni sono sopravvalutate” (Fred) e “Le emozioni sono tutto quello che abbiamo” (Mick). Se interpreto bene il film, per Sorrentino la giovinezza è l'instabile incontro tra uno stato oggettivo dell'età e una condizione esistenziale. Non per nulla i personaggi più saggi del film sono giovani e giovanissimi; e a Fred alla fine viene promessa, a mo' di rinascita, una giovinezza morale. In questa guerra ideale fra l'apatia e la passione, fra la leggerezza e la chiusura, o se preferite fra l'amore e il vuoto, c'è per tutti una speranza.
Niente di consolatorio, beninteso: magari tocca di camminare nell'ombra della morte. Ma può verificarsi anche un'autentica epifania, quando in piscina appare completamente nuda Miss Universo (Madalina Ghenea) davanti ai due vecchi sconvolti (“Ma chi è?” - “Dio”). Oppure pensiamo alla figuretta del lama sempre in meditazione, cui Fred ha sibilato “Io non ci casco. Lo so che non sai levitare” - solo che più tardi lo vedremo proprio levitare: una scena perfettamente equivalente a quella, altrettanto “scandalosa” nel contesto del film, della santa e dei fenicotteri ne La grande bellezza.
Ed è pur vero che la leggerezza spunta da ogni parte; ora due vecchi coniugi, sempre muti e accigliati, imprevedibilmente vanno in camporella; ora (un momento conchiuso e fulminante quasi fosse una gag) siamo testimoni di un concerto per mucche e campanacci. Non è un simbolo di questa leggerezza onnipresente la figura elfica della massaggiatrice con la macchinetta pei denti, ballerina a tempo perso?

Non bisogna trascurare un terzo personaggio principale, il divo americano Jimmy Tree (Paul Dano), più giovane ma segnato da un'analogia malattia dell'anima, in crisi perché ha raggiunto il successo con una parte che odia, quella di un robot. E' in Europa per interpretare Hitler in un film; in una delle affascinanti digressioni sorrentiniane, che sembrano buttate lì e invece sono fondamentali per il quadro, fa colazione truccato da Hitler a una tavola vuota, sotto lo sguardo passabilmente sconvolto degli ospiti dell'albergo. Grande la sua gestualità in questa prova: la sensualità nel mangiare una ciliegia, poi quando tossisce e si strofina la bocca col tovagliolo una sorta di vezzosità chapliniana – e poi un colpo rabbioso sul tavolo che fa sobbalzare tutti. Più tardi spiegherà a Mick qual è l'opposizione, nel recitare un personaggio, fra cercar di rendere l'orrore oppure scegliere il desiderio (ecco di dove veniva quel certo chaplinismo!).
Sorrentino è uno scrittore, e il suo è cinema-romanzo (di qui anche il dialogo, così netto e insieme vivo). Quello di Youth è un vasto romanzo, articolato, intessuto, ricco di personaggi su ognuno dei quali ci si vorrebbe soffermare (c'è anche un simil-Maradona). Qui trova posto un'osservazione in margine: pensiamo al personaggio della escort accompagnata dalla madre, che la riprende al ritorno con un bacio sulla guancia: resta implicito tutto un racconto, una storia segreta, un mondo di emozioni; vediamo ancora una volta che Sorrentino è un maestro dello scorcio.
Ma è, Sorrentino, anche un grande regista – cosa che non sempre capita ai registi-scrittori. Youth è un capolavoro di cinema, non semplicemente di drammaturgia, nella sua costruzione variata e ritornante, cioè musicale (la musica per Sorrentino è sempre stata importantissima, sia come oggetto sia come forma della narrazione). E bisogna menzionare la fotografia di Luca Bigazzi, con la sua quieta bellezza e i suoi tour de force (quando rende la vibrazione dell'aria estiva), e lo splendido montaggio di Cristiano Travaglioli.
All'inizio del film c'è un sogno di Fred che ci mostra l'incontro notturno a Venezia in Piazza San Marco allagata, camminando su una passerella, tra lui e Miss Universo. Si sfiorano passando – poi le acque si alzano: lei cammina sulle acque come Gesù (più tardi nel film sarà paragonata a Dio), lui ne viene inghiottito. Al suo risveglio, notiamo il cappelluccio (e gli occhiali) che rimandano con tutta evidenza a Fellini, Otto e mezzo. Ma Sorrentino, attenzione, non è felliniano: è il nostro primo regista post-felliniano, cioè che è andato oltre Fellini sottraendosi all'alternativa fra scartarlo e copiarlo. Molte immagini nell'albergo - come i vecchi nell'acqua - riportano questo post-fellinismo sorrentiniano.

Youth è la storia di un superamento, della caduta di una barriera esistenziale – e in modo tipico per Sorrentino anche dello svelamento di un enigma (la storia familiare di Fred si conclude con una sorpresa che qui non occorre menzionare, se non per elogiarne la perizia narrativa). Proprio come alla fine de La grande bellezza un uomo che ha esaurito il suo impulso vitale, Jep Gambardella, ritorna alla concretezza mediante un ritorno ai luoghi della giovinezza, così qui Fred ritrova il senso della vita ed esce da quell'apatia che lo irrigidiva; non è senza significato che ciò coincida col ritorno all'amore di Lena, che in precedenza parlava del proprio essere figlia come di un mestiere.
Alla fine del concerto (sì, lo fa) Fred è di schiena – si volta – ma non sentiamo gli applausi: uno stacco ci porta a un'inquadratura “postuma” di Mick. Circa questo passaggio finale, piace pensare (ce lo conferma il forte senso dell'analogia nel montaggio del film) che non sia solo un omaggio al co-protagonista ma che rappresenti una sorta di fusione. Fred ha (re)imparato il valore delle emozioni.

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