A
parte (va da sé) il contenuto, che è il commosso omaggio di Ettore
Scola al suo amico Federico Fellini, il tratto più importante di
“Che strano chiamarsi Federico” - Scola racconta Fellini è
il rispecchiarsi e rifrangersi del discorso sul proprio argomento e
di un autore su un altro autore. Questo docu-film misto di materiali
e ricostruzione è un gioco di specchi, una serie di scatole cinesi
stregate che si rovesciano l'una nell'altra. E ci fa riflettere su
quelle analogie tra Fellini e Scola come cineasti che spesso
rimangono inosservate. A ripensarci, tutto il cinema di Scola assume
una differente luce. Per esempio è affascinante accostare Brutti,
sporchi e cattivi al Fellini (a suo modo) realista degli anni
'50; ma il film più indicativo in tal senso è sicuramente Il
mondo nuovo. Lo suggerisce anche “Federico”,
sebbene solo nell'ottica del personaggio: la scelta di Scola
di dare la parte di Casanova a Mastroianni, ciò che Fellini non
aveva fatto per il Casanova di alcuni anni prima (nel presente
film, per inciso, vediamo i provini che Fellini fece a Sordi, Tognazzi e
Gassman, e sono una perla). Ci invita a meditare sul gioco di
analoghe pulsioni e differenti esiti (Fellini risolve la materia
secondo la sua vis poetica, Scola attraverso la sua passione
politica e didattica).
Scola
si rispecchia in Fellini, e lo mette bene in rilievo la prima parte
di “Federico”:
sono due plutarchiane “Vite parallele”. Entrambi, provinciali inurbati, cominciano la loro carriera scrivendo
e disegnando per il “Marc'Aurelio”. Della redazione di questa
rivista il film mette in scena una ricostruzione vivissima - e che
nomi da brivido rinascono sullo schermo! Steno, Mosca, Attalo,
Maccari, Marchesi, Metz... Tutto il meglio della grande stagione
perduta dell'umorismo italiano. Entrambi lavorano in veste di “negri”
per il cinema di Marchesi e Metz (più tardi vediamo apparire anche
Age e Scarpelli).
Amici
per tutta la vita, hanno in comune anche un interesse verso lo
svelamento della finzione cinematografica (per Fellini, fra tanti
titoli vorrei citare E la nave va,
capolavoro assoluto dell'ultimo periodo). In “Federico”,
vedi quando la descrizione realistica in b/n della redazione del
“Marc'Aurelio” culmina in un saluto di Fellini, passato al
cinema, che chiama dalla strada i suoi ex colleghi, questi lo
raggiungono per accalcarsi nel suo macchinone, ma il giovanissimo
Scola, intimidito, resta di sopra; c'è uno scambio di guardi; ed
ecco che la scena si rivela essere un set, il Teatro 5 di Cinecittà
di felliniana memoria; e questa rivelazione del “falso” della
ricostruzione si rinnova, passati al colore, un attimo dopo. Di qui
in poi, l'artificio del cinema viene continuamente esibito: vedi le
prostitute e poi il madonnaro su uno sfondo del tutto artificiale, o
i giri in macchina per Roma con un trasparente di voluta evidenza (e
accanto all'auto rombano i motociclisti del cupo finale di Roma).
I tempi si confondono: Fellini e Scola, inquadrati di spalle, sono
anziani ma il racconto della prostituta che fanno salire in auto,
imbrogliata dal fidanzato che le ha sottratto i risparmi, sembra
contenere l'ispirazione per Le notti di Cabiria di tanti anni
prima.
Scola
illustra Fellini in stile felliniano. Una pagina di “Ma tu mi stai
a sentire?” - la surreale rubrica del giovane Fellini sul
“Marc'Aurelio” - viene visualizzata in figurette del tutto
felliniane, tra Amarcord
e Roma; solo che vi
riconosciamo i personaggi grafici del disegnatore Attalo: non è
un semplice omaggio ma serve a ricordarci quanto dovesse Fellini a
quel mondo. Ancora, c'è una reminiscenza di Roma in
una scena del film coi giovani
Fellini e Maccari al varietà che assistono al naufragio di uno
spettacolo scritto da loro; sono puro Fellini anche quelle polpose
ballerine, sebbene bisogni aggiungere che lo stesso Scola ha spesso
mostrato un'ispirazione simile. Fa da tramite fra il film e il
pubblico un narratore (interpretato da Vittorio Viviani), il cui
rapporto con gli spettatori assomiglia straordinariamente a quello di
Freddie Jones in E la nave va.
Caldo,
umano, incisivo, “Federico” è
un vero concentrato di professionalità; non c'è un dettaglio
(men che mai un volto) che sia buttato lì o lasciato al caso, come
capita spesso oggi. Accanto alla sceneggiatura di Ettore, Silvia e
Paola Scola, alla fotografia di Luciano Tovoli, alla musica di Andrea
Guerra, bisogna menzionare il montaggio elegante e funzionale firmato
dal vecchio collaboratore di Scola Raimondo Crociani. Certi stacchi e
soluzioni di raccordo sono una delizia: per esempio, quando dal
bollettino di guerra (ascoltato alla radio in casa Scola),
pronunciato con la “maschia” voce impostata in uso sotto il
fascismo, si stacca con bella logicità al ras Ettore Muti in
divisa in visita alla redazione del “Marc'Aurelio”.
Se
si volesse trovare un difetto in “Che strano chiamarsi
Federico”, è
un'ombra di squilibro fra le sue due parti: la prima, l'accurata rievocazione della redazione del “Marc'Aurelio” e dell'arrivo di
Fellini (e anni dopo, di Scola) in quella sede; la seconda, una
relazione di Fellini come personaggio e regista famoso. Tuttavia
sarebbe stato impossibile per il film mantenere lo stesso tono
minuzioso e disteso, tanto più che non vuol essere un biopic.
Diciamo che mentre la prima parte è analitica, la seconda è
sintetica, quasi impressionistica. Ed elegiaca nella conclusione:
vediamo il filmato dell'omaggio dei romani alla salma di Fellini
vegliata da due carabinieri in alta uniforme. Riconosciamo la Ekberg,
Benigni, Renato Nicolini. Ah, ma il morto se la svigna, inseguito dai
due carabinieri! La sua fuga per Roma lo porta a una giostra – e
mentre la giostra gira, un montage
velocissimo fa scorrere sullo schermo immagini di tutti i suoi film.
Ma quando infine appaiono i motociclisti di Roma
e l'enorme palla di ferro di Prova d'orchestra,
allora quel ritmo accelerato rallenta drammaticamente - a ricordarci
quell'elemento nero, più che pessimista disperato, che esisteva in Fellini sotto la fantasia capricciosa e il rimpianto crepuscolare
accompagnati dalle note di Nino Rota.
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