Holy
Motors si
apre (e si chiude) su immagini del pre-cinema, registrazioni del
corpo umano in movimento a opera di Edward Marey – il che serve a
ricordarci che il cinema non nasce come narrazione bensì come
fotografia animata. Il revolver fotografico di Janssen, il fucile
fotografico di Marey, gli esperimenti di Muybridge: tutto viene dal
progetto di catturare il movimento; e alla fine di questa strada
abbiamo il cinema – infatti vediamo una sala cinematografica piena
di spettatori, che però sono immobili come manichini, o zombi, o
dormienti. Stacco a un uomo addormentato nella sua camera (è Leos
Carax, nel cui nome è contenuta la parola Oscar): si risveglia,
varca una porticina nella parete, si ritrova nel cinema stesso.
Dopo
questo prologo assistiamo a una giornata della vita di Monsieur Oscar
(Denis Lavant), il quale gira per Parigi in una limousine bianca,
guidata dalla segretaria e autista Céline (Edith Scob), preparandosi
a un tavolino da trucco per le sue interpretazioni
della giornata. Per le vie e gli angoli di Parigi incarna una serie
di figure diversissime: una vecchia mendicante che borbotta in russo,
un attore in tuta per la motion
capture
che interpreterà una danza sessuale con un'attrice, un padre di
fronte ai problemi della figlia adolescente, un killer, la sua
vittima che diventa suo sosia e si rialza mentre il killer muore, un
ricco moribondo con la nipote, il Monsieur Merde già apparso in
Tokyo
(un
film
a episodi di Carax, Gondry e Bong Joon-ho), e così via. Ma dove sono
le telecamere? Parlando con un ambiguo personaggio in visita nella
limousine (Michel Piccoli), Oscar si lamenta che sono diventate così
piccole da essere invisibili, e questo non gli piace.
Incarnazione perfetta
del paradosso dell'attore, Oscar è un corpo che assume parti; i suoi
sentimenti appartengono al ruolo che interpreta o ha appena
interpretato (il grido disperato quando vede Jean, l'ex amante,
suicida schiantata al suolo). Quanto alla sua identità nei momenti
di preparazione in auto, è un mix di professionalità e di
stanchezza insopprimibile (e quando la stanchezza trionfa Oscar vede
Parigi, dai finestrini della limousine, nella luce verdastra degli
infrarossi).
Ci si aspetterebbe che
questa spossante routine quotidiana di interpretazioni si iscriva
nella vita reale: l'uscita e il rientro nella vita familiare. Ma
anche qui le nostre ipotesi vanno deluse: il Monsieur Oscar che esce
di casa la mattina e quello che rientra in casa a sera sono due
facce, due identità, due case, due vite, due narrazioni diverse. La
prima ha un sapore politico, con la villa a forma di nave sorvegliata
da guardie del corpo, la seconda surreale, con l'appartamento modesto
e la famiglia di scimmie.
Un
film sul cinema? Certo; la presenza di Edith Scob rende omaggio a
Occhi
senza volto
di Franju; Kelly Minogue appare con un nome, Jean, e un'acconciatura
che rendono omaggio a Godard; i vari episodi sono un catalogo di
topoi
cinematografici (dal mélo al musical, dalla commedia grottesca al
realismo familiare); la scena del suicidio di Jean non allude solo a
Godard , è in se stessa godardiana. Ma questo catalogo di situazioni
è la vita, compressa e scandita in episodi cinematografici. “On
voudrait revivre / ça veut dire / on voudrait vivre encore la même
chose”, canta Gérard Manset nella colonna sonora, e lo dice Carax
stesso in un'intervista: Holy
Motors è
un film sull'esperienza di essere vivi oggi. Un film dove il cinema
assorbe e sostituisce la vita - e dove il movimento
cinematografico è meno stanco di una vita di sfondo stanca e
spompata - più che un catalogo del cinema è un catalogo
dell'esistenza umana; che però qui coincide appunto col cinema, onde
conierò il neologismo filmvita.
Non
si può non notare che in questo catalogo della filmvita il sesso è
un'attività in netta ritirata: l'unico momento in cui appare è il
risultato della motion
capture
digitale, ma è una danza di corteggiamento (pre-sesso, per così
dire) fra due creature aliene; mentre quando l'immondo Monsieur Merde
rapisce la non troppo riluttante top model Eva Green, le gira
intorno, le rovescia la borsetta, le mangia un'extension di capelli,
le strappa il vestito per fabbricarle un burqa – ma poi, dopo
un'esilarante parodia della preghiera musulmana, non fa altro che
addormentarsi in grembo a lei, nudo e in stato di erezione. Quanto
all'amore, è replicato nel segmento finale, musicale, con Kelly
Minogue - che parla di separazione, tristezza e suicidio.
E' rilevante che alla
sua famiglia di scimmie l'ultima incarnazione di Oscar prometta che
presto la loro vita cambierà. Questo va legato allo stupefacente
dialogo finale fra le limousine in garage, che che parlano accendendo
e spegnendo le luci di segnalazione. Dicono che il loro tempo è
finito, presto saranno spedite alla rottamazione. Non è solo la fine
delle auto appariscenti, è la fine generale dei motori – concetto nel
quale Carax include gli esseri umani del presente. La
filmvita volge alla fine.
Dunque
una promessa di cambiamento radicale; e con una famiglia di scimmie,
che nel finale guardano dalla finestra il cielo notturno (ombra di Kubrick, Clarke,
2001!),
inevitabile pensare all'evoluzione. Forse siamo andati un po' troppo
avanti nel gioco del virtuale; per usare il linguaggio
metaforico di Carax, le telecamere sono diventate invisibili; forse è
arrivato il momento di fare un passetto indietro (non dico disfare
Darwin!, solo un passetto). Magari questo potrebbe scuotere quegli
spettatori congelati, immobili come manichini, che vediamo nel cinema
all'inizio del film.
1 commento:
E' da quando ho visto il film al cinema che ci penso, e il tempo che è trascorso non ha cambiato la mia sensazione. Forse è giunto il tempo di parlarne.
A me sembra evidente che i vari episodi siano legati a una "remissione" del peccato attraverso una sua reiterazione o esasperazione o immedesimazione. Il titolo stesso è il fondamento e le autovetture così come i conducenti sono quelli che accompagnano ogni personaggio in questo percorso. Forse si può parlare di "purgatorio"? Rivivere o rimediare a cose accadute in vita? Se noti, durante alcuni episodi ci sono gravi "insulti" fisici che nella finzione cinematografica vengono descritti come "veri", ma subito dopo il protagonista è risanato e pronto per un nuovo momento, per una nuova parte, per un nuovo "sacrificio". Nelle recensioni che ho letto si parla di un grandissimo esercizio di stile, ed è vero, di un inno alla purezza dell'immagine e del cinema, vero anche questo, ma il senso profondo non viene mai toccato, a mio avviso. Allora si può dire che il senso profondo non c'è, e io ho preso una gran cantonata (possibile, forse probabile), oppure i critici di cui ho letto non hanno saputo o voluto dare una lettura di "senso" al film. Ai posteri ...
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