Happy,
ecco l'aggettivo che mi sembra più adatto per parlare del Far East
Film Festival di Udine, edizione 1914 (la sedicesima, ragazzi...).
Perché, c'era più che mai una sensazione di serenità diffusa, il
Teatro era pieno zeppo, il livello medio dei film era molto
soddisfacente, il sequel di Thermae
Romae
che ha chiuso il festival era una delizia, il premio del pubblico
l'ha vinto un ottimo film, le Filippine hanno finalmente trionfato,
il restauro di Ozu ha fatto innamorare chi non conosceva il gran
genio giapponese, e insomma in giro si vedevano solo sorrisi.
Per
parlare dei film (premesso
che non sono riuscito a vedere tutto),
conviene partire col Giappone.
La pattuglia più nutrita del festival, con undici titoli, lo
riconferma come la miglior cinematografia asiatica. I film più
notevoli sono il capolavoro Be
My Baby di
One Hitoshi (vedi
scheda sotto),
il
caldo e amabilissimo Fuku-chan
of Fukufuku Flats
di Fujita Yosuke e il film vincitore (a sorpresa! Era stato
programmato al mattino) del premio del pubblico, The
Eternal Zero
di Yamazaki Takashi.
Quest'ultimo
è un autore amato dal pubblico di Udine, che già aveva molto
apprezzato i due episodi di Always: Sunset on Third Street
(ne esiste un terzo ma purtroppo non è mai passato al festival). The
Eternal Zero
si sviluppa in flashback prendendo le mosse dalla ricerca di un
giovane d'oggi sul nonno morto in guerra come kamikaze. Le scene di
battaglia aerea sono eccellenti ma fondamentalmente a Yamazaki
importa, come in Always,
la costruzione di un mondo: un'empatia di gruppo pervasa di una
nostalgia agrodolce del passato, nonostante tutte le sue
ristrettezze.
Fuku-chan
of Fukufuku Flats
è una
di quelle commedie di personaggi bizzarri alla Miki Satoshi, ma
possiede un senso di umanità che può ricordare Rent-a-Cat
di
Ogigami Naoko.
Il
punto di bravura di Fujita, regista e sceneggiatore, è la capacità
di fondere magistralmente le due linee, il grottesco e il
sentimentale: di solito ci si aspetta che a metà film la prima si
stemperi nella seconda, mentre qui sono mantenute parallele con
un'estrema logicità. Di conseguenza è un film divertentissimo,
perché è attraversato da una specie di follia tranquilla che si
arresta sempre ai limiti dell'assurdo, ma allo stesso tempo ottiene
un forte effetto di adesione e partecipazione. Questo amalgama Miki
Satoshi non l'ha sempre raggiunto.
Quanto alle
interpretazioni, è il famoso gruppo di attori in stato di grazia,
protagonisti e figure secondarie insieme. Chiaro che su tutte svetta
quella monumentale (è il caso di dirlo) del ciccio Fuku-chan,
interpretato in vesti maschili dalla bravissima Oshima Miyuki.
Fra
gli altri film vorrei segnalare in particolare Bilocation
di Mari Asato: un
horror metafisico bello e molto triste, profondamente influenzato da
Kurosawa Kiyoshi (e in secondo luogo, sul piano scenografico, direi
anche un po' da David Lynch), che introduce una nuova variazione
nella ricchissima mitologia filmica del “doppio”. Girl's
Blood di
Sakamoto Koichi è un film di exploitation
interessante per la messa in scena (queste ragazze che si picchiano
ferocemente in una specie di wrestling) ma il suo tono sadico-mélo
- con un insopportabile cattivo sopra le righe – non è molto
convincente. The
Devil's Path,
di Shoraishi Kayuza, fondamentalmente non è un film ma due; il
secondo, la descrizione grottesca di una serie di crudeli delitti, è
molto più interessante del primo, la storia del giornalista che li
indaga. Hello!
Junichi,
firmato da Ishii Katsuito con due suoi allievi, è un film di
bambini, quindi attraente per definizione, deboluccio ma simpatico.
Thermae
Romae
II di Takeuchi Hideki riprende il gustosissimo Thermae
Romae
visto l'anno scorso (e che uscirà in edizione italiana a giugno);
miracolo, sfugge alla legge quasi ferrea per cui un sequel dev'essere
inferiore all'originale. Anzi, è quasi meglio: è più compatto, e
può sviluppare liberamente il suo umorismo, poiché l'universo
diegetico è già stato stabilito nel primo. Da notare che è quasi
spudorato nell'aprire la strada a un terzo episodio, quindi stay
tuned.
E
ora passiamo alle Filippine.
O perché proprio le Filippine? Perché da lì sono venute le grandi
sorprese del festival. Non parlo soltanto di Barber's
Tales
di Jun Robles Lana (vedi
scheda sotto),
vincitore del terzo premio, ma anche dell'eccellente Anita's
Last Cha-cha,
esordio di Sigrid Andrea P. Bernardo. In
un villaggio filippino, l'adolescente Anita scopre la propria
omosessualità rimirando affascinata una bellissima donna, Pilar,
ritornata nel villaggio dopo una lunga assenza; la corteggia prima
cercando la sua amicizia, poi dichiarandole il suo amore, al che
resta delusa perché Pilar è innamorata (invano) di suo cugino. La
storia è raccontata in flashback.
A
parte l'interesse intrinseco di questa variante omo del coming
of age
sessuale, il film è molto originale. Contiene molti tocchi di
autentica bizzarria (in
primis
un folle prologo, con Anita adulta, che sembrerebbe
poter
introdurre solo una commedia – il che non è). Le fantasie di
Anita, che sogna di vedere Pilar dappertutto, e anche nel suo letto,
sono rese visivamente sullo stesso piano della realtà. La solenne
conclusione folkloristica con la festa di Santa Clara nel pre-finale
entra come un vero finale sinfonico, mentre la fine vera e propria ha
una dolcezza elegiaca. La descrizione della gente del villaggio è
viva quasi quanto quella di Barber's
Tales,
anche se un filo più stereotipata; in compenso, i due bambini amici
di Anita portano un tocco fresco (e non meno bizzarro che il resto).
Questo strano piccolo film è, per argomento e svolgimento, veramente
della serie “expect
the unexpected”.
Chito
S. Roño
partecipa al festival con due film opposti, mostrando la strana
capacità “camaleontica” di certi autori filippini (ce l'ha anche
Erik Matti). Dynamite
Fishing
è la secca descrizione semididattica di un broglio elettorale: è la
cronaca, abilmente drammatizzata attraverso il personaggio
protagonista, di una vigilia di elezioni su un'isola delle Filippine,
con i trucchi sporchi, e anche violenti, delle due parti (noi
italiani però abbiamo Napoli e la Sicilia: il film non può
insegnarci niente). Una lunga notte scandita dalle affannose corse in
motocicletta del protagonista che segnano allo stesso modo il suo
compromettersi nel gioco (sostituisce il padre malato, capo-galoppino
del partito) e la sua perdita dell'innocenza. Ma Roño presentava
anche Shoot
to Kill: Boy Golden
che è assolutamente diverso. In sintesi: Roño vuol fare il
Tarantino e ci riesce perfettamente. Tutto – le luci e i colori
acidi alla Twin
Peaks,
l'ambientazione mock-Fifties
con tanto di omaggio a Elvis, il dialogo “epico” (appunto,
tarantiniano), l'umorismo feroce (idem), la rassegna di
visi/caratterizzazioni memorabili (idem) – tutto, dico, colpisce
perfettamente il bersaglio. La regia è molto competente, e basta
guardare la scena della banda dei “buoni” vestiti di bianco che
saltano sui tetti mentre la polizia e i cattivi li cercano nelle
strade - oppure momenti di divertita solennità “operistica” come
l'arrivo dei malfattori sotto la pioggi per la riunione a casa del
villain.
Il film è un po' lungo, 2 ore e 10', ma (a parte che passano molto
velocemente) è perché Roño - ancora tarantineggiando – ha
voluto dividerlo in due parti, più un epilogo, in trasparente
omaggio a Kill
Bill.
Un
misto di buono e cattivo arriva dalle tre Cine. Ma quest'anno non
sono riuscito a seguire la Cina
continentale,
eccezion fatta per l'ottimo Black
Coal, Thin Ice di
Diao Yinan, già vincitore a Berlino: un affascinante noir realistico
come impostazione narrativa (sembra il mondo di Jia Zhangke) ma
immerso in una luce surreale e malata, fatta di neon colorati che
“bagnano” i visi dei personaggi. Ne emerge un universo che è
allo stesso tempo realistico e innaturale, astratto e concretamente
disperato.
Hong
Kong
attualmente realizza molte coproduzioni (autocensurate) dirette al
ricco mercato della Cina continentale, ma non per questo è decisa a
vendersi l'anima. The
Midnight After
del geniale Fruit Chan, uno dei film capitali del festival, è una
memorabile trascrizione in senso fantastico del disorientamento
hongkonghese dopo lo sciagurato Handover
(il passaggio alla Cina). Non stupisce che Fruit Chan - l'autore che
in passato ha reso meglio di tutti questo sentimento - si riconosca
nella canzone di David Bowie citata nel film, Space
Oddity,
che parla di un astronauta che fluttua impotente sopra la Terra. La
sua tin
can qui
si trasforma in uno scassato autobus col quale alcuni viaggiatori
vanno a Tai Po, e si ritrovano sbalestrati in un'altra dimensione,
una Tai Po irreale e deserta - o forse è un viaggio nel tempo? In
forma fantastico-grottesca, c'è tuttavia sempre quella capacità
propria di Fruit Chan di fondere il dramma collettivo e il dolore
personale in una stessa unità patetica.
Uno
spirito molto hongkonghese si ritrova anche in Aberdeen
(è un quartiere di HK) di Pang Ho-cheung, storia gradevole e
sottilmente appassionata di una grande famiglia alquanto
disfunzionale; e - non tanto paradossalmente - nei due film
sessualmente più audaci presenti al festival: Golden
Chickensss
(vedi
scheda sotto)
di Matt Chow e 3D
Naked Ambition di
Lee Kung-lok. Quest'ultimo è inferiore a Golden
Chickensss
(l'inizio poi è assai faticoso) ma è dannatamente divertente, con
la sua storia dell'hongkonghese Chapman To che diventa un improbabile
divo dei video AV (pornosoft) giapponesi. Le parodie di questi video
che compaiono nel film sono esilaranti – per non dire che il film è
popolato di bellezze giapponesi nude, tutte interpreti di AV nella
parte di se stesse.
Sul
versante avventuroso, resta impresso nella memoria l'estremistico
Firestorm
di Alan Yuen, ben interpretato da Andy Lau nella parte di un
poliziotto ossessionato, mentre è un fallimento il pompieristico (in
tutti i sensi) As
the Light Goes Out
di Derek Kwok. Peraltro il film più inutile del festival è From
Vegas to Macau,
mediocre prodotto di un Wong Jing fuori vena (però a HK ha incassato
tantissimo!).
La
terza Cina è Taiwan.
Assai notevole è Soul
di Chung Mong-hong, una specie di thriller trascendentale. Un uomo
(Joseph Chang) ha un mancamento e diventa semi-catatonico. Portato a
casa, uccide sua sorella e dichiara di non essere lui (“Ho trovato
questo corpo vuoto e mi ci sono trasferito”). Potrebbe essere una
possessione, o lui potrebbe essere psicopatico. Il padre (Jimmy Wong)
lo porta in una capanna isolata e lo protegge, arrivando fino al
delitto.
Detto
così sembra uno psycho-horror, ma Chung, che è un regista
d'avanguardia, lo trasforma in una riflessione poetica sui rapporti
familiari e sulla morte. Si sente una forte influenza di Kim Ki-duk
(l'inizio), e certamente quella di David Lynch (gli alberi inquadrati
dal basso e il sogno in cui ricompaiono i morti).
Il film ha molto
fascino, anche se a volte sfiora l'autocompiacimento. La fotografia
di Nakashima Nagao è stupenda, i delitti costeggiano lo splatter, le
interpretazioni lasciano il segno.
Meno
importante ma comunque interessante la commedia Sweet
Alibis di
Lien Yi-chi, che impiega le raffinatezze stilistiche proprie del
cinema di Taiwan per incrociare il thriller e la comicità in
un'unità a volte precaria ma nell'insieme assai godibile. Delude
invece Campus
Confidential
di Lai Chun-yu. L'idea sarà divertente, ma lo svolgimento nella
prima parte è quasi soporifero; poi migliora, ma infine introduce un
mega-twist
narrativo che sposta tutto il film sul piano dell'implausibilità
assoluta. Un minimo di credibilità occorre anche in una commedia
fantasy!
Il
cinema della Corea
non è più quello di un tempo, si sa, però dalla penisola
continuano ad arrivare opere belle e solide. Broken
di Lee
Jung-ho - tratto
da un giallo giapponese di 10 anni fa già portato sullo schermo in
Giappone - è un crime
drama
coreano nerissimo, che parla (proprio come Confessions
di Nakashima Tetsuya) della vendetta privata in una società
impazzita dove gli adolescenti criminali hanno la garanzia della
quasi impunità.
Un
vedovo (Jung Jae-young, spesso visto al Far East Film) ha la figlia
adolescente rapita, violentata e uccisa da una coppia di giovinastri
che registrano i loro stupri sui dvd. Per caso riesce a rintracciarne
uno e - molto giustamente, a mio parere - lo uccide massacrandolo con
una mazza da baseball; poi si mette alla ricerca dell'altro. Un
detective della polizia e il suo vice cercano di arrestare sia l'uomo
sia la sua futura vittima - pur con tutti i loro dubbi, sapendo che
la legge non punirebbe seriamente il ragazzo. Il
film ha un andamento molto teso e matter-of-fact,
rende
con vigore l'argomento e non si perde in divagazioni (non c'è
neanche la solita storia d'amore). Le interpretazioni sono sobrie e
credibili. Nel finale, se lo interpreto bene (ovvero se non è
wishful
thinking),
c'è una reminiscenza a sorpresa de Il
giustiziere della notte.
The
Terror LIVE
di Kim Byung-woo racconta
di un terrorista che con le sue bombe fa tremare Seoul attraverso una
trasmissione tv (e pure il conduttore, l'ottimo Ha Jung-woo, che ha
una bomba nell'auricolare). Strizzando l'occhio con intelligenza al
sentimento antipolitico diffuso nel mondo, il film è una riflessione
implicita sui mass media, non dico con la genialità di un Johnnie To
in Breaking
News,
ma comunque non banale. La pagina in cui un canale tv “intervista”
un altro è fantastica!
In
un film che si svolge quasi tutto in interni ristretti (vivificati
con il montaggio e i movimenti di macchina), le esplosioni realizzano
una convincente pagina di disaster
movie,
tanto più che - in coerenza coll'argomento mediatico - sono
realizzate in un efficace dialogo fra le inquadrature “oggettive”
e quelle sui monitor della stazione tv. La conclusione comprende una
scena un po' appiccicata di lotta corpo a corpo che rimanda a
thriller più convenzionali, ma poi rientra nel discorso generale con
un finale “politico” shocking.
Cold
Eyes
di Kim Byung-seo, remake di un famoso film hongkonghese, è tutto
giocato su due tipi di sguardo, integrati e quasi fusi: quello
individuale dei poliziotti di un team di “pedinatori” dotati di
memoria fotografica e quello sociale delle telecamere di sorveglianza
che coprono la città. Ma c'è anche lo sguardo dei rapinatori, il
cui capo sorveglia dall'alto di un grattacielo le loro azioni. In più
il film introduce un interessante elemento di riflessione sul ruolo
del caso – né pecca mai di astrazione, anzi si sviluppa in un
gioco psicologico fascinoso e divertente fra la giovane protagonista
e il leader del team.
Sul
versante delle commedie, da segnalare Miss
Granny
di Hwang Dong-hyuk. Nove
volte su dieci le commedie coreane sono piuttosto macchinose; invece
Miss
Granny
fila
perfettamente liscio. Una settantenne inacidita ritorna ventenne per
magia, e deve fare i conti sia con la sua famiglia sia con le proprie
aspirazioni deluse dalla vita precedente. E' un'idea efficace
realizzata in modo molto agile, che produce momenti estremamente
divertenti senza mai spostarsi sul terreno della farsa.
Elemento
portante è l'interpretazione della protagonista Shim
Eun-kyung
(la ventenne), credibilissima nella trasformazione: ciò perché lei
mantiene (nel racconto), e cioè elabora a livello attoriale, lo
stesso modo di parlare aggressivo di una vecchia autoritaria, non
solo come mimica ma anche come emissione di voce. Inoltre il film si
avvale di un grande gioco di squadra interpretativo, di quelli che
meriterebbero un premio apposito per l'intero cast: estrema bravura
nel ruolo non solo dei supporting
actors (come
il vedovo innamorato della settantenne) ma anche degli attori di
particine,
come
la nemica della protagonista, la signora Ok-ja (l'attrice
cinquantacinquenne, ma qui appare più vecchia, Park Hye-jin).
Venus
Talk
di Kwon Chil-in, interpretato da tre attrici eccellenti, ma con
caratterizzazioni divertenti e plausibili anche dei personaggi
maschili, parte
come una specie di Sex
and the City
coreano ma amplia in modo soddisfacente il suo raggio narrativo, e
anche più tardi, quando vira al sentimentale e perfino al
drammatico, mantiene e anzi accresce la sua credibilità.
Ottimo
il solo film della Thailandia,
Pee
Mak (vedi
scheda sotto)
di Banjong Pisanthanakun.
L'Indonesia
ci dà una commediola gradevole con Brontosaurus
Love,
di Fajar Nugros, reso simpatico in particolare dalla parodia
dell'horror indonesiano che contiene; però non ho ancora visto
l'apprezzato The
Raid
2,
piatto forte della coppia indonesiana al festival.
Restano
da menzionare, sperando che vengano mantenute in futuro, due
innovazioni “strutturali” del festival. La prima è una vera e
propria sezione di classici
restaurati.
E' ovvia l'importanza di rivedere in una buona versione e sul grande
schermo grandi film quali Ohayo
(Buon
giorno)
di Ozu Yasujiro e Manila
in
the Claws of Light
di Lino Brocka. Ma la grande scoperta, pressoché sconosciuta in
occidente, è l'eccezionale Flame
in the Valley
di Kim Soo-yong, un altro esempio di quegli anni '60 coreani, già
esplorati in altra occasione dal festival, che si stanno rivelando
sempre più un'autentica miniera d'oro. E' una potente, tragica
storia di passioni sullo sfondo della guerra di Corea che ha portato
via tutti i maschi di un villaggio, lasciandolo popolato di sole
donne disperate. I fusti di bambù del bosco forniscono un framing
affascinante all'immagine, che diventa il motivo visuale principe del
film: esso è ispirato al cinema giapponese ma a un occhio
occidentale potrebbe ricordare molte inquadrature di Max Ophuls. La
genialità di certi passaggi (come quando all'inizio le due donne in
litigio parlano in macchina rivolgendosi a un controcampo non
enunciato) lascia sbalorditi.
E
poi c'è stata l'entrata in forze dei documentari,
fra i quali vorrei menzionare il commovente Hello?!
Orchestra
di Lee Cheol-ha. Lo
strano titolo è il nome dell'orchestra di cui parla il film: un
gruppo di bambini che il musicista coreano-americano Richard Yongjae
O'Neil raduna per perfezionarli come gruppo orchestrale (con Bach,
Beethoven, Mozart, Čajkovskij),
fino all'esibizione pubblica. C'è spesso in loro una grande quantità
di dolore (molti vengono da famiglie disfunzionali o
mono-genitoriali, o sono figli di matrimoni con stranieri, e quindi
isolati nella società) e la musica è una sorta di terapia. Siccome
i bambini hanno una grazia naturale, la loro presenza schermica è
assolutamente emozionante.
The
Search
for
Weng Weng,
diretto dall'australiano Andrew Leavold, è una ricerca e un omaggio
simpatetico al più strano degli attori: Weng Weng era un attore nano
filippino che ottenne un'effimera fama come variante locale in
miniatura di James Bond. Sfruttato e poi abbandonato dai suoi
produttori, morì in miseria. Ci restano alcuni dei suoi film, che al
carattere di per sé delirante dei B-movies
filippini aggiungono una particolarissima sfumatura di bizzarria.
Come
succede con tutti i festival, chiuso il sipario sulle sedicesima
edizione il gruppo organizzatore sta già lavorando per la
successiva. Un'annata così riuscita è anche un'iniezione di energia
– non che ce ne fosse bisogno! Arrivederci al 2015, e restate
sicuri che l'horror è sempre nei nostri cuori. Chi scrive ha avuto
modo di leggere una simpatica e-mail indirizzata al CEC da un'amica
del festival, che implorava “Rivogliamo l'Horror Day!” Posso
assicurare tutti che quest'anno solo il caso ha voluto che il cinema
del terrore fosse poco rappresentato (era anche balenata la
possibilità di dare il bel film hongkonghese di vampiri
Rigor Mortis
di Juno Mak, ma purtroppo è sfumata). Speriamo davvero, l'anno
prossimo, di essere inondati di spettri, stregoni, zombi, vampiri,
demoni, volpi, aswang, pocong, krasue e chi più ne ha più ne metta.
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