Figure
di persone che si sono costruiti intorno una barriera, inquiete,
fotografate nel grigiore dell'esilio (Le
conseguenze dell'amore)
o nell'apparente trionfo (Il
Divo)
o in una sospensione privata del cuore (This
Must Be The Place):
ecco il cinema di Paolo Sorrentino. Un esempio di quel “cinema di
letteratura” che oggi è diventato raro; Sorrentino, anche
romanziere, è prima
di tutto un grande ritrattista. In quell'abbagliante capolavoro che è
La
grande bellezza,
la sua descrizione di Jep Gambardella (Toni Servillo), intellettuale
in crisi nel vortice pigro e lutulento della mondanità romana
(Fellini, La
dolce vita?
Ne parleremo più tardi), si trasforma in una serie di ritratti
fulminanti. Non solo le figure a tutto tondo, Romano (un inedito
Carlo Verdone), scrittore fallito e innamorato fallimentare, e Ramona
(Sabrina Ferilli, mai così intensa e convincente, spogliarellista
per hobby, avvolta in un'oscura disperazione - Romano e Ramona, non
occorre insistere sul senso dei nomi. Attorno a loro gira tutta una
compagnia indimenticabile: perché Sorrentino è un maestro del
ritratto di scorcio. A volte la sua ironia non perdona, come nella
grande pagina satirica della “performer” Talia Concept (Anita
Kravos); a volte in queste figure intravede una dolorosa umanità,
perfino quando Servillo demolisce Stefania (Galatea Ranzi), una cretinetta
gauche
caviar.
Figure
enigmatiche e chiuse, i protagonisti sorrentiniani, con un dolore
nascosto che spesso si nutre di un impotente riandare al passato. Per
Jep Gambardella, autore in gioventù di un romanzo divenuto già
classico, che da quarant'anni a Roma fa il giornalista e basta,
questo richiamo è solito palesarsi nella forma innocua e perfino
lusinghiera di una persecuzione letteraria: tutti gli chiedono perché
non scrive un altro romanzo; ma poi il passato colpisce con la
notizia della morte di una donna che era stata un amore giovanile, e
qui nel suo modo indiretto Sorrentino ci introduce in una desolazione
ignota anche a se stessa. Il protagonista contempla lo svanire di un
sogno giovanile, cercare “la grande bellezza”. Roma ha catturato
Jep - peraltro più che consenziente, ce lo dice lui stesso - e ne
risucchia le energie in una vampirizzazione che non è più neanche
voluttuosa (lo sciocco “trenino” delle feste, qui simbolo del
girare in tondo: “Non va da nessuna parte”).
Diventa
sempre più presente nel film il concetto di andarsene, tagliar via,
tornare al paesello, sparire; diventa un cupio
dissolvi
(la
scena col prestigiatore verso la fine); ma tutto il film è una sorta
di danza macabra. La materializza la cafoneria sudaticcia delle feste
romane - una decadenza che ormai è pura volgarità - che apre il
film con la celebrazione del sessantacinquesimo compleanno di Jep
(mentre la seconda festa che vediamo non è più neppure decadenza, è
puro disfacimento, decomposizione). Il naturalismo, come tutti i
naturalismi, sfuma nel grottesco.
Jep
Gambardella, il “re della mondanità”, ha vissuto in una sorta di
sospensione. Ma quando sono suonati 65 anni, e i bilanci urgono alla
mente (perché non occorre neanche farli, si fanno da soli!), diventa
sempre più difficile mantenerla. Questo si lega perfettamente con la
Roma illuminata dalla fotografia, ammirevole come sempre, di Luca
Bigazzi: poiché il passato pesa sulla città. Ci si aggira fra
statue, ruderi, antiche mura, facciate di nobili palazzi, tutto
arcano e come immutabile. Inevitabilmente i
personaggi umani sembrano muoversi tra i monumenti come formiche
(cos'è in confronto al peso dei millenni la volgarità di tre romani
incontrati dal protagonista che fanno jogging sul lungotevere?)
Da
tutto ciò nasce nel film una certa atmosfera onirica - vedi la
visita ai palazzi pieni di statue antiche, vivificate dalla luce
mobile della lampada portata in mano e dal movimento della mdp, sotto
la guida di un gentile e un po' timido Virgilio (o Caronte?)
occhialuto. Incrociando il disfacimento degli uomini col peso del
passato iscritto in ogni dove, La
grande bellezza
è un film sontuoso e barocco, sarcastico e dolente, sotto il quale
scorre continuo il filo nero della morte, che emerge a tratti allo
scoperto (anche in dettagli stupendi come l'equivoco in cui
Sorrentino trascina lo spettatore a proposito di Ramona quando giace
sul letto).
In
questo trionfo del tempo che rinforza l'individuale senso del nulla e
della perdita, è
una svolta nascostamente spiazzante l'apparizione di una “Santa”
(Giusi
Merli) che sul piano visivo allude a Maria Teresa di Calcutta. Alle
prime vien facile allo spettatore di rubricare anche questa figura
sotto l'aspetto satirico, complice l'ironia del film nella pagina
memorabile dell'incontro interconfessionale cui partecipa ogni
religione, inclusi dei negroni seminudi vagamente voodoo che destano
la concupiscenza di una suora di clausura. Idem per una figura di
segretario/press agent/custode (Dario Cantarelli) più che sospetta.
Eppure poi, sotto i nostri occhi, questa figura di suora
ultracentenaria si distacca dalla dimensione satirica - potremmo
anche dire, si distacca dall'ammorbante atmosfera romana - per
arrivare a una pagina di sapore quasi zen, l'incontro coi grandi
uccelli migratori sulla terrazza. Mica per nulla, è la “Santa”
che fa da contraltare e in un certo modo da risposta alla crisi
esistenziale di Gambardella - non il cardinale interpretato con
ironia crudele e finissima da Roberto Herlitzka.
Tutti,
non stupisce, hanno
segnalato l'ombra di Fellini - ma non è una grande scoperta: lo
dichiara esplicitamente una citazione mirata (Toni Servillo a Sabrina
Ferilli: “Dai, alzati, che oggi ti porto a vedere un mostro
marino”). Non è solo per il tema, la crisi
di un intellettuale perso nel chiasso di una Roma decadente, che
ripensa al passato (per inciso, su questo punto Sorrentino è molto
meglio di Fellini: non c'è ombra qui di scene ingenuamente kitsch
come quella dell'harem immaginario di Otto e mezzo),
ma per il complesso generale del film.
Ora,
Fellini ha lasciato una traccia profonda nel nostro cinema.
L'alternativa di fronte a quest'ingombrante eredità è sempre stata
quella di ignorarla o viceversa di saccheggiarla, come ha fatto molto
cinema italiano minore: piccoli furti nel tentativo di darsi una
dignità artistica di seconda mano. Sorrentino invece si inserisce
coraggiosamente in quella traccia per elaborare un'opera sontuosa e
barocca che tiene certo presente La
dolce vita
e Roma
(e
Bertolucci e Greenaway) ma li ridefinisce per arrivare a un risultato
del tutto personale. Così anche elementi visivi che ricordano
direttamente Fellini (la nana che vaga sulla terrazza vuota, le
suorine in giro per Roma, le baldorie quasi macabre, i messaggi
misteriosi di pazzi o bambini, la contessa decaduta che si commuove
nel suo antico palazzo, l'incongrua apparizione di una giraffa)
vengono rifusi nell'opera assumendo la stessa originalità del film
compiuto. Così potremmo dire che quello di Sorrentino è il nostro
primo film veramente post-felliniano.
1 commento:
Bravo!!
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