Forse
in primo luogo il “Pinocchio” di Enzo d'Alò è un paesaggio: il
paesaggio toscano d'Ottocento dei meravigliosi disegni di Lorenzo
Mattotti. Un'Italia di case alte alte e con piccole finestre (D'Alò
parla di un influsso di De Chirico; ma, direi, in tutt'altro spirito)
e di paesi tutti scalinate e verande e ballatoi; un'Italia agreste di
file d'alberi svettanti e di campi geometrici che si stendono a
perdita d'occhio nella visione dall'alto.
E
i colori? Vivissimi, caldi, sognanti (c'è un fiume dai riflessi
affascinanti), tingono di una meraviglia gioiosa questo piccolo mondo
antico – e favoloso. Basta vedere come le tinte verdoline del
prologo si trasformino in una sinfonia di colori fatati quando
l'aquilone sfugge di mano al bambino e volando via trascina con sé
la narrazione nel campo della fiaba.
Com'è
noto, nel capitolo III del romanzo Pinocchio ha appena imparato a
usare le gambe che prende e corre via. Collodi la dà come
dimostrazione immediata della natura di quello “sciagurato
figliolo” (Geppetto dixit); e infatti quella fuga - che nel libro
segue a dispetti perpetrati fin da quando è un pezzo di legno - è
la prima di tutta una serie di fughe e tradimenti nel corso della
storia, che è un continuo sottrarsi d'un figlio disobbediente al
proprio dovere, ogni volta punito severamente (e giustamente) dai
fatti. Ebbene, forse per la prima volta una versione cinematografica
di “Pinocchio” ci fa vedere un mondo così bello che comprendiamo
la smania del burattino di partire “come un barbero” per correrci
dentro.
E'
un paesaggio così gioioso, quello del film, che solo la notte può
dargli un tono di drammaticità: e anche qui, non eccessivamente.
Ora, “Pinocchio” è il grande libro nero della nostra
letteratura; e infatti il presente film rinuncia a trasmettere
interamente quel suo sottinteso cupo (ben presente per esempio nelle
illustrazioni del grande Carlo Chiostri). A parte una sola
inquadratura, terribile e solenne in cui l'ombra del corpo impiccato
di Pinocchio si riflette sulla casa della Fatina.
Un
paesaggio al quale nei disegni di Mattotti fanno perfetto riscontro i
personaggi: i due Carabinieri che sono uno studio di astrazione
conica, il Pescatore Verde che mostra tutta la sua inquietante
parentela coi batraci, il Gatto e la Volpe che sono puro cartone
animato (o grullo d'un Pinocchio, viene da dire, come ci si può
lasciar imbrogliare da un cartoon?). Con una delle sue invenzioni
migliori, poi, il film toglie alla Fatina la sua sovrastruttura
tradizionale, un po' melensa, da fata buona per trasformarla in una
ragazzina dal viso spiritoso. Non una madre sostitutiva ma una
coetanea più saggia, dalla quale Pinocchio è affascinato.
Sebbene
il film - sceneggiato da D'Alò con Umberto Marino - lasci lo
spettatore con l'impressione che manchi qualcosa, forse per la sua
voglia di sintesi, è una gradevolissima cavalcata narrativa e
visuale. Pare anche di scorgere alcuni piacevoli riferimenti
abilmente “impastati” nel disegno. I gestori del Paese dei
Balocchi (un'aggiunta di D'Alò a Collodi), inquietanti mostri-robot
dall'aria fintamente festosa, ripropongono una grafica “psichedelica”
anni Sessanta. Nel cane Alidoro, una parte felicemente ampliata
rispetto al testo, ho l'impressione che si ripropongano,
contestualizzate e modernizzate, certe espressioni della miglior
creazione di Hanna e Barbera, il Muttley di “Wacky Races”. E non
manca Walt Disney: il suo “Pinocchio” è citato esplicitamente
nella sequenza del Pescecane; ma, a giudicare dal movimento, si
direbbe che anche quella lugubre banda di tre fantasmatici conigli
bianchi che entra suonando nella scena della medicina rifiutata si
ricordi della scena degli incubi di Dumbo ubriaco nel film omonimo.
Il
“Pinocchio” di D'Alò ha avuto un lunghissimo periodo di
gestazione – più di dieci anni - durante il quale l'autore ha
avuto modo di riflettere lungamente sulla sua concezione del
racconto. Alla base della versione di D'Alò è il rapporto fra
Geppetto e Pinocchio come rapporto di avvicinamento reciproco, in cui
non solo Pinocchio deve imparare a essere figlio ma anche Geppetto
deve “crescere” come padre. Oggetto-simbolo del film potrebbe
essere la fotografia incorniciata che vediamo in casa di Geppetto,
onde apprendiamo che Geppetto non è solo vedovo ma ha perduto un
figlio; su questa foto, prima lui modifica il figlio allungandogli il
naso, a indicare che Pinocchio è lì per sostituirlo, in seguito è
Pinocchio che aggiunge al gruppo familiare uno scarabocchio
rappresentante se stesso.
Il
primo polo di questo “doppio movimento” - se non il secondo - si
avvicina molto alla concezione collodiana. Rare volte è stata resa
così bene quello che vorrei chiamare l'incrocio di umanità
psicologica e inumanità fisica del burattino: umano nella sua natura
di “birbone”, quasi sovrumano nella sua capacità di movimento -
e nell'appetito gargantuesco. Ampliando Collodi, D'Alò delinea un
Pinocchio ipercinetico, che ha il diavolo in corpo. Corre e salta
come nessun ragazzino potrebbe, non mangia ma divora il cibo con
voracità (è il caso di dirlo) da cartone animato; e dopo che ha
finito il cibo, mangia anche le stoviglie. Tocca però ammettere che
c'è un elemento che a volte sfiora il lezioso nel suo modo di
parlare, in opposizione alla felicità anche fisionomica del visivo.
Come
tutti sanno, le musiche sono di Lucio Dalla, e ci arrivano come un
commiato. Sarebbe inutile lamentarsi che le canzoni durino così
poco! Purtroppo il tempo in cui i cartoni animati erano intimamente
connessi alla musica, e i lungometraggi quasi dei musical, sono
tramontati: il pubblico infantile non lo accetterebbe più. Che
peccato...
Nessun commento:
Posta un commento