domenica 10 marzo 2013

Educazione siberiana

Gabriele Salvatores

Dì alla sezione russa che hai visto stelle sopra il mio cuore”. Quanta fierezza c'è nelle parole di Kolja (le stelle sono i tatuaggi onorifici della mafia russa), ne “La promessa dell'assassino” di David Cronenberg. Che, lontano dal mostrare alcuna simpatia per quell'universo, ne esibisce la falsità crudele; ma la ribellione di Kolja non incrina ai suoi occhi quel senso di onore criminale.
Educazione siberiana” - lo splendido romanzo autobiografico di Nicolai Lilin e il notevole film che ne ha tratto Gabriele Salvatores - descrivono con grande vivezza la comunità degli Urka, banditi siberiani trapiantati in Transnistria. “Cavalieri antiqui” che vivono in base a codici d'onore arcaici basati sulla dignità (“La fame viene e scompare ma la dignità una volta persa non torna più”), l'intensa religiosità (il film si apre su un'icona della Vergine con tatuaggi e pistole), il rispetto degli anziani, educatori dei giovani e leader della comunità. Hanno il culto del coltello (la “picca”) e dei tatuaggi, che non sono ornamenti ma una dichiarazione della propria vita (una confessione, sentiamo nel film); considerano un dovere religioso proteggere i deboli di mente, detti “voluti da Dio”; disprezzano il denaro, che non si può tenere in casa ma solo fuori; e aborrono la droga. Risuona in Lilin l'eco dei racconti di Isaak Babel' sulla malavita di Odessa (penso in particolare al magnifico “Froim Grač”, molto vicino allo spirito di questo libro).
Ora, qualsiasi evocazione dell'onore criminale deve fare i conti con la sua connaturata fragilità. Francis Ford Coppola ha cantato ne “Il padrino” l'illusione di una morale dell'antica mafia italoamericana - il rifiuto di entrare nel giro della droga - e la caduta di quell'illusione nel sangue (Scorsese no: l'antropologo Scorsese non ci ha mai creduto). Proprio questo hanno in comune l'epopea gangsteristica e il western: entrambi esprimono il rimpianto di una nobiltà perduta. Però se è vero, come è vero, che ogni leggenda è una costruzione ideale a partire da un impasto di fango e sangue, nella leggenda gangsteristica ciò è ancora più evidente. E' questo che dà al cinema gangsteristico la sua dimensione tragica.
Adattando con rimarchevole sintonia il testo di Lilin, Salvatores porta in primo piano il momento in cui l'utopia di questa “criminalità onesta” giunge alla fine. Tra gli amici e poi nemici Kolima e Gagarin (gli attori lituani Amas Fedaravicius e Vilius Tumalavicius), è il secondo, il traditore del codice d'onore siberiano, a rappresentare il futuro, nonostante il fatto che Kolima alla fine del film lo uccida (non è uno spoiler: si può indovinare fin dal primo quarto d'ora). Il mondo dei siberiani è destinato a cadere nell'avanzata della nuova criminalità (il Seme Nero) che pensa solo al denaro; e la violenza perpetrata da Gagarin su un'amica comune, Ksenia, che è una “voluta da Dio”, non fa che esplicitare questa caduta.
Salvatores ama giocare su diversi tempi e diversi statuti dell'immagine (“Quo vadis, baby?”, per citare un solo titolo). Costruisce il presente film interlineando tre linee temporali: Kolima e Gagarin bambini, gli stessi da adulti - qui c'è il nucleo motore del dramma - e la caccia di Kolima, da militare, all'ex amico. Diverse pagine sono memorabili; cito solo la sequenza dell'inondazione, col nuoto sott'acqua di Kolima mentre scendono fluttuando bambole e icone, e il fondale del fiume ingombro di mobili affondati come un surreale negozio. Ma quel che più importa è il quadro generale. Il film di Salvatores possiede un vigore e una convinzione rari nel panorama del cinema italiano. Offre un'illustrazione assai efficace della crescita dei due giovani nel cuore della cultura Urka, concentrando le varie figure di vecchi saggi del libro in una sola, nonno Kuzja, interpretato con intensità da John Malkovich. Qualche sbavatura di un simbolismo troppo accentuato, come certi voli di piccioni bianchi in ralenti (qui non c'entra John Woo!), è perdonabile di fronte alla sincera forza del film.
Va aggiunto che - nel tradurre in forma drammatica il flusso di storia vissuta, di cultura e di leggende del testo di Lilin - Stefano Rulli e Sandro Petraglia, sceneggiatori col regista, scelgono la via più semplice, e per così dire hollywoodiana: incarnando le diverse opzioni morali in personaggi contrapposti, sviluppano la figura (assai secondaria nel libro) di Gagarin come contraltare negativo del protagonista, affibbiandogli come s'è detto pure la violenza su Ksenia. Di qui una ricerca vendicativa sullo sfondo della guerra in Cecenia, che non entra molto nel quadro, pur consentendo di alludere a un'altra opera di Lilin. Non si può dire che il risultato sia cattivo, ma chi ha letto il romanzo rimpiangerà che il film non lo abbia seguito maggiormente, per esempio nell'angosciosa e alcoolica ricerca dei colpevoli dello stupro fra le varie comunità criminali della città, che è un capitolo memorabile.
Ma il film resta un'opera rilevante. Un dettaglio come le barbabietole color sangue affettate dalla madre mentre a Kolima il nonno affida la pistola per la vendetta mostra tutta la capacità di Salvatores di trasferire un concetto sul piano visuale. E il suo interesse per il modo in cui le costruzioni conoscitive culturali o semplicemente individuali (ri)definiscono la realtà lo ha indubbiamente stimolato a portare sullo schermo questa storia, offrendoci una truce chanson de geste.

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