I
protagonisti del cinema di Sorrentino hanno per così dire messo il
cuore tra parentesi. Figure chiuse, che nascondono anche a se stessi
il dolore e l'incertezza del vivere sotto uno strato di apatia (una
parola importante in quel capolavoro che è Youth).
Si
sa, i grandi registi declinano un tema fisso nei loro film. Hitchcock
– l'uomo comune che si accorge che il mondo è un posto irrazionale
e oscuro. Ozu – la crisi di una famiglia sotto l'inevitabile
mutevolezza delle cose della vita. Welles – la caduta di un
personaggio “shakespeariano” bigger
than life.
Kubrick – la sconfitta della pianificazione davanti
all'imprevedibilità del destino. Ford – la dolorosa marcia della
civiltà americana verso il futuro. Hawks – il professionismo del
maschio che viene sconvolto dall'incontro con la donna. In
Sorrentino: l'uomo che si è creato una barriera, e il modo in cui
questa barriera entra in crisi.
Youth
è
un film sull'uomo davanti al tempo, ma costruito sulla forma del
rodere
del tempo, e della vita, che scavano su quella corazza che tutti noi
ci formiamo intorno, ma per molti di noi diventa un guscio, una dura
conchiglia. Ora, da un lato tale processo si cristallizza sovente col
procedere dell'età, dall'altro è proprio l'età, con la forza delle
cose e del tempo, che contribuisce a incrinare il guscio. Per questo
troviamo tanti vecchi nel cinema di Sorrentino. Ed è stupenda l'idea
di guardare la giovinezza attraverso il cannocchiale rovesciato (c'è
nel film una precisa immagine in proposito) della vecchiaia.
Siamo
in un albergo di lusso in Svizzera (direi che nel film si aggira
l'ombra di Thomas Mann, La
montagna incantata),
dove tutti gli ospiti sembrano lì per fare i conti con se stessi. I
protagonisti Fred e Mick sono ottantenni, amici da una vita. Fred
Ballinger (Michael Caine) è un compositore e direttore d'orchestra
in ritiro, tampinato da un buffo e nervoso inviato della Regina
d'Inghilterra perché accetti di dirigere le sue Canzoni
semplici
in un concerto che Sua Maestà vuole offrire al Principe Filippo per
il suo compleanno. Ma lo spinoso musicista rifiuta senza
dare spiegazioni.
La
parola chiave per intendere Fred, che ha una storia familiare
disastrosa alle spalle, è appunto apatia.
Di
completa
aridità
morale (“Non hai mai dato niente”) lo accusa sua figlia Lena
(Rachel Weisz), mentre sono coperti di fango terapeutico, in una di
quelle analisi accusatorie spietate che conosciamo da Bergman. Nota
che più in là nel film l'alpinista Luca inizia goffamente il
corteggiamento di Lena raccontandole di un suo cugino scalatore di
vette che si è rotto un braccio in bagno, e lei: “La
vasca da bagno è più pericolosa dell'Everest”. Non credo sia
sbagliato vedervi anche un senso ironicamente metaforico, di
rispecchiamento del concetto ritornante nel film e in tutta l'opera
del regista: la quotidianità è più pericolosa dell'evento eroico,
perché appunto apre la strada all'aridità.
L'altro
protagonista è Mick Boyle (Harvey Keitel), un famoso regista ora in
declino. La scena in cui in un momento di disperazione “vede”
tutti i personaggi femminili dei suoi film sul versante della collina
è un'antologia del cinema: la fantascienza, l'horror (una Carrie),
il thriller, il dramma in costume, il mélo; perfino una Eva; e una
Gilda in b/n, che pronuncia una battuta memorabile. Mick sta
scrivendo il suo ultimo film insieme a un gruppo di sceneggiatori –
un gruppo, per inciso, divertentissimo: perché Youth
è attraversato da una vena di humour delizioso. A un certo punto
sembra che due giovani sceneggiatori, innamorati senza saperlo,
stiano provando un dialogo, e invece stanno litigando per amore
(Sorrentino è specialista in queste false piste).
Il
film-testamento di Mick si chiama “L'ultimo giorno della vita”, e
la sceneggiatura è pronta, salvo il finale: i tentativi per trovarlo
sono un tormentone di Youth,
ma qui l'umorismo si colora di nero, perché è un'evidente
premonizione; in Sorrentino la morte è sempre una presenza forte del
film. Ora, Mick ha la possibilità di fare il film solo perché vi
parteciperà la non più giovane star Brenda Morel (Jane Fonda), di
cui lui è innamorato. Ma Brenda - una superdura che parla come uno
scaricatore di porto - arriva e gli annuncia che non farà più il
film. Il furioso litigio che segue (“Non sai più vedere il mondo -
sai vedere solo la tua morte che è lì dietro l'angolo che ti
aspetta”) a un certo punto imprevedibilmente rivela, dietro
l'aggressività, l'amore. Dunque la scena era stata anticipata nel
litigio dei due sceneggiatori innamorati. Quello di Sorrentino è un
cinema-mosaico, accuratamente intessuto. Se guardi troppo da vicino,
come può capitare nell'immediato delle scene, vedi solo le tessere
separate – ma alla visione completa tutto appare collegato in una
costruzione di fulminante giustezza.
Lo
svolgimento è inframmezzato dagli spettacoli offerti agli ospiti
dell'albergo su una piattaforma girevole; dopo Brenda ha detto a Mick
che abbandona il film, il passaggio allo spettacolo sul palco rotante
è un evidente riferimento alla scena precedente, qualcosa di analogo
a una mise
en abyme,
giacché mostra bolle di sapone giganti che scoppiano lasciando sul
tavolino un'impronta di saponata. O pensiamo al geniale collegamento
che raccorda il suicidio di Mick buttatosi dalla finestra, la crisi
isterica di Brenda sull'aereo e un paracadutista che scende sul prato
dove Fred – quello che non piangeva mai – finalmente piange.
Quello
tra Fred e Mick è un contrasto a due, una rappresentazione di
opposte visioni, che riporta nel film la tematica principe di
Sorrentino. Un'opposizione che si gioca tutta fra due proposizioni,
“Le emozioni sono sopravvalutate” (Fred) e “Le emozioni sono
tutto quello che abbiamo” (Mick). Se
interpreto bene il film, per Sorrentino la giovinezza è l'instabile
incontro tra uno stato oggettivo dell'età e una condizione
esistenziale. Non per nulla i personaggi più saggi del film sono
giovani e giovanissimi; e a Fred alla fine viene promessa, a mo' di
rinascita, una giovinezza morale. In questa guerra ideale fra
l'apatia e la passione, fra la leggerezza e la chiusura, o se
preferite fra l'amore e il vuoto, c'è per tutti una speranza.
Niente
di consolatorio, beninteso: magari tocca di camminare nell'ombra
della morte. Ma può verificarsi anche un'autentica epifania, quando
in piscina appare completamente nuda Miss Universo (Madalina Ghenea)
davanti ai due vecchi sconvolti (“Ma chi è?” - “Dio”).
Oppure pensiamo alla figuretta del lama sempre in meditazione, cui
Fred ha sibilato “Io non ci casco. Lo so che non sai levitare” -
solo che più tardi lo vedremo proprio levitare: una scena
perfettamente equivalente a quella, altrettanto “scandalosa” nel
contesto del film, della santa e dei fenicotteri ne La
grande bellezza.
Ed
è pur vero che la leggerezza spunta da ogni parte; ora due vecchi
coniugi, sempre muti e accigliati, imprevedibilmente vanno in
camporella; ora (un momento conchiuso e fulminante quasi fosse una
gag) siamo testimoni di un concerto per mucche e campanacci. Non è
un simbolo di questa leggerezza onnipresente la figura elfica della
massaggiatrice con la macchinetta pei denti, ballerina a tempo perso?
Non
bisogna trascurare un terzo personaggio principale, il divo americano
Jimmy Tree (Paul Dano), più giovane ma segnato da un'analogia
malattia dell'anima, in crisi perché ha raggiunto il successo con
una parte che odia, quella di un robot. E' in Europa per interpretare
Hitler in un film; in una delle affascinanti digressioni
sorrentiniane, che sembrano buttate lì e invece sono fondamentali
per il quadro, fa colazione truccato da Hitler a una tavola vuota,
sotto lo sguardo passabilmente sconvolto degli ospiti dell'albergo.
Grande la sua gestualità in questa prova:
la sensualità nel mangiare una ciliegia, poi quando tossisce e si
strofina la bocca col tovagliolo una sorta di vezzosità chapliniana
– e poi un colpo rabbioso sul tavolo che fa sobbalzare tutti. Più
tardi spiegherà a Mick qual è l'opposizione, nel recitare un
personaggio, fra cercar di rendere l'orrore oppure scegliere il
desiderio (ecco di dove veniva quel certo chaplinismo!).
Sorrentino
è uno scrittore, e il suo è cinema-romanzo (di qui anche il
dialogo, così netto e insieme vivo). Quello di Youth
è un vasto romanzo, articolato, intessuto, ricco di personaggi su
ognuno dei quali ci si vorrebbe soffermare (c'è anche un
simil-Maradona). Qui trova posto un'osservazione in margine:
pensiamo al personaggio della escort accompagnata dalla madre, che la
riprende al ritorno con un bacio sulla guancia: resta implicito tutto
un racconto, una storia segreta, un mondo di emozioni; vediamo ancora
una volta che Sorrentino è un maestro dello scorcio.
Ma
è, Sorrentino, anche un grande regista – cosa che non sempre
capita ai registi-scrittori. Youth
è un capolavoro di cinema, non semplicemente di drammaturgia, nella
sua costruzione variata e ritornante, cioè musicale (la musica per
Sorrentino è sempre stata importantissima, sia come oggetto sia come
forma della narrazione). E bisogna menzionare la fotografia di Luca
Bigazzi, con la sua quieta bellezza e i suoi tour de force (quando
rende la vibrazione dell'aria estiva), e lo splendido montaggio di
Cristiano Travaglioli.
All'inizio
del film c'è un sogno di Fred che ci mostra l'incontro notturno a
Venezia in Piazza San Marco allagata, camminando su una passerella,
tra lui e Miss Universo. Si sfiorano passando – poi le acque si
alzano: lei cammina sulle acque come Gesù (più tardi nel film sarà
paragonata a Dio), lui ne viene inghiottito. Al suo risveglio,
notiamo il cappelluccio (e gli occhiali) che rimandano con tutta
evidenza a Fellini, Otto
e mezzo.
Ma Sorrentino, attenzione, non è felliniano: è il nostro primo
regista post-felliniano, cioè che è andato oltre Fellini
sottraendosi all'alternativa fra scartarlo e copiarlo. Molte immagini
nell'albergo - come i vecchi nell'acqua - riportano questo
post-fellinismo sorrentiniano.
Youth
è la storia di un superamento, della caduta di una barriera
esistenziale – e in modo tipico per Sorrentino anche dello
svelamento di un enigma (la storia familiare di Fred si conclude con
una sorpresa che qui non occorre menzionare, se non per elogiarne la
perizia narrativa). Proprio come alla fine de
La grande bellezza
un uomo che ha esaurito il suo impulso vitale, Jep Gambardella,
ritorna alla concretezza mediante un ritorno ai luoghi della
giovinezza, così qui Fred ritrova il senso della vita ed esce da
quell'apatia che lo irrigidiva; non è senza significato che ciò
coincida col ritorno all'amore di Lena, che in precedenza parlava del
proprio essere figlia come di un mestiere.
Alla
fine del concerto (sì, lo fa) Fred è di schiena – si volta – ma
non sentiamo gli applausi: uno stacco ci porta a un'inquadratura
“postuma” di Mick. Circa questo passaggio finale, piace pensare
(ce lo conferma il forte senso dell'analogia nel montaggio del film)
che non sia solo un omaggio al co-protagonista ma che rappresenti una
sorta di fusione. Fred ha (re)imparato il valore delle emozioni.
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