L'America,
terra di spazi sterminati, nella sua vastità ha qualcosa che noi
nella stretta e popolata Europa non possediamo: la dimensione
dell'Eden. E' ancora possibile andare nella wilderness
alla ricerca di un mondo in cui continua a svilupparsi
(drammaticamente) la Creazione.
Potremmo
definire “Re della terra selvaggia” (“Beasts of the Southern
Wild”), di Benh Zeitlin, un'Apocalisse psichedelica. Il suo profeta
è la bambina negra Hushpuppy, sei anni, orfana di madre, che vive
nelle zone povere, emarginate dal mondo “civile”, del bayou
della
Louisiana. Suo padre la ama
e contemporaneamente la trascura - non solo per rinchiudersi nel
rimpianto della moglie morta (così bella che accendeva i fornelli
senza toccarli) ma perché sa che la figlia resterà sola (lui è
gravemente malato) e vuole insegnarle a essere forte. Proibito
piangere. “Chi è l'uomo?” - e Hushpuppy: “Io sono io l'uomo!”
(il film è sceneggiato col regista da Lucy Alibar, da una sua pièce
teatrale).
“Sto
registrando la mia storia per gli scienziati del futuro”. Hushpuppy
(interpretata in modo sconvolgentemente autentico da Quvenzhané
Harris, di nove anni) intende il battito del cuore degli animali e
capisce le semplici cose che dicono: ho fame, devo fare la pipì;
“certe volte però parlano in codice”. Lirica e filosofica, la
voce di Hushpuppy non solo attraversa ma materialmente fonda
il film. Illustra prepotentemente il “mondo magico del fanciullo”,
nel quale non c'è distinzione fra le categorie dell'immaginazione e
della realtà: non solo i vivi e i morti (la madre) sono compresenti
nel mondo ma uomini/animali/cose appartengono a uno stesso ordine di
viventi. La voce di questa bambina di sei anni ha una potente
saggezza da sciamano. Ci parla di un incastro perfetto fra tutte le
cose che costituisce l'universo; se un solo pezzo si rompe, tutto
crolla.
Quella
che è la grande realizzazione artistica del film è di riuscire a
unificare in una identica poderosa concezione visionaria il mondo
interiore dell'infanzia e il mondo esterno, che si articola sotto il
segno del mito. Ovvero, vediamo lo stesso universo magico e organico
tanto nella mentalità infantile quanto nell'elaborazione mitica.
Senza saperlo, questo è un film vichiano.
Per
trasmetterci
questo universo panico è necessaria una particolare bellezza della
fotografia. Il nome che viene subito alla mente vedendo il film è
naturalmente quello di Terrence Malick. Però, mentre Malick
organizza un flusso di immagini girate in modo netto e rifinito fino
all'estremo, la splendida fotografia di “Beasts of the Southern
Wild” (di Ben Richardson) usa immagini più “sporche”: macchina
a mano, pellicola sgranata, costruzione dell'inquadratura
apparentemente immediata e istintiva.
Il
bayou
della
Louisiana è popolato da
una comunità anarchica e individualista - una comunità di giganti,
capaci di irridere agli uragani. Siamo a metà strada fra il Southern
Gothic
di un Faulkner impazzito e quella mitologia pionieristica americana
che comincia con le leggende di Paul Bunyan e Mike Fink, passa per
Mark Twain (il Mississippi di Huck Finn) e finisce come malinconica
evocazione in Kerouac. Ma in primo luogo questo racconto filmico fa
venir voglia di citare il Rimbaud de “Il battello ebbro”, per
l'estasi
che lo attraversa.
In
questo universo organico dove tutto è interconnesso, un giorno nella
rabbia Hushpuppy colpisce il padre – che crolla a terra, debole
com'è. E questo fa crollare l'ordine del mondo: un colpo di tuono,
iceberg che crollano al Nord, liberando antichissimi mostri dal
ghiaccio. “Mamma, mi sa che ho rotto qualcosa!” Riemersa dal
ghiaccio, la razza dei mostri, gli Aurochs, che un tempo dominavano
la terra, si mette in marcia distruttiva verso il bayou.
Inoltre,
affrontato
con coraggio dai coriacei abitanti del luogo,
arriva anche l'uragano del secolo, che allaga tutto
(“Per
ogni animale che non aveva un papà a metterlo nella barca, la fine
del mondo era già arrivata... Sono tutti giù nel fondo dove cercano
di respirare attraverso l'acqua”).
E poi i rappresentanti del mondo esterno rastrellano i locali e li
portano volenti o nolenti in un campo-ospedale.
Molto
ancora deve accadere; alla fine il film si trasforma in una Quest,
infantile (di Hushpuppy con tre coetanei) ma sacra e solenne: in
ricerca della
madre (anche sotto forma di una madre sostitutiva), del modo di
“aggiustare” il mondo, del piatto di alligatore fritto - come la
madre lo preparava - che conforterà il padre morente. Perché, se la
presenza della morte è fortissima in tutto il film, è con la morte
del padre che Hushpuppy deve fare i conti più dolorosi. “Tutti
perdono la cosa che li ha creati”.
Come
ogni Quest,
è un'impresa eroica - ma eroica la bambina lo è senza dubbio:
proibito piangere. Ed eroica e solenne è la conclusione: dopo la
morte e il funerale “vichingo” del padre vediamo Hushpuppy e la
piccola comunità del bayou
in marcia sventolando bandiere nere: gente che non si arrende mai.
“Quando
io morirò gli scienziati del futuro sapranno tutto”. E questa
fantasia paradossalmente è vera; perché un'immagine poetica e
commovente del Tutto è esattamente quello che ci trasmette il film.
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