venerdì 14 dicembre 2012

Grandi speranze

Mike Newell

Il capolavoro di Charles Dickens “Grandi speranze” è il romanzo di quel sogno di rovesciamento totale delle sorti, di “riconoscimento” esistenziale da parte di un benefattore ricchissimo, in cui si crogiola con dolorosa voluttà qualsiasi bambino solitario. C'è una delusione conclusiva - a differenza, per esempio, della conclusione vagamente fiabesca di “Oliver Twist” - che però si risolve in una crescita personale. Della storia di Pip, dei suoi terrori, della sua ascesa e caduta, il film “Grandi speranze” di Mike Newell è una versione non geniale ma indubbiamente competente - anche se certo non eclisserà la versione di David Lean del 1946.
Newell e il suo sceneggiatore David Nicholls scelgono un'idea guida e la perseguono con coerenza: il gotico. Come il film il romanzo si apre con la scena del cimitero dove l'evaso terrorizza Pip; ma in Dickens quel tanto di orrorifico che v'è nella scena è mediato dall'ingenuità infantile evocata dalla voce narrante; in Newell è solo terrore e dà il la al tono generale del film - proprio come la gabbia appesa a una forca sulla strada, appena accennata in Dickens, qui diventa un oggetto-simbolo. Logicamente Newell trascrive in termini gotici tutta la parte relativa a Miss Havisham. In Dickens questa reclusa volontaria, che passeggia intorno al tavolo di un antico banchetto nuziale popolato di scarafaggi e ragni, è certamente inquietante, ma ciò a causa del diapason stridulo raggiunto dal suo tratto base, che è l'eccentricità. In questo senso sembra appartenere, benché con una sfumatura nera, alla stessa famiglia di Betsey Trotwood (“David Copperfield”). Invece nel film, ove agli insetti sul tavolo si sostituiscono i topi, Newell ruba a Tim Burton una perfetta Helena Bonham Carter per costruire una figura spettrale avvolta in veli grigi. Allo stesso modo, il film opera una modificazione della sua dimora per trasformarla in un haunted palace che, anche se privo di fantasmi (l'infestano emozioni e ricordi), richiama alla memoria il palazzo di un buon horror Hammer recente, “The Woman in Black”.
Nella seconda parte, ambientata in una Londra simile a quella di John Landis in “Burke & Hare”, seguendo il romanzo il gotico si stempera in un turbine di agnizioni e rivelazioni di stampo feuitellonistico, ma con la demise di Miss Havisham ha un ritorno in forze. Una vena nera attraversa comunque il film, dall'insistenza sui calchi di teste di impiccati nello studio dell'avvocato all'apparizione di Magwitch in cima alle scale (ombra del “Dracula” di Fisher!). Il cupo climax notturno in mare ne rappresenta l'adeguata conclusione.
Dickens è il creatore di infinite vivacissime figurette (famoso il dipinto di Buss “Dickens' Dream” che lo mostra dormiente circondato dai suoi personaggi). I suoi illustratori, come Buss e Cruikshank, contribuirono alla definizione di queste figurette non già inventando ma per così dire intuendo e sviluppando quell'elemento grafico che (gran dote dell'autore) è già contenuto nella pagina scritta. Un film da Dickens non sarebbe degno di menzione se trascurasse quel suo scatenato gusto visuale; e Newell ci riesce, punteggiando il film di visi memorabili (aiutato da un ottimo lavoro scenografico e costumistico).
Invece piuttosto discutibile, perché troppo evidente, è il modo di rendere i flashback, attraverso una deformazione dell'immagine. Colpisce, questo, in un'epoca in cui il linguaggio cinematografico preferisce semmai limitare fino ad annullarle le marche di riconoscimento del flashback. Allora tanto valeva ritornare al vecchio sistema del b/n o del seppia - oppure, vien da dire per questo film, sarebbe stata adeguata una tinta rossastra.
Il problema maggiore del film è la difficoltà nel rendere l'intricato romanzo dickensiano: lo svolgimento si lascia seguire ma nella seconda parte il film si trasforma a volte in una sorta di illustrazione riassuntiva. Le motivazioni dei personaggi, come Estella e Miss Havisham, sono più chiare nel testo che nel film. Eppure, anche in questa volontà illustrativa che sembra ribellarsi all'idea di tagliare c'è del merito. Penso alla scena in cui Pip va a casa di Wemmick e fa la conoscenza del suo vecchio padre sordo, che si diverte col figlio a sparare ogni giorno un colpo di cannone. E' un episodietto che non aggiunge nulla allo svolgimento del film e si sarebbe potuto tranquillamente togliere. Eppure ha un'aria dickensiana che incanta; e allora è un bene che sia stato mantenuto (con in più il particolare fresco dei bambini che si radunano per sentire la cannonata). Così, in conclusione, questo “Grandi speranze” è un bel contributo al bicentenario del grande inglese.


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