domenica 2 giugno 2013

La grande bellezza

Paolo Sorrentino

Figure di persone che si sono costruiti intorno una barriera, inquiete, fotografate nel grigiore dell'esilio (Le conseguenze dell'amore) o nell'apparente trionfo (Il Divo) o in una sospensione privata del cuore (This Must Be The Place): ecco il cinema di Paolo Sorrentino. Un esempio di quel “cinema di letteratura” che oggi è diventato raro; Sorrentino, anche romanziere, è prima di tutto un grande ritrattista. In quell'abbagliante capolavoro che è La grande bellezza, la sua descrizione di Jep Gambardella (Toni Servillo), intellettuale in crisi nel vortice pigro e lutulento della mondanità romana (Fellini, La dolce vita? Ne parleremo più tardi), si trasforma in una serie di ritratti fulminanti. Non solo le figure a tutto tondo, Romano (un inedito Carlo Verdone), scrittore fallito e innamorato fallimentare, e Ramona (Sabrina Ferilli, mai così intensa e convincente, spogliarellista per hobby, avvolta in un'oscura disperazione - Romano e Ramona, non occorre insistere sul senso dei nomi. Attorno a loro gira tutta una compagnia indimenticabile: perché Sorrentino è un maestro del ritratto di scorcio. A volte la sua ironia non perdona, come nella grande pagina satirica della “performer” Talia Concept (Anita Kravos); a volte in queste figure intravede una dolorosa umanità, perfino quando Servillo demolisce Stefania (Galatea Ranzi), una cretinetta gauche caviar.

Figure enigmatiche e chiuse, i protagonisti sorrentiniani, con un dolore nascosto che spesso si nutre di un impotente riandare al passato. Per Jep Gambardella, autore in gioventù di un romanzo divenuto già classico, che da quarant'anni a Roma fa il giornalista e basta, questo richiamo è solito palesarsi nella forma innocua e perfino lusinghiera di una persecuzione letteraria: tutti gli chiedono perché non scrive un altro romanzo; ma poi il passato colpisce con la notizia della morte di una donna che era stata un amore giovanile, e qui nel suo modo indiretto Sorrentino ci introduce in una desolazione ignota anche a se stessa. Il protagonista contempla lo svanire di un sogno giovanile, cercare “la grande bellezza”. Roma ha catturato Jep - peraltro più che consenziente, ce lo dice lui stesso - e ne risucchia le energie in una vampirizzazione che non è più neanche voluttuosa (lo sciocco “trenino” delle feste, qui simbolo del girare in tondo: “Non va da nessuna parte”).
Diventa sempre più presente nel film il concetto di andarsene, tagliar via, tornare al paesello, sparire; diventa un cupio dissolvi (la scena col prestigiatore verso la fine); ma tutto il film è una sorta di danza macabra. La materializza la cafoneria sudaticcia delle feste romane - una decadenza che ormai è pura volgarità - che apre il film con la celebrazione del sessantacinquesimo compleanno di Jep (mentre la seconda festa che vediamo non è più neppure decadenza, è puro disfacimento, decomposizione). Il naturalismo, come tutti i naturalismi, sfuma nel grottesco.

Jep Gambardella, il “re della mondanità”, ha vissuto in una sorta di sospensione. Ma quando sono suonati 65 anni, e i bilanci urgono alla mente (perché non occorre neanche farli, si fanno da soli!), diventa sempre più difficile mantenerla. Questo si lega perfettamente con la Roma illuminata dalla fotografia, ammirevole come sempre, di Luca Bigazzi: poiché il passato pesa sulla città. Ci si aggira fra statue, ruderi, antiche mura, facciate di nobili palazzi, tutto arcano e come immutabile. Inevitabilmente i personaggi umani sembrano muoversi tra i monumenti come formiche (cos'è in confronto al peso dei millenni la volgarità di tre romani incontrati dal protagonista che fanno jogging sul lungotevere?)
Da tutto ciò nasce nel film una certa atmosfera onirica - vedi la visita ai palazzi pieni di statue antiche, vivificate dalla luce mobile della lampada portata in mano e dal movimento della mdp, sotto la guida di un gentile e un po' timido Virgilio (o Caronte?) occhialuto. Incrociando il disfacimento degli uomini col peso del passato iscritto in ogni dove, La grande bellezza è un film sontuoso e barocco, sarcastico e dolente, sotto il quale scorre continuo il filo nero della morte, che emerge a tratti allo scoperto (anche in dettagli stupendi come l'equivoco in cui Sorrentino trascina lo spettatore a proposito di Ramona quando giace sul letto).

In questo trionfo del tempo che rinforza l'individuale senso del nulla e della perdita, è una svolta nascostamente spiazzante l'apparizione di una “Santa” (Giusi Merli) che sul piano visivo allude a Maria Teresa di Calcutta. Alle prime vien facile allo spettatore di rubricare anche questa figura sotto l'aspetto satirico, complice l'ironia del film nella pagina memorabile dell'incontro interconfessionale cui partecipa ogni religione, inclusi dei negroni seminudi vagamente voodoo che destano la concupiscenza di una suora di clausura. Idem per una figura di segretario/press agent/custode (Dario Cantarelli) più che sospetta. Eppure poi, sotto i nostri occhi, questa figura di suora ultracentenaria si distacca dalla dimensione satirica - potremmo anche dire, si distacca dall'ammorbante atmosfera romana - per arrivare a una pagina di sapore quasi zen, l'incontro coi grandi uccelli migratori sulla terrazza. Mica per nulla, è la “Santa” che fa da contraltare e in un certo modo da risposta alla crisi esistenziale di Gambardella - non il cardinale interpretato con ironia crudele e finissima da Roberto Herlitzka.

Tutti, non stupisce, hanno segnalato l'ombra di Fellini - ma non è una grande scoperta: lo dichiara esplicitamente una citazione mirata (Toni Servillo a Sabrina Ferilli: “Dai, alzati, che oggi ti porto a vedere un mostro marino”). Non è solo per il tema, la crisi di un intellettuale perso nel chiasso di una Roma decadente, che ripensa al passato (per inciso, su questo punto Sorrentino è molto meglio di Fellini: non c'è ombra qui di scene ingenuamente kitsch come quella dell'harem immaginario di Otto e mezzo), ma per il complesso generale del film.
Ora, Fellini ha lasciato una traccia profonda nel nostro cinema. L'alternativa di fronte a quest'ingombrante eredità è sempre stata quella di ignorarla o viceversa di saccheggiarla, come ha fatto molto cinema italiano minore: piccoli furti nel tentativo di darsi una dignità artistica di seconda mano. Sorrentino invece si inserisce coraggiosamente in quella traccia per elaborare un'opera sontuosa e barocca che tiene certo presente La dolce vita e Roma (e Bertolucci e Greenaway) ma li ridefinisce per arrivare a un risultato del tutto personale. Così anche elementi visivi che ricordano direttamente Fellini (la nana che vaga sulla terrazza vuota, le suorine in giro per Roma, le baldorie quasi macabre, i messaggi misteriosi di pazzi o bambini, la contessa decaduta che si commuove nel suo antico palazzo, l'incongrua apparizione di una giraffa) vengono rifusi nell'opera assumendo la stessa originalità del film compiuto. Così potremmo dire che quello di Sorrentino è il nostro primo film veramente post-felliniano.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bravo!!