domenica 15 settembre 2013

L'intrepido

Gianni Amelio

L'intrepido di Gianni Amelio si apre con questa didascalia di tempo e luogo: “A Milano, di questi tempi”. Evidente che essa ha un valore che va altre l'enunciazione del contesto: L'intrepido è un film sul nostro tempo. Dove Antonio Pane (Antonio Albanese) nel mondo senza lavoro se n'è inventato uno tutto suo: fa il rimpiazzo, ovvero vive sostituendo per tre ore, un giorno, due giorni, gente che fa qualsiasi umile lavoro e ha bisogno di una pausa. “A me mi piacciono tutti i lavori”, dice nel film, e in tutti i lavori lo vediamo. E' una favola, diceva Amelio a Venezia, e un inno alla dignità.
Antonio è buono come il pane (no pun intended, o meglio, è implicito nella sceneggiatura). Accetta tutto con un sorriso: è un'icona, più che della rassegnazione, del far fronte alla durezza del mondo – un atteggiamento che non sostituisce la rassegnazione ma viene come un superamento di essa. In questo senso il film aspira a dare al suo protagonista una specie di santità: e lo circonda un'aura poetica. Mi sembra evidente il riferimento a un mondo cinematografico che Amelio conosce bene: gli eroi “sonnambuli” (Petr Král) del comico muto americano. Non narrativamente (non c'è slapstick nel film) ma appunto per la loro caratterizzazione poetica; o altrimenti, potremmo allegare un grande attore italiano oggi troppo poco ricordato, Erminio Macario. E' proficua la contraddizione di mettere insieme un “uomo di fumo” con quella personalità aerea e sottile e una serie di lavori manuali pesanti. Davvero vi sono ne L'intrepido aspetti di commedia chapliniana.
Antonio Pane si muove in una Milano malinconica - in voluto contrasto con la splendida fotografia di Luca Bigazzi - dove Amelio lancia degli sguardi contristati sui rapporti umani (un mondo di contatti evanescenti o perduti) e sulla malvagità - oppure satirici (l'ironia sulla pubblicità che usa sederi nudi per vendere qualsiasi cosa). Si ritrovano ne L'intrepido le tematiche del cinema di Amelio: il rapporto padre/figlio, quel mondo di silenziosi scontri e impreviste complicità, quel peso schiacciante dell'organizzazione sociale. Nella prima parte del film quel rapporto adulto/ragazzo che interessa tanto ad Amelio sembra ricrearsi a parti invertite, tra il figlio che “vizia” il padre e Antonio, che effettivamente ha qualcosa del bambino in sé. Tuttavia in seguito il rapporto si rovescia interamente, ciò che, più che un percorso di crescita, mi sembra un escamotage narrativo.
Il problema del film è un problema di sceneggiatura (di Gianni Amelio e Davide Lantieri); si notano ne L'intrepido dei limiti che già comparivano ne La stella che non c'è del 2006 (ma non nel successivo Il primo uomo). Il film è stato accusato di essere episodico, ma non è questo il punto. Essere episodico è una necessità se devi raccontare la vita di uno che, reinventandosi ogni giorno come lavoro, ogni giorno per così dire deve rinascere; la sua struttura frazionata non impedisce che - anche grazie all'arte di Albanese - emerga un senso concreto e unitario del personaggio protagonista. Il difetto sta nelle tappe del viaggio, negli episodi stessi, che a volte sono irrisolti ( la poetica della leggerezza sfuma nell'inconsistenza), a volte fin troppo risolti - leggi, programmatici.
Un esempio del primo caso è la scena della consegna delle pizze nella sartoria: tutto a posto e niente in ordine: si capisce perfettamente tutto, ma l'episodio resta vacuo. Anche snodi narrativi importanti come l'episodio della pedofilia lasciano un senso di vuoto, di narrazione che “non stringe”. Altre volte invece si cade nel prevedibile: nel senso di una tendenza molto presente nel cinema italiano (ma non, ordinariamente, in quello di Amelio) alla bidimensionalità dei personaggi. Alludo al figlio quando diventa aggressivo perché è in crisi (una di quelle parti che quand'era giovane toccavano a Kim Rossi Stuart) o alla ragazza che muore suicida dopo la più tradizionale delle scene di incazzatura al caffè - dove si nota soprattutto la contraddizione fra la finezza formale della messa in scena di Amelio e il senso di déja vu dell'assunto.
Un esempio dei problemi di sceneggiatura del film sta nella moltiplicazione dei finali. Dopo che il classico cumenda losco, nuovo compagno della ex moglie, lo ha assunto in un negozio di scarpe, Antonio scopre (bella la scena delle scatole vuote) di essere un uomo di paglia e che il negozio serve al riciclaggio. Pianta tutto e se ne va: su di lui di spalle che si allontana c'è una chiusura in iride. Questo vecchio segno d'interpunzione, mai usato prima nel film, connota simultaneamente il cinema di Chaplin e il The End. Come ci restiamo quando vediamo che il film continua? C'è uno spostamento in Albania, rovesciamento amaramente ironico de Lamerica, e anche questa potrebbe essere una fine. Segue un ulteriore episodio col figlio (ma conchiuso, questo, e convincente); dopo di che, andandosene dopo risolto le cose, Albanese guarda in macchina e sorride, chiudendo per la seconda (o terza) volta il film.

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