mercoledì 4 settembre 2013

La natura ama nascondersi

Mostra fotografica, Udine, Palazzo Morpurgo, 30 agosto-15 settembre 2013

Nota per il catalogo

Il paradosso della fotografia è lo stesso paradosso della bambina che dopo aver giocato tutto il pomeriggio nel parco andava via ma poi ritornava in punta di piedi nascondendosi e spiando dietro gli alberi: voleva vedere che aspetto aveva il parco quando lei non c'era.
La fotografia della natura (ma non solo) è impegnata nella continua rincorsa fra l'obiettivo e il di là, l'irraggiungibilità della natura in sé. “La natura ama nascondersi”. Se nella sua qualità segnica di indice la foto mantiene in sé l'impronta materiale del suo oggetto, tuttavia permane uno scarto invalicabile. Sono lontani i tempi del realismo ingenuo per cui Fox Talbot pubblicava i suoi calotipi col titolo The Pencil of Nature e la Gazette de France salutava Daguerre parlando di “immagini che si dipingono da sole”.
Fotografare è interpretare; una fotografia è un discorso. Il click dell'otturatore è il momento magico in cui nell'occhio e nel cervello del fotografo scattano (click) simultaneamente una pluralità di condizioni concorrenti: di luce, di forme, di un pattern di linee e di geometrie definito dall'inquadratura. E' una triplice operazione quella che si attiva nell'atto di inquadrare: un'intersezione fra l'oggetto della foto sul piano denotativo; l'oggetto in quanto tessitura di valori spaziali, geometrici, coloristici, ritmici; l'oggetto per il suo valore connotativo, che è culturalmente determinato. Il fotografo porta nell'immagine una cultura fatta di modelli simbolici, pittorici, grafici, filmici, fotografici in primo luogo – e ideologici. Sono sempre validi, anche se il mondo è diventato più piccolo, i due grandi poli fra i quali si situa la fotografia di paesaggio: tra il sublime di una natura primigenia in procinto di trasformarsi da Deserto in Giardino, che affascinava i grandi fotografi americani dell'Ottocento, e le tracce dell'uomo che si fanno natura (come non citare Giacomelli).
Non è solo un pezzo di mondo che ritagliamo come un trofeo. La fotografia congela il tempo – ma così, potremmo dire, fa esistere l'attimo, in quanto lo materializza. Però quest'attimo materializzato è un excerptum, è altro dal continuum vivente della natura - per questo ci inquieta. Non per nulla Barthes connette la fotografia al passato e alla morte.
La foto si oppone alla durata. Il mosso, che disegna sulla foto la traccia del movimento, può suggerirla - ma è anch'esso un tempo pietrificato. E' il cinema quello che lavora sulla durata (anche sulla tautologia della durata: Empire di Andy Warhol). Ma proprio per questo il film solo in alcuni momenti di sospensione può raggiungere una dimensione epifanica - che invece la foto possiede quasi naturalmente nella sua natura di frammento di spazio-tempo. E' questa a conferirle, al di la del suo soggetto, un quid metafisico.


Presentazione mostra, 30 agosto

Nel 1521 Albrecht Dürer disegna un tricheco (che era già morto da giorni quando lui riuscì a vederlo), nella più antica raffigurazione dal vero dell'animale. Brucia in lui, come in Leonardo, la passione di riprodurre il visibile, di aggiungere al suo reame di conoscenza e riproduzione un altro brandello del reale. E' la stessa passione che informa la sua meravigliosa Zolla d'erba – o un Leprotto del 1502, disegnando il quale Dürer fa una vera fotografia: riproduce perfino la finestra che si riflette nell'occhio dell'animaletto. Conoscere significa possedere, e possedere significa riprodurre.

Ma c'è sempre uno scarto, sempre un inseguimento, fra la fotografia della natura e il suo oggetto. Cerchiamo qualcosa che non si può raggiungere nella sua nuda immediatezza, per il semplice fatto che il nostro sguardo è è uno sguardo di interpretazione; fotografare è interpretare: una fotografia è un discorso.
Una ricerca costante, che sceglie tra diverse apparizioni della natura: una natura primigenia, intatta, che ci trasmette il senso timoroso del sublime; o le tracce dell'uomo che si fanno natura (vorrei ricordare qui le splendide foto della Grande Muraglia cinese di Daniel Schwartz); ma anche la guerra eterna e pervasiva della natura per riprendersi e inglobare in sé la presenza umana.
In queste forme si declinano variamente le fotografie della mostra.

In primo luogo abbiamo il decano della fotografia Elio Ciol con le sue “concrete astrazioni” (un ossimoro che, come spesso in fotografia, funziona benissimo. Foto potenti, scolpite dalla luce, che vengono da Antelope Canyon o da Israele, Masada. C'è un senso di mistero, la realtà oggettiva trapassa nel fantastico. E non è affatto per la suggestione del luogo se c'è qualcosa di biblico, un senso primigenio: la bellissima foto di un raggio di luce nell'Antelope Canyon è come se fosse stata presa il giorno della creazione. Ciol ha una grandezza di sguardo che si esprime nella posizione e nella distanza; pur sempre legato a un punto di vista umano, è tuttavia il punto di vista di un gigante. Si parla spesso del lirismo di Ciol, ma è un lirismo (vorrei dire greco) della grandezza e della potenza del mondo.

In ordine di qui in poi alfabetico, abbiamo Guido Cecere con la serie Design della natura. Sono composizioni, dice lui stesso sul catalogo della mostra, arcimboldesche. Se nell'Arcimboldo gli elementi naturali sono riutilizzati per dire altro, mantenendo la loro connotazione (il mare, le stagioni), qui sono utilizzati per il loro gioco di forme e colori per comporre un disegno geometrico – e tuttavia mantengono la loro materialità, i peperoni sono peperoni e le ciliege ciliege; la solidità dei mandarini si contrappone nella stessa foto alla fragilità dei fiori; e così si crea un gioco tra l'astratto e il concreto, il tangibile e l'intangibile, fra la reciproca opposizione delle materialità e la reciproca collaborazione di colori e forme astratte.

In Gabriele Carlo Chiopris, ora la montagna innevata diventa un tessuto, una pelle, segnata dalla traccia degli sci (alcuni pini sobriamente ci richiamano alla concretezza del luogo); ora diventa uno sterminato lenzuolo bianco dove solo alcune piccolissime figure nere e dei paletti ci danno la traccia per contestualizzare; ora una serie di steccati campisce la foto in un aggraziato disegno; ora un albero dai rami innevati esplode prepotentemente nella foto, che recupera con eleganza un antico e sempre presente motivo della fotografia.
Come in molte delle foto, non solo di Chiopris, della mostra, la sensazione che viene trasmessa allo spettatore è quella di un solenne silenzio: a ricordarci il valore del silenzio nel mondo del rumore.

Stefano Ciol: Essenzialità, profondo senso dell'equilibrio, foto che sono giochi di tenui sfumature sul bianco, raffinate come se fossero graffiate sul ghiaccio o sul vetro. Un gruppo di steli disegna una figura concreta eppure impalpabile. Filari di piante spoglie sono sagome grige che si perdono nel bianco. Queste foto hanno un andamento di fuga che le rende sognanti e poetiche: la loro impalpabilità le dematerializza, sembrano invitare l'occhio a una fuga verso l'infinito: non c'è nulla che lo fermi nel fondo bianco che le avvolge. E i solchi, dove sono presenti, confermano e rinforzano questo calmo, voluttuoso senso di fuga.

Duilio Cosatto: un territorio di acqua e sabbia, geometrico, bilanciato. In tutte le foto tranne una compaiono i segni dell'uomo: ora forti, materiali, come una struttura in ferro o degli edifici; ora deboli, come presenze umane in campo lungo; ora il più tenue dei segni, una linea di orme che sembrano avere la stessa naturalità di quelle dune che le accompagnano quasi parallele. La sabbia è accogliente con le orme e le tracce dei pneumatici. E su tutto, il mare come una striscia all'orizzonte, e la presenza costante dell'acqua e dei suoi riflessi. Come scrive Cosatto nel catalogo, il mare e la costa si riprendono i luoghi – o ne inventano di nuovi: un gran teatro del mondo in cui la natura è primo attore.

Anche Marcello Franchin è innamorato del mare, ma in modo diverso. Ama molto i pontili; il proiettarsi dell'uomo verso il mare è anche un proiettarsi dell'occhio verso l'infinito. Non per nulla la foto di uno di questi pontili ha per titolo Partenza; c'è sempre un bagaglio di attesa e sospensione. Franchin ama l'inquadratura centrata e l'elegante geometria delle linee. A proposito di geometria, è bello che il titolo di una delle sue foto recuperi il termine Convergenze parallele, strappandolo alla “lingua di legno” della politica per restituirlo a una geometria immaginaria, una geometria dell'illusione – e alla fotografia. Perché la fotografia di Franchin è geometria.

Le foto di Daniele Indrigo sono profondamente materiche, tangibili allo sguardo; le esalta una stampa altamente curata e raffinata, in cui i particolari si stagliano con vigore estremo. C'è un senso di potenza in questi vasti orizzonti, in queste rocce modellate dall'acqua, in questi prati, queste nuvole che veleggiano libere o al contrario sono pesanti, opprimenti. Paesaggi fortemente romantici, non privi a volte di una vena di malinconia – come quella che si prova quando una nuvola offusca per un attimo il sole. Una splendida foto di un prato in Scozia, con colline brulle che arrestano lo sguardo sul fondo, personalmente mi ricorda un grande fotografo udinese, Silvio Maria Bujatti: non per il flou di cui Bujatti era specialista, naturalmente, qui non potremmo essere più lontani – ma per quest'atmosfera appunto di vastità, di ombre e luci, di malinconia delicata.

Franco Martelli Rossi ha sempre avuto un grande interesse per il colore; e come pittore del colore è affascinato dalle superfici e dalla loro sensualità tattile. Ma qui fa un passo oltre entrando nel territorio della macrofotografia, e osserva la grana tangibile delle foglie (anche nella mutevolezza della loro breve vita) e il loro gioco con l'azzurro liscio del cielo. Ordinando poi le foto in una serie che ha una conclusione di bellezza drammatica nel gelo della morte. Non è la morte della natura, perché la natura non muore mai (salvo i possibili tentativi dell'uomo per ottenere questo risultato) – ma in questa serie ci rispecchiamo noi stessi, in una costruzione dichiaratamente barocca.

E infine, Lucio Tolar: che ha un intento di partenza documentaristico, sul quale però innesta una sensazione come magica, atemporale (sottolineata dall'aspetto spettacolare della stampa su tela in grande fornato). I suoi titoli sono ora evocativi (Nebbia, Galaverna) ora magici (Magia, Fiaba). In Nanos, tronchi coperti di muschio si protendono verso l'alto come se una forza vegetativa nascosta volesse afferrare il cielo con le dita. In Fiaba, in una foresta spruzzata di neve un macigno giace fra i tronchi come un re della foresta circondato da una guardia di alberi. Vorrei aggiungere che alcune di queste immagini mi fanno pensare a Tolkien: non il Tolkien neozelandese dei film, beninteso, ma il vero Tolkien dei romanzi di un'era antichissima della Terra.

E ora si tratterebbe di trarre le conclusioni. Ma lo farò con una frase di Ernst Haas.
L'apparecchio fotografico rende solo più facile la 'presa'. Il fotografo deve compiere l'operazione del 'rendere' per poter trasformare e trascendere la comune realtà. Il problema è trasformare senza deformare. Egli deve arrivare a dare intensità alla forma e al contenuto introducendo un ordine soggettivo in un caos oggettivo”.
Non si potrebbe dir meglio!

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