Diciamo
la verità: si va a vedere “Vita di Pi”, di Ang Lee, per vedere
la tigre. La storia del film la conosciamo tutti: un giovane indiano
sta viaggiando sul mare con un intero zoo nella stiva, destinato alla
vendita in Canada. Quando la nave affonda in una tempesta, l'uomo si
trova a condividere la scialuppa di salvataggio con alcuni animali,
dei quali l'unico a sopravvivere è una feroce tigre del Bengala -
con la quale deve trovare in qualche modo una convivenza.
L'idea
solletica fortemente il nostro gusto per l'avventura; niente di male
in questo; anzi, se il film di Ang Lee ha un merito è proprio di
portare sullo schermo con vigore quest'odissea. La materialità dura
e concreta del rapporto d'incontro/scontro fra il naufrago e la tigre,
e delle loro reciproche traversie, è resa ottimamente; sotto questo aspetto Ang Lee realizza sequenze memorabili. L'uso
credibile e fascinoso della CGI riesce perfettamente a mimetizzarsi
nelle riprese reali (e più tardi popola l'isola dove approda
provvisoriamente la scialuppa di un'indimenticabile folla di
suricati, moltiplicati al computer).
Bisogna aggiungere che
“Vita di Pi” sono due film in uno; e il consiglio è di
sopportare il primo per arrivare al secondo. Infatti la parte
iniziale è faticosa e indecisa. Questo inizio divagante, che non si
capisce dove voglia andare a parare, da un lato manca di
quell'ammirevole capacità del cinema americano classico di
indirizzarsi - vorrei dire - spietatamente verso l'oggetto base della
narrazione, dall'altro non riesce ad attingere quella vivacità nel
seguire i vari percorsi della vita che ci hanno insegnato le varie
nouvelles vagues. E' caratterizzato da una verbosità
estenuante, che ci lascia con l'impressione di aver visto uno dei
film più parlati della storia del cinema. Quando la voce narrante
cessa di imperversare, si passa a densi dialoghi; e così via.
Bisogna
dire che Ang Lee fa del suo meglio per sopperire al bla bla curando
il visuale. Per esempio la descrizione della piscina di Parigi è
un'immagine molto bella, con quelle attraenti signore in costumi anni
'50 fotografate nei colori tenui di un film appunto dei '50. Regista
molto visivo, Ang Lee non perde occasione per trovare belle immagini
(ad esempio, la nave che affonda vista sott'acqua, con tutti i fanali
ancora accesi). La fotografia di Claudio Miranda è sempre notevole,
seppure a tratti un po' leccata.
La
responsabilità del carattere in ultima analisi insoddisfacente di
“Vita di Pi” sta nell'incontro ill-fated
fra un regista della concretezza come Ang Lee e una sceneggiatura
poco felice di David Magee, che non riesce a rendere in modo egualmente convincente i vari livelli del testo. Tratto dal romanzo di Yann
Martel, “Vita di Pi” è stato reclamizzato come un film di
suspense avventurosa (con un sottofondo filosofico, d'accordo, ma
questo sembra essere inerente a tutti i naufragi; ce l'aveva anche
“Castaway”); ma in realtà è un ambizioso conte
philosophique. Quelle che nel
racconto sembrano falle logiche si spiegano poi grazie alla
conclusione – che non vado a rivelare (comunque, attenzione! Di qui
in poi ci aggiriamo nei perigliosi territori dello spoiler). Essa dà
ragione della comparsa impossibilmente subitanea della tigre quando
attacca la iena, nonché della scomparsa dei cadaveri dopo (la tigre
ne mangia anche le ossa? e non restano tracce di sangue?). In
effetti, il progetto del film è stato palleggiato nell'arco di dieci
anni fra registi portati al côté
immaginoso e fantastico (Shyamalan, Cuaron, Jeunet).
Ang
Lee avrebbe dovuto prendere del racconto solo il nucleo centrale se
voleva darne la trattazione realistico-avventurosa che ne ha dato. In
questo senso, il realismo stesso delle belle sequenze con la tigre
produce una bizzarra contraddizione: da un lato è il cuore del film,
ed è ovviamente il motivo per cui esso incassa molto al box office;
dall'altro, lavora contro
i sottintesi filosofici e simbolici, ne indebolisce la portata. Quando
poi arriva la conclusione (diciamo, una spiegazione alternativa dei
fatti; si lascia allo spettatore di scegliere), è francamente
insopportabile che sia enunciata soltanto a parole – e non solo
perché di parole, nel film, ne abbiamo già sentite francamente
troppe. Se ricordate il discreto film horror di Federico Zampaglione
“Shadow”, che in qualche modo poterebbe essere assimilato a “Vita
di Pi” (e non è il solo nella storia del cinema), pur esso aveva
l'intelligenza di visualizzare la spiegazione alternativa. Altrimenti
resta sospesa ai discorsi.
“Tiger,
tiger, burning bright / In the forests of the night, / What immortal
hand or eye / Could frame thy fearful simmetry?” Questa poesia la
conoscono a memoria tutti i bambini inglesi. Ma cosa intendeva
William Blake parlando di fearful simmetry?
La “spaventosa simmetria” non è solo la conformazione del corpo
della tigre, la sua bellezza. E' anche la sua micidiale agilità, la
sua feroce determinazione. La tigre è puro atto senza parole. In
questo senso la tigre che vediamo nel film è la negazione del film
stesso, della sua verbosità e dei suoi simbolismi e filosofemi.
Nessun commento:
Posta un commento