Mostra
fotografica, Udine, Palazzo Morpurgo, 30 agosto-15 settembre 2013
Nota
per il catalogo
Il
paradosso della fotografia è lo stesso paradosso della bambina che
dopo aver giocato tutto il pomeriggio nel parco andava via ma poi
ritornava in punta di piedi nascondendosi e spiando dietro gli
alberi: voleva vedere che aspetto aveva il parco quando lei
non c'era.
La
fotografia della natura (ma non solo) è impegnata nella continua
rincorsa fra l'obiettivo e il di là,
l'irraggiungibilità della natura in sé. “La natura ama
nascondersi”. Se nella sua qualità segnica di indice
la foto mantiene in sé l'impronta materiale del suo oggetto,
tuttavia permane uno scarto invalicabile. Sono lontani i tempi del
realismo ingenuo per cui Fox Talbot pubblicava i suoi calotipi col
titolo The Pencil
of Nature e la Gazette
de France salutava Daguerre
parlando di “immagini che si dipingono da sole”.
Fotografare
è interpretare; una fotografia è un discorso. Il click
dell'otturatore è il momento magico in cui nell'occhio e nel
cervello del fotografo scattano (click)
simultaneamente una pluralità di condizioni concorrenti: di luce, di
forme, di un pattern
di linee e di geometrie definito dall'inquadratura. E' una triplice
operazione quella che si attiva nell'atto di inquadrare:
un'intersezione fra l'oggetto della foto sul piano denotativo;
l'oggetto in quanto tessitura di valori spaziali, geometrici,
coloristici, ritmici; l'oggetto per il suo valore connotativo, che è
culturalmente determinato. Il fotografo porta nell'immagine una
cultura fatta di modelli simbolici, pittorici, grafici, filmici,
fotografici in primo luogo – e ideologici. Sono sempre validi,
anche se il mondo è diventato più piccolo, i due grandi poli fra i
quali si situa la fotografia di paesaggio: tra il sublime di una
natura primigenia in procinto di trasformarsi da Deserto in Giardino,
che affascinava i grandi fotografi americani dell'Ottocento, e le
tracce dell'uomo che si fanno natura (come non citare Giacomelli).
Non
è solo un pezzo di mondo che ritagliamo come un trofeo. La
fotografia congela il tempo – ma così, potremmo dire, fa esistere
l'attimo, in quanto lo materializza. Però quest'attimo
materializzato è un excerptum,
è altro dal continuum vivente della natura - per questo ci
inquieta. Non per nulla Barthes connette la fotografia al passato e
alla morte.
La
foto si oppone alla durata. Il mosso,
che disegna sulla foto la traccia del movimento, può suggerirla - ma
è anch'esso un tempo pietrificato. E' il cinema quello che lavora
sulla durata (anche sulla tautologia della durata: Empire
di Andy Warhol). Ma proprio per questo il film solo in alcuni momenti
di sospensione può raggiungere una dimensione epifanica -
che invece la foto possiede
quasi naturalmente nella sua natura di frammento di spazio-tempo. E'
questa a conferirle, al di la del suo soggetto, un quid
metafisico.
Presentazione
mostra, 30 agosto
Nel
1521 Albrecht Dürer
disegna un tricheco (che era già morto da giorni quando lui riuscì
a vederlo), nella più antica raffigurazione dal vero dell'animale.
Brucia in lui, come in Leonardo, la passione di riprodurre il
visibile, di aggiungere al suo reame di conoscenza e riproduzione un
altro brandello del reale. E' la stessa passione che informa la sua
meravigliosa Zolla d'erba –
o un Leprotto del
1502, disegnando il quale Dürer
fa una vera fotografia:
riproduce perfino la finestra che si riflette nell'occhio
dell'animaletto. Conoscere significa possedere, e possedere significa
riprodurre.
Ma
c'è sempre uno scarto, sempre un inseguimento, fra la fotografia
della natura e il suo oggetto. Cerchiamo qualcosa che non si può
raggiungere nella sua nuda immediatezza, per il semplice fatto che il
nostro sguardo è è uno sguardo di interpretazione; fotografare è
interpretare: una fotografia è un discorso.
Una
ricerca costante, che sceglie tra diverse apparizioni
della natura: una natura primigenia, intatta, che ci trasmette il
senso timoroso del sublime; o le tracce dell'uomo che si fanno natura
(vorrei ricordare qui le splendide foto della Grande Muraglia cinese
di Daniel Schwartz); ma anche la guerra eterna e pervasiva della
natura per riprendersi e inglobare in sé la presenza umana.
In queste forme si
declinano variamente le fotografie della mostra.
In
primo luogo abbiamo il decano della fotografia Elio
Ciol con le sue “concrete
astrazioni” (un ossimoro che, come spesso in fotografia, funziona
benissimo. Foto potenti, scolpite dalla luce, che vengono da Antelope
Canyon o da Israele, Masada. C'è un senso di mistero, la realtà
oggettiva trapassa nel fantastico. E non è affatto per la
suggestione del luogo se c'è qualcosa di biblico, un senso
primigenio: la bellissima foto di un raggio di luce nell'Antelope
Canyon è come se fosse stata presa il giorno della creazione. Ciol
ha una grandezza di sguardo che si esprime nella posizione e nella
distanza; pur sempre legato a un punto di vista umano, è tuttavia il
punto di vista di un gigante. Si parla spesso del lirismo di Ciol, ma
è un lirismo (vorrei dire greco) della grandezza e della potenza del
mondo.
In
ordine di qui in poi alfabetico, abbiamo Guido
Cecere con la serie
Design della natura.
Sono composizioni, dice lui stesso sul catalogo della mostra,
arcimboldesche. Se nell'Arcimboldo gli elementi naturali sono
riutilizzati per dire altro, mantenendo la loro connotazione (il
mare, le stagioni), qui sono utilizzati per il loro gioco di forme e
colori per comporre un disegno geometrico – e tuttavia mantengono
la loro materialità, i peperoni sono peperoni e le ciliege ciliege;
la solidità dei mandarini si contrappone nella stessa foto alla
fragilità dei fiori; e così si crea un gioco tra l'astratto e il
concreto, il tangibile e l'intangibile, fra la reciproca opposizione
delle materialità e la reciproca collaborazione di colori e forme
astratte.
In
Gabriele Carlo Chiopris,
ora la montagna innevata diventa un tessuto, una pelle, segnata dalla
traccia degli sci (alcuni pini sobriamente ci richiamano alla
concretezza del luogo); ora diventa uno sterminato lenzuolo bianco
dove solo alcune piccolissime figure nere e dei paletti ci danno la
traccia per contestualizzare; ora una serie di steccati campisce la
foto in un aggraziato disegno; ora un albero dai rami innevati
esplode prepotentemente nella foto, che recupera con eleganza un
antico e sempre presente motivo della fotografia.
Come in molte delle
foto, non solo di Chiopris, della mostra, la sensazione che viene
trasmessa allo spettatore è quella di un solenne silenzio: a
ricordarci il valore del silenzio nel mondo del rumore.
Stefano
Ciol: Essenzialità,
profondo senso dell'equilibrio, foto che sono giochi di tenui
sfumature sul bianco, raffinate come se fossero graffiate sul
ghiaccio o sul vetro. Un gruppo di steli disegna una figura concreta
eppure impalpabile. Filari di piante spoglie sono sagome grige che si
perdono nel bianco. Queste foto hanno un andamento di fuga che le
rende sognanti e poetiche: la loro impalpabilità le dematerializza,
sembrano invitare l'occhio a una fuga verso l'infinito: non c'è
nulla che lo fermi nel fondo bianco che le avvolge. E i solchi, dove
sono presenti, confermano e rinforzano questo calmo, voluttuoso
senso di fuga.
Duilio
Cosatto: un territorio di
acqua e sabbia, geometrico, bilanciato. In tutte le foto tranne una
compaiono i segni dell'uomo: ora forti, materiali, come una struttura
in ferro o degli edifici; ora deboli, come presenze umane in campo
lungo; ora il più tenue dei segni, una linea di orme che sembrano
avere la stessa naturalità di quelle dune che le accompagnano quasi
parallele. La sabbia è accogliente con le orme e le tracce dei
pneumatici. E su tutto, il mare come una striscia all'orizzonte, e la
presenza costante dell'acqua e dei suoi riflessi. Come scrive Cosatto
nel catalogo, il mare e la costa si riprendono i luoghi – o ne
inventano di nuovi: un gran teatro del mondo in cui la natura è
primo attore.
Anche
Marcello Franchin
è innamorato del mare, ma in modo diverso. Ama molto i pontili; il
proiettarsi dell'uomo verso il mare è anche un proiettarsi
dell'occhio verso l'infinito. Non per nulla la foto di uno di questi
pontili ha per titolo Partenza;
c'è sempre un bagaglio di attesa e sospensione. Franchin ama
l'inquadratura centrata e l'elegante geometria delle linee. A
proposito di geometria, è bello che il titolo di una delle sue foto
recuperi il termine Convergenze parallele,
strappandolo alla “lingua di legno” della politica per
restituirlo a una geometria immaginaria, una geometria dell'illusione
– e alla fotografia. Perché la fotografia di Franchin è
geometria.
Le
foto di Daniele Indrigo
sono profondamente materiche, tangibili
allo sguardo; le esalta una stampa altamente curata e raffinata, in
cui i particolari si stagliano con vigore estremo. C'è un senso di
potenza in questi vasti orizzonti, in queste rocce modellate
dall'acqua, in questi prati, queste nuvole che veleggiano libere o al
contrario sono pesanti, opprimenti. Paesaggi fortemente romantici,
non privi a volte di una vena di malinconia – come quella che si
prova quando una nuvola offusca per un attimo il sole. Una splendida
foto di un prato in Scozia, con colline brulle che arrestano lo
sguardo sul fondo, personalmente mi ricorda un grande fotografo
udinese, Silvio Maria Bujatti: non per il flou di cui Bujatti era
specialista, naturalmente, qui non potremmo essere più lontani –
ma per quest'atmosfera appunto di vastità, di ombre e luci, di
malinconia delicata.
Franco
Martelli Rossi ha sempre
avuto un grande interesse per il colore; e come pittore del colore è
affascinato dalle superfici e dalla loro sensualità tattile. Ma qui
fa un passo oltre entrando nel territorio della macrofotografia, e
osserva la grana tangibile delle foglie (anche nella mutevolezza
della loro breve vita) e il loro gioco con l'azzurro liscio del
cielo. Ordinando poi le foto in una serie che ha una conclusione di
bellezza drammatica nel gelo della morte. Non è la morte della
natura, perché la natura non muore mai (salvo i possibili tentativi
dell'uomo per ottenere questo risultato) – ma in questa serie ci
rispecchiamo noi stessi, in una costruzione dichiaratamente barocca.
E
infine, Lucio Tolar:
che ha un intento di partenza documentaristico, sul quale però
innesta una sensazione come magica, atemporale (sottolineata
dall'aspetto spettacolare della stampa su tela in grande fornato). I
suoi titoli sono ora evocativi (Nebbia,
Galaverna) ora magici
(Magia, Fiaba).
In Nanos, tronchi
coperti di muschio si protendono verso l'alto come se una forza
vegetativa nascosta volesse afferrare il cielo con le dita. In Fiaba,
in una foresta spruzzata di neve un macigno giace fra i tronchi come
un re della foresta circondato da una guardia di alberi. Vorrei
aggiungere che alcune di queste immagini mi fanno pensare a Tolkien:
non il Tolkien neozelandese dei film, beninteso, ma il vero
Tolkien dei romanzi di un'era antichissima della Terra.
E ora si tratterebbe di
trarre le conclusioni. Ma lo farò con una frase di Ernst Haas.
“L'apparecchio
fotografico rende solo più facile la 'presa'. Il fotografo deve
compiere l'operazione del 'rendere' per poter trasformare e
trascendere la comune realtà. Il problema è trasformare senza
deformare. Egli deve arrivare a dare intensità alla forma e al
contenuto introducendo un ordine soggettivo in un caos oggettivo”.
Non si potrebbe dir
meglio!
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