Diciamolo
subito: “Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato” di Peter Jackson,
primo film della prevista trilogia da “Lo Hobbit” di Tolkien, è
grande divertimento. Quasi tre ore passano senz'accorgersene. Ma
allora perché non usciamo dalla sala completamente soddisfatti?
Si
tratta di una versione eminentemente grafica: quindi,
emozionante come realizzazione visuale, ma piuttosto fredda come
definizione dei personaggi. Ciò nonostante la buona interpretazione
generale (anche Martin Freeman, che interpreta Bilbo, è migliore di
Elijah Wood che ne “Il Signore degli Anelli” era Frodo). Per
inciso, parlando degli interpreti, è una bizzarra anomalia che nel
racconti di fatti accaduti 60 anni prima di quelli della Trilogia
dell'Anello alcuni personaggi siano visibilmente più vecchi (Ian
McKellen, Christopher Lee); ma a questo non c'è rimedio.
La
scelta che indirizza tutto il film è di porsi rigidamente nella scia
de “Il Signore degli Anelli”; e per questo c'è un motivo (e uno
scotto). La trasposizione filmica dei romanzi di J.R.R. Tolkien ha
compiuto il percorso inverso a quello della loro scrittura. Tolkien
scrisse per primo “Lo Hobbit”, originariamente come fiaba per i
suoi figli; dopo, in base alle richieste di un seguito, ne
riprese il materiale nella Trilogia, nell'ambito di un ampliamento
della visuale che implicava anche una maggiore drammatizzazione (un
elemento indicatore in merito è il cambio
di ruolo
dell'Anello).
Ne
“Lo Hobbit” c'è un elemento di humour fiabesco - sorretto dalla
voce narrante di Tolkien con un certo tono tongue-in-cheek -
che nella Trilogia del “Signore degli Anelli” è
scomparso. Certo, anche lì v'è umorismo; ma è uno humour che
potremmo definire dickensiano, non più fiabesco-paradossale (è
interessante osservare che la stessa transizione si
realizza nella saga di Harry Potter). Un esempio del particolare umorismo
de “Lo Hobbit” si ha quando, nell'episodio di Gollum, Tolkien ci
dice che egli si ricordava dei vecchi tempi in cui, dopo aver saccheggiato
un pollaio, insegnava a sua nonna a bere le uova. Questa è la
materializzazione comica di una frase fatta inglese, e lo scherzo
sta proprio nella sua applicazione alla realtà narrativa e
biografica (uno spirito simile si può trovare in James M. Barrie).
Il film può mantenere la frase solo trasferendola nel dialogo - col
che la attenua. Un altro esempio di questa comicità è l'episodio
farsesco dei tre troll (con nomi da contadini inglesi) – che il
film risolve eliminando la trovata tolkieniana di Gandalf che,
nascosto, imita le loro voci per farli litigare (infatti nel film
Gandalf ha solo un'apparizione eroica: spacca un masso con un colpo
del bastone magico - in puro stile “Signore degli Anelli”).
Orbene, come dicevamo, la produzione dei film da Tolkien ha compiuto il percorso inverso rispetto ai romanzi. Di conseguenza, però, era difficile che si potesse inserire il genere di humour de “Lo Hobbit” in un film che viene dopo la Trilogia. Agli occhi degli spettatori una simile operazione avrebbe avuto qualcosa di parodistico. Così nel film l'umorismo del romanzo è mantenuto praticamente solo all'inizio, con le notazioni divertite sull'invasione dei nani in casa di Bilbo (e con la sublime spiegazione di come è nato il golf). In seguito tutto scorre nei binari più seri della Trilogia (vedi per esempio come si perda il divertimento con cui Tolkien descrive Thorin; per solennizzarlo il film lo rende un solenne rompiscatole). Insomma il film che abbiamo davanti è - se mi si dà licenza di violentare la lingua italiana - uno “Hobbit” Signore-degli-Anellizzato.
Orbene, come dicevamo, la produzione dei film da Tolkien ha compiuto il percorso inverso rispetto ai romanzi. Di conseguenza, però, era difficile che si potesse inserire il genere di humour de “Lo Hobbit” in un film che viene dopo la Trilogia. Agli occhi degli spettatori una simile operazione avrebbe avuto qualcosa di parodistico. Così nel film l'umorismo del romanzo è mantenuto praticamente solo all'inizio, con le notazioni divertite sull'invasione dei nani in casa di Bilbo (e con la sublime spiegazione di come è nato il golf). In seguito tutto scorre nei binari più seri della Trilogia (vedi per esempio come si perda il divertimento con cui Tolkien descrive Thorin; per solennizzarlo il film lo rende un solenne rompiscatole). Insomma il film che abbiamo davanti è - se mi si dà licenza di violentare la lingua italiana - uno “Hobbit” Signore-degli-Anellizzato.
Ma
per i numerosi sceneggiatori di Jackson un simile intervento
significava riscrivere in profondità Tolkien; cioè quasi divenire
Tolkien; e per quanto essi siano abili, non licet omnibus adire
Corinthum, ovvero, all'altezza di Tolkien non possono sollevarsi
tutti.
E'
così che “Lo Hobbit” di Peter Jackson si srotola sul filo di una
certa contraddizione. Da un lato è senz'altro soddisfacente sul
piano visivo. Non solo i panorami sono meravigliosamente fiabeschi.
Il re dei goblin, mostruoso e gozzuto, è una figura memorabile; lo
scontro coi goblin nelle loro grotte, se non raggiunge l'altezza
drammatica e la pregnanza visuale dell'indimenticata battaglia nelle
miniere di Moria de “Il Signore degli Anelli”, è tuttavia una
pagina di cinema rollercoaster viva e avvincente; la lotta dei
due giganti di pietra è una pagina potente (una delle poche nel film
capace di farci tremare); quanto alla sequenza di Bilbo con Gollum, è
perfetta, la migliore di tutto il film.
Dall'altro
lato, “Lo Hobbit” non riesce - come invece fa splendidamente Tolkien - a dare
una dimensione umana profonda ai suoi personaggi. Solo a tratti, rari
tratti, si sente il soffio tolkieniano della grandezza.
Bisogna
però ricordare che anche nella trilogia de “Il Signore degli
Anelli” Peter Jackson aveva lasciato col primo episodio una certa
impressione di accademico - salvo risalire molto col secondo, che è
il migliore dei tre. Così possiamo sperare che nei prossimi episodi
quell'esigenza venga soddisfatta. Anche altrimenti, comunque, il
divertimento è assicurato.
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