“Dì
alla sezione russa che hai visto stelle sopra il mio cuore”. Quanta
fierezza c'è nelle parole di Kolja (le stelle sono i tatuaggi
onorifici della mafia russa), ne “La promessa dell'assassino” di
David Cronenberg. Che, lontano dal mostrare alcuna simpatia per
quell'universo, ne esibisce la falsità crudele; ma la ribellione di
Kolja non incrina ai suoi occhi quel senso di onore criminale.
“Educazione
siberiana” - lo splendido romanzo autobiografico di Nicolai Lilin e
il notevole film che ne ha tratto Gabriele Salvatores - descrivono
con grande vivezza la comunità degli Urka, banditi siberiani
trapiantati in Transnistria. “Cavalieri
antiqui” che vivono in base a codici d'onore arcaici basati
sulla dignità (“La fame viene e scompare ma la dignità una volta
persa non torna più”), l'intensa religiosità (il film si apre su
un'icona della Vergine con tatuaggi e pistole), il rispetto degli
anziani, educatori dei giovani e leader della comunità. Hanno il
culto del coltello (la “picca”) e dei tatuaggi, che non sono
ornamenti ma una dichiarazione della propria vita (una confessione,
sentiamo nel film); considerano un dovere religioso proteggere i
deboli di mente, detti “voluti da Dio”; disprezzano il denaro,
che non si può tenere in casa ma solo fuori; e aborrono la droga.
Risuona in Lilin l'eco dei racconti di Isaak Babel' sulla malavita di
Odessa (penso in particolare al magnifico “Froim Grač”, molto
vicino allo spirito di questo libro).
Ora,
qualsiasi evocazione dell'onore criminale deve fare i conti con la
sua connaturata fragilità. Francis Ford Coppola ha cantato ne “Il
padrino” l'illusione di una morale dell'antica mafia italoamericana
- il rifiuto di entrare nel giro della droga - e la caduta di
quell'illusione nel sangue (Scorsese no: l'antropologo Scorsese non
ci ha mai creduto). Proprio questo hanno in comune l'epopea
gangsteristica e il western: entrambi esprimono il rimpianto di una
nobiltà perduta. Però se è vero, come è vero, che ogni leggenda è
una costruzione ideale a partire da un impasto di fango e sangue,
nella leggenda gangsteristica ciò è ancora più evidente. E' questo
che dà al cinema gangsteristico la sua dimensione tragica.
Adattando
con rimarchevole sintonia il testo di Lilin, Salvatores porta in
primo piano il momento in cui l'utopia di questa “criminalità
onesta” giunge alla fine. Tra gli
amici e poi nemici Kolima e Gagarin (gli attori lituani Amas
Fedaravicius e Vilius Tumalavicius), è il secondo, il traditore del
codice d'onore siberiano, a rappresentare il futuro, nonostante il
fatto che Kolima alla fine del film lo uccida (non è uno spoiler: si
può indovinare fin dal primo quarto d'ora). Il mondo dei
siberiani è destinato a cadere nell'avanzata della nuova criminalità
(il Seme Nero) che pensa solo al denaro; e la violenza perpetrata da
Gagarin su un'amica comune, Ksenia, che è una “voluta da Dio”,
non fa che esplicitare questa caduta.
Salvatores
ama giocare su diversi tempi e diversi statuti dell'immagine (“Quo
vadis, baby?”, per citare un solo titolo). Costruisce il
presente film interlineando tre
linee temporali: Kolima e Gagarin bambini, gli stessi da adulti - qui
c'è il nucleo motore del dramma - e la caccia di Kolima, da
militare, all'ex amico. Diverse pagine sono memorabili; cito
solo la sequenza dell'inondazione, col nuoto sott'acqua di Kolima
mentre scendono fluttuando bambole e icone, e il fondale del fiume
ingombro di mobili affondati come un surreale negozio. Ma quel che
più importa è il quadro generale. Il film di Salvatores possiede un
vigore e una convinzione rari nel panorama del cinema italiano. Offre
un'illustrazione assai efficace della crescita dei due giovani nel
cuore della cultura Urka, concentrando le varie figure di vecchi
saggi del libro in una sola, nonno Kuzja, interpretato con intensità
da John Malkovich. Qualche sbavatura di un simbolismo troppo
accentuato, come certi voli di piccioni bianchi in ralenti (qui non
c'entra John Woo!), è perdonabile di fronte alla sincera forza del
film.
Va aggiunto che - nel
tradurre in forma drammatica il flusso di storia vissuta, di
cultura e di leggende del testo di Lilin - Stefano Rulli e Sandro
Petraglia, sceneggiatori col regista, scelgono la via più
semplice, e per così dire hollywoodiana: incarnando le diverse
opzioni morali in personaggi contrapposti, sviluppano la figura
(assai secondaria nel libro) di Gagarin come contraltare negativo del
protagonista, affibbiandogli come s'è detto pure la violenza su Ksenia.
Di qui una ricerca vendicativa sullo sfondo della guerra in Cecenia,
che non entra molto nel quadro, pur consentendo di alludere a
un'altra opera di Lilin. Non si può dire che il risultato sia
cattivo, ma chi ha letto il romanzo rimpiangerà che il film non lo
abbia seguito maggiormente, per esempio nell'angosciosa e alcoolica
ricerca dei colpevoli dello stupro fra le varie comunità criminali
della città, che è un capitolo memorabile.
Ma il film resta
un'opera rilevante. Un dettaglio come le barbabietole color sangue
affettate dalla madre mentre a Kolima il nonno affida la pistola per
la vendetta mostra tutta la capacità di Salvatores di trasferire un
concetto sul piano visuale. E il suo interesse per il modo in cui le
costruzioni conoscitive culturali o semplicemente individuali
(ri)definiscono la realtà lo ha indubbiamente stimolato a portare
sullo schermo questa storia, offrendoci una truce chanson de geste.
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