Si
paragona spesso, cercando un riferimento occidentale, il cinema del
maestro coreano Hong Sang-soo a quello di Eric Rohmer. Ed è
certamente vero per il suo amore del dialogo libero, del bavardage,
che riempie i suoi film e paradossalmente quanto più è ozioso tanto
più è significante. Tuttavia, un altro nome occidentale mi sembra
ancor più pertinente, ed è Alain Resnais. Questo per la concezione
che Hong Sang-soo ha della narrazione: una materia fluida, che ama
biforcarsi e moltiplicarsi, disperdersi in rivoli di narrazioni
alternative. Un gusto del racconto che ne esplora, modernamente, le
infinite possibilità.
In
Another Country si apre
presentandoci madre e figlia che discutono tristemente sulle
malefatte di uno zio acquisito che ha rovinato la famiglia mettendo
nei guai la madre, che aveva garantito per lui. Per questo sono
andate a rifugiarsi a Mohang, un tranquillo posto di mare senza
pretese. Per passare il tempo la figlia comincia a scrivere una
sceneggiatura (in quante opere di Hong Sang-soo torna il mondo del
cinema!) che dovrebbe raccontare la loro storia. Ah, ma le storie
hanno una loro autonomia: sotto la penna la sceneggiatura cambia
strada: diventa la storia di Anne (Isabelle Huppert), una regista
francese, che è in vacanza a Mohang assieme a un collega regista
coreano e sua moglie. Dopo aver delineato in pochi abili tocchi cosa
succede, la sceneggiatrice passa a raccontare dell'ospite successiva
dell'albergo: Anne (Isabelle Huppert), una francese di Seoul sposata
con un coreano, approfitta di un'assenza del marito per andare a
Mohang e incontrarsi clandestinamente con l'amante, un altro regista
coreano. E dopo la sua storia, tocca a quella di Anne (Isabelle
Huppert), una francese che è appena stata lasciata dal marito per
una coreana, ed è venuta a Mohang insieme a un'amica per tirarsi su.
Non
sono tre storie successive: la pseudo-sequenza temporale implicata
dalle parole “l'ospite successiva” viene smentita dalla presenza
di Isabelle Huppert, con lo stesso nome, nelle tre storie, o meglio
nelle tre “vite”, nonché dal ritornare di persone e situazioni.
Abbiamo le tre versioni di Anne, che rappresentano la varietà delle
possibilità dell'amore (l'autonomia amorosa, l'abbandono che è
implicito nell'adulterio, il trovarsi abbandonata); e attorno a lei
ruotano figure, dialoghi, oggetti, situazioni, che nelle tre storie
ritornano e si ricombinano come in un gioco di carte - o come negli
universi paralleli. E' puro Resnais la costruzione del film come
gioco combinatorio (la
seconda storia poi si ramifica a sua volta in vari svolgimenti nati
dall'immaginazione e dal desiderio). Il sottile umorismo del film non
viene tanto dalle situazioni quanto proprio dai ritorni, cioè dal
gioco combinatorio stesso. Penso che si potrebbe fare un raffronto
con l'architettura della composizione musicale.
Così,
gli stessi personaggi ritornano nel film, in differenti variazioni a
seconda delle storie - e delle scelte (Resnais encore!).
I principali sono un regista che è sempre pronto a provarci con Anne
quando beve; sua moglie incinta e (non senza giustificazioni) molto
gelosa; e soprattutto il giovane bagnino che fa da genius
loci del posto, e del film. In
un film tutt'altro che magnanimo nei confronti dei maschi coreani,
questo bagnino porta gentilezza, semplicità, ingenuità - e poesia
(improvvisa una canzone per Anne nella prima “vita”). Attratto da
Anne (in ciascuna della sua triplice versione), la corteggia
goffamente alla sua maniera da cucciolo: un corteggiamento che trova
uno sbocco differente nelle tre “vite”.
Il
gioco dei ritorni e delle variazioni è orchestrato dal regista Hong
Sang-soo con tocchi molto raffinati: per esempio, inquadrare in modo
rovesciato una situazione un po' imbarazzante a tavola, nella scena
del barbecue, nei due episodi in cui si presenta. Oppure, il gustoso
dettaglio per cui nel primo episodio Anne trova sulla spiaggia una
bottiglia di soju (il
liquore coreano) rotta, nel terzo vediamo Anne, sbronza, che la butta
(questo rinforza la nostra impressione di mondi paralleli – ma in
fondo, scrivere una sceneggiatura, come fa la ragazza nel film, è
proprio creare mondi paralleli). In tutti gli episodi ritorna come un
Leitmotiv il piccolo
faro di Mohang, che Anne cerca di andare a vedere (ma il
bagnino non sa cosa vuol dire “faro”,
e bisogna mimare). Questo aneddoto minimo ma grazioso è come un
chiodo al quale Hong appende il suo quadro. E' forte la tentazione di
vederci un significato simbolico (che poi si accorda con una sequenza
quale l'incontro col monaco nella terza “vita”): non è forse
vero che tutti noi siamo alla ricerca di un faro?
Come
sempre in Hong Sang-soo i tempi del racconto sono dilatati, nel
senso che sono realistici, “quotidiani”. Hong ha uno stile di
inquadratura essenziale: usa il campo medio o lungo, rifugge dai
primi piani. Questa moderatezza espressiva dà rilevanza agli zoom
che punteggiano (sobriamente) il film. Eppure In Another
Country non è un film austero.
Anzi, ha un tono leggero, come d'una commedia vagamente surreale.
Questo, conviene aggiungere, è il marchio di fabbrica del cinema di
Hong Sang-soo, autore famoso nel suo paese ma non conosciuto in
Italia. E' merito della coraggiosa Tucker Film averlo introdotto nel
nostro paese con questo film, nonché con un ciclo di tre piccoli
capolavori in edizione sottotitolata (Hahaha,
The Day He
Arrives e Oki's
Movie).
Tre
storie sull'amore, dicevamo, sui sentimenti e sul desiderio; ma anche
sull'essere altrove (in another country)
e su come questo incide sui rapporti, sentimentali e no. L'uso di
due lingue - il coreano sottotitolato e l'inglese (l'italiano nel
doppiaggio del film) - permette di ampliare il registro dei dialoghi
sfruttando il gap di comprensione di Anne, per cui i personaggi
possono passare al coreano per parlare di lei. Ma al di là di questo
Hong sfrutta deliziosamente il complesso di passaggi, incertezze e
rimpalli fra le due lingue: non è comico, non è neppure scherzoso,
ma mantiene uno sguardo divertito. Come divertito, lucido,
profondamente istruttivo è il suo sguardo sulla Corea. In
Another Country inanella nel suo
modo non intrusivo una serie di gustose osservazioni. Il machismo
degli uomini coreani (fra l'altro il film è intessuto di richiami ad
Anne, esagerati ma indicativi di una cultura, a stare attenta quando
va in giro). Il loro autoritarismo come mariti e le conseguenti
frizioni coniugali. Il gran gusto dei coreani per il bere (il soju
nella sua tipica bottiglietta verde potrebbe vincere l'Oscar come
best supporting
actor del film).
Anche
considerando la sua struttura, che potrebbe sbalestrare qualche
spettatore, In Another Country
è un film che conviene vedere due volte. Parola, ne vale la pena.
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