Il
figlio di una mia amica, quando ha saputo che è morto Christopher
Lee, ha gridato: “Nooo! Saruman!” Mentre tutti quelli della mia
generazione: “Nooo! Dracula!” A confermare come Sir Christopher
sia stato un'icona del cinema che ha attraversato le generazioni, per
cui ciascuna ha il suo
Christopher Lee. Nessuno degli altri divi dell'horror è riuscito a
tanto, nemmeno Peter Cushing e Vincent Price, per non parlare dei
precedenti.
Eppure
i suoi inizi erano stati difficili. Christopher Frank Carandini Lee
aveva deciso di fare l'attore nel 1946; glielo aveva suggerito,
mentre pranzavano all'ambasciata d'Italia, suo cugino Niccolò
Carandini, il primo ambasciatore italiano in Gran Bretagna del
dopoguerra. Ma la carriera di Lee – colto, poliglotta, buon
ballerino e schermidore, cantante dotato di una bella voce – non
era decollata; il suo aspetto “poco inglese” e la sua statura di
1,96 erano considerati degli handicap. Furono anni di particine, in
cinema e in tv. E' vero che compare nell'Amleto
di Olivier, ma a differenza di Peter Cushing ha un ruolo
insignificante. Meglio ricordarlo come Seurat in una scena di Moulin
Rouge
di Huston.
Il
suo momento arriva nel
1957, accanto
a Cushing ne La
maschera di Frankenstein
di Terence Fisher per la Hammer
Films:
una parte muta, per la quale fu scelto in grazia del suo fisico,
l'altezza imponente e la bravura nel linguaggio del corpo. L'anno
dopo la coppia si riformò con Dracula
il vampiro,
ed entrò nella leggenda.
Già
nel 1959 Lee interpretava la parodia italiana Tempi
duri per i vampiri di
Steno
accanto a Renato Rascel. Tuttavia, sembra assurdo oggi, ma la Hammer
non si rese conto subito della miniera d'oro che aveva in casa. Il
divo era Cushing. Il sequel Le
spose di Dracula
non
presentava il vampiro eponimo ma un suo seguace, interpretato da
David Peel. Ne La
furia dei Baskerville
Lee non era Sherlock Holmes (Cushing, eccellente) ma Sir Henry
Baskerville (sarà Holmes più d'una volta in seguito). La
mummia,
di nuovo con Cushing, gli offriva di nuovo un ruolo muto dove “Lee
comunica un senso di amore e di perdita vecchio di 4000 anni
esclusivamente mediante l'espressività degli occhi e il linguaggio
del corpo” (Jonathan Rigby). Nella versione Hammer del Dr
Jekyll
(Il
mostro di Londra)
Lee non ebbe la parte di Jekyll, che desiderava, e interpreterà anni dopo, ma un ruolo secondario.
Bisognò
aspettare il 1965, dopo vari horror europei (con Bava, Margheriti,
Mastrocinque in Italia), perché Lee riprendesse il ruolo di Dracula
in Dracula, principe delle tenebre.
Di lì
in poi la Hammer “pompò” il personaggio sfruttandolo al punto
che Lee finì, a torto, per disamorarsene alquanto; tanto più che
pensava che i film si allontanassero sempre più dalla concezione di
Bram Stoker. Va menzionato qui il Dracula spagnolo che Lee interpretò
per Jesus Franco (Il
conte Dracula,
1969): un
film che passa per essere il più fedele al romanzo, ma non è vero;
tuttavia qui Lee ebbe l'opportunità di interpretare il Conte coi
capelli e i baffi bianchi, proprio come Stoker lo aveva immaginato.
Comparve fuggevolmente come Dracula in un paio di altre occasioni, e
fu il Dracula storico, Vlad Tepes, nel documentario In
Search of Dracula.
Da
solo o in coppia con Peter Cushing (erano amicissimi nella vita), a
volte con Vincent Price, o perfino col vecchio Boris Karloff,
attraversò l'horror europeo nella grande stagione del cinema di
genere, inglese, spagnolo e tedesco. Fra i suoi vari personaggi
vorrei ricordare almeno Fu Manchu. Accettava con gioia le occasioni
di interpretazioni meno di formula – per esempio, un film che a
ragione amava molto è The
Wicker Man
di Philip Hardy. Qui Lee è indimenticabile nel ruolo di Lord
Summerisle, capo di un culto pagano; l'immagine di lui che guida la
processione sacrificale danzando vestito da donna con una parrucca
nera (e scarpe da ginnastica!) potrebbe essere la più stupefacente
di tutta la sua lunga carriera.
Questo
attore inglese di origini italiane avrebbe potuto essere tedesco.
Professionista per eccellenza, si preparava per ogni parte anche
minima studiando il personaggio e riflettendo accuratamente su cosa
significava e qual era il modo migliore per renderlo, con la
regolarità e l'onestà di un orologiaio. E' strano dirlo per uno che
ha interpretato una galleria di mostri, ma Lee tendeva a stare sotto
le righe (tanto che alcuni critici, fraintendendolo, lo definirono
“legnoso”). Fra i tre grandi divi horror della sua generazione,
Peter Cushing non è mai istrionico; Vincent Price al contrario porta
una vena di geniale istrionismo in tutti i suoi ruoli; Lee calibra
l'istrionismo della sua interpretazione sul grado di istrionismo
intrinseco del suo personaggio – e comunque tende a sottrarre più
che aggiungere.
Sempre
preoccupato di non finire typecasted,
cercò di ampliare le sue interpretazioni fuori dal campo
dell'horror. Fu Scaramanga, il nemico di James Bond (Roger Moore), ne
L'uomo
dalla pistola d'oro
di
Guy Hamilton. Le capacità di spadaccino, già esibite in più d'un
film di pirati, gli tornarono utili ne I tre moschettieri di
Richard Lester e i suoi seguiti. Fu
perfino un pistolero western ne La
texana e i
fratelli
Penitenza
di Burt Kennedy. Si fa ricordare come vecchio gaudente che gira
felice a cavallo di una testuggine meccanica in mezzo a un gruppo di
prostitute ne Il
ladro
dell'arcobaleno
di Jodorowsky. E' la cosa migliore de L'avaro
di Tonino Cervi accanto a un Alberto Sordi bollito. Era un uomo
spiritoso (con Cushing amava giocare a fare Tom e Jerry al telefono)
e lo troviamo in varie commedie, come Scuola
di polizia – Missione a Mosca,
o il superbo The
Stupids
di John Landis. E naturalmente riprendeva volentieri la sua immagine
horror anche fuori dall'horror; per esempio fu un memorabile Pew ne
L'isola
del tesoro di
Fraser Heston.
George
Lucas, che non era riuscito ad averlo per Guerre
Stellari,
lo recupera anni dopo per la seconda serie – la prima in ordine
diegetico – di Star
Wars.
Ma il nuovo grande momento di fama glielo dà Peter Jackson con Il
Signore degli Anelli nel
ruolo di Saruman. Per Tim Burton, poi, Lee è una presenza, se non
costante, quasi. E la menzione di Tim Burton viene in taglio per
accennare al momento conclusivo della carriera di Christopher Lee, in
cui la sua presenza nei film assume un sapore di omaggio ed
evocazione. Attenzione, essa parte sempre da un'interpretazione
attenta e calibrata: non è una pura apparizione/omaggio, come,
diciamo, Samuel Fuller o Roger Corman nei film di Wenders; c'è
questa volontà ma viene sempre tradotta nella robustezza artigianale
di una parte secondaria sempre gustosa e ben definita.
Sir
Christopher è morto a 93 anni appena compiuti. Ci lascia una serie
sconfinata di film (oltre che incisioni musicali, anche con gruppi
heavy metal!), senza contare il teatro e la tv. La celluloide può
perdersi, ma il cinema non muore mai.
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