L'intrepido
di Gianni Amelio si apre con questa didascalia di tempo e luogo:
“A Milano, di questi tempi”. Evidente che essa ha un valore che
va altre l'enunciazione del contesto: L'intrepido è
un film sul nostro tempo. Dove Antonio Pane (Antonio Albanese) nel
mondo senza lavoro se n'è inventato uno tutto suo: fa il rimpiazzo,
ovvero vive sostituendo per tre ore, un giorno, due giorni, gente che
fa qualsiasi umile lavoro e ha bisogno di una pausa. “A
me mi piacciono tutti i lavori”, dice nel film, e in tutti i lavori
lo vediamo. E' una favola, diceva Amelio a Venezia, e un inno alla
dignità.
Antonio
è buono come il pane (no pun intended,
o meglio, è implicito nella sceneggiatura). Accetta tutto con un
sorriso: è un'icona, più che della rassegnazione, del far fronte
alla durezza del mondo – un atteggiamento che non sostituisce la
rassegnazione ma viene come un superamento di essa. In questo senso
il film aspira a dare al suo protagonista una specie di santità: e
lo circonda un'aura poetica. Mi sembra evidente il riferimento a un
mondo cinematografico che Amelio conosce bene: gli eroi “sonnambuli”
(Petr Král) del comico muto americano. Non narrativamente (non c'è
slapstick nel film) ma
appunto per la loro caratterizzazione poetica; o altrimenti, potremmo
allegare un grande attore italiano oggi troppo poco ricordato,
Erminio Macario. E' proficua la contraddizione di mettere insieme un
“uomo di fumo” con quella personalità aerea e sottile e una
serie di lavori manuali pesanti. Davvero vi sono ne L'intrepido
aspetti di commedia chapliniana.
Antonio
Pane si muove in una Milano malinconica - in voluto contrasto con la
splendida fotografia di Luca Bigazzi - dove Amelio lancia degli
sguardi contristati sui rapporti umani (un mondo di contatti
evanescenti o perduti) e sulla malvagità - oppure satirici (l'ironia
sulla pubblicità che usa sederi nudi per vendere qualsiasi cosa). Si
ritrovano ne L'intrepido
le tematiche del cinema di Amelio: il rapporto padre/figlio,
quel mondo di silenziosi scontri e impreviste complicità, quel peso
schiacciante dell'organizzazione sociale. Nella prima parte del film
quel rapporto adulto/ragazzo che interessa tanto ad Amelio sembra
ricrearsi a parti invertite, tra il figlio che “vizia” il padre e
Antonio, che effettivamente ha qualcosa del bambino in sé. Tuttavia
in seguito il rapporto si rovescia interamente, ciò che, più che un
percorso di crescita, mi sembra un escamotage
narrativo.
Il
problema del film è un problema di sceneggiatura (di Gianni Amelio e
Davide Lantieri); si notano ne L'intrepido dei limiti che già
comparivano ne La stella che non c'è del 2006 (ma non nel
successivo Il primo uomo). Il
film è stato accusato di essere episodico, ma non è questo il
punto. Essere episodico è una necessità se devi raccontare la vita
di uno che, reinventandosi ogni giorno come lavoro, ogni giorno per
così dire deve rinascere; la sua struttura frazionata non impedisce
che - anche grazie all'arte di Albanese - emerga un senso concreto e
unitario del personaggio protagonista. Il difetto sta nelle tappe del
viaggio, negli episodi stessi, che a volte sono irrisolti ( la
poetica della leggerezza sfuma nell'inconsistenza), a volte fin
troppo risolti - leggi, programmatici.
Un esempio del primo
caso è la scena della consegna delle pizze nella sartoria: tutto a
posto e niente in ordine: si capisce perfettamente tutto, ma
l'episodio resta vacuo. Anche snodi narrativi importanti come
l'episodio della pedofilia lasciano un senso di vuoto, di narrazione
che “non stringe”. Altre volte invece si cade nel prevedibile:
nel senso di una tendenza molto presente nel cinema italiano (ma non,
ordinariamente, in quello di Amelio) alla bidimensionalità dei
personaggi. Alludo al figlio quando diventa aggressivo perché è in
crisi (una di quelle parti che quand'era giovane toccavano a Kim
Rossi Stuart) o alla ragazza che muore suicida dopo la più
tradizionale delle scene di incazzatura al caffè - dove si nota
soprattutto la contraddizione fra la finezza formale della messa in
scena di Amelio e il senso di déja vu dell'assunto.
Un
esempio dei problemi di sceneggiatura del film sta nella
moltiplicazione dei finali. Dopo che il classico cumenda losco,
nuovo compagno della ex moglie, lo ha assunto in un negozio di
scarpe, Antonio scopre (bella la scena delle scatole vuote) di essere
un uomo di paglia e che il negozio serve al riciclaggio. Pianta tutto
e se ne va: su di lui di spalle che si allontana c'è una chiusura in
iride. Questo vecchio segno d'interpunzione, mai usato prima nel
film, connota simultaneamente il cinema di Chaplin e il The End.
Come ci restiamo quando vediamo che
il film continua? C'è uno spostamento in Albania, rovesciamento
amaramente ironico de Lamerica,
e anche questa potrebbe essere una fine. Segue un ulteriore episodio
col figlio (ma conchiuso, questo, e convincente); dopo di che,
andandosene dopo risolto le cose, Albanese guarda in macchina e
sorride, chiudendo per la seconda (o terza) volta il film.
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