Il
capolavoro di Charles Dickens “Grandi speranze” è il romanzo di
quel sogno di rovesciamento totale delle sorti, di “riconoscimento”
esistenziale da parte di un benefattore ricchissimo, in cui si
crogiola con dolorosa voluttà qualsiasi bambino solitario. C'è una
delusione conclusiva - a differenza, per esempio, della conclusione
vagamente fiabesca di “Oliver Twist” - che però si risolve in
una crescita personale. Della storia di Pip, dei suoi terrori, della
sua ascesa e caduta, il film “Grandi speranze” di Mike Newell è
una versione non geniale ma indubbiamente competente - anche se certo
non eclisserà la versione di David Lean del 1946.
Newell
e il suo sceneggiatore David Nicholls scelgono un'idea guida e la
perseguono con coerenza: il gotico. Come il film il romanzo si apre
con la scena del cimitero dove l'evaso terrorizza Pip; ma in Dickens
quel tanto di orrorifico che v'è nella scena è mediato dall'ingenuità
infantile evocata dalla voce narrante; in Newell è solo terrore e dà
il la al tono generale del film - proprio come la gabbia appesa a una
forca sulla strada, appena accennata in Dickens, qui diventa un
oggetto-simbolo. Logicamente Newell trascrive in termini gotici tutta
la parte relativa a Miss Havisham. In Dickens questa reclusa
volontaria, che passeggia intorno al tavolo di un antico banchetto
nuziale popolato di scarafaggi e ragni, è certamente inquietante, ma
ciò a causa del diapason stridulo raggiunto dal suo tratto base, che
è l'eccentricità. In questo senso sembra appartenere, benché con
una sfumatura nera, alla stessa famiglia di Betsey Trotwood
(“David Copperfield”). Invece nel film, ove agli insetti sul
tavolo si sostituiscono i topi, Newell ruba a Tim Burton una perfetta
Helena Bonham Carter per costruire una figura spettrale avvolta in
veli grigi. Allo stesso modo, il film opera una modificazione della
sua dimora per trasformarla in un haunted
palace che, anche se privo di fantasmi
(l'infestano emozioni
e ricordi), richiama alla memoria il palazzo di
un buon horror Hammer recente, “The Woman in Black”.
Nella
seconda parte, ambientata in una Londra simile a quella di John
Landis in “Burke & Hare”, seguendo il romanzo il gotico si
stempera in un turbine di agnizioni e rivelazioni di stampo
feuitellonistico, ma con la demise
di Miss Havisham ha un ritorno in forze. Una vena nera attraversa
comunque il film, dall'insistenza sui calchi di teste di impiccati
nello studio dell'avvocato all'apparizione di Magwitch in cima alle
scale (ombra del “Dracula” di Fisher!). Il cupo climax notturno
in mare ne rappresenta l'adeguata conclusione.
Dickens
è il creatore di infinite vivacissime figurette (famoso il dipinto
di Buss “Dickens' Dream” che lo mostra dormiente circondato dai
suoi personaggi). I suoi illustratori, come Buss e Cruikshank,
contribuirono alla definizione di queste figurette non già
inventando ma per così dire intuendo e sviluppando quell'elemento
grafico che (gran dote dell'autore) è già contenuto nella pagina
scritta. Un film da Dickens non sarebbe degno di menzione se
trascurasse quel suo scatenato gusto
visuale; e Newell ci riesce, punteggiando il film di visi memorabili
(aiutato da un ottimo lavoro scenografico e costumistico).
Invece piuttosto
discutibile, perché troppo evidente, è il modo di rendere i
flashback, attraverso una deformazione dell'immagine. Colpisce,
questo, in un'epoca in cui il linguaggio cinematografico preferisce
semmai limitare fino ad annullarle le marche di riconoscimento del flashback. Allora
tanto valeva ritornare al vecchio sistema del b/n o del seppia -
oppure, vien da dire per questo film, sarebbe stata adeguata una
tinta rossastra.
Il
problema maggiore del film è la difficoltà nel rendere l'intricato
romanzo dickensiano: lo svolgimento si lascia seguire ma nella
seconda parte il film si trasforma a volte in una sorta di
illustrazione riassuntiva. Le motivazioni dei personaggi, come
Estella e Miss Havisham, sono più chiare nel testo che nel film.
Eppure, anche in questa volontà illustrativa che sembra ribellarsi
all'idea di tagliare c'è del merito. Penso alla scena in cui Pip va
a casa di Wemmick e fa la conoscenza del suo vecchio padre sordo, che
si diverte col figlio a sparare ogni giorno un colpo di cannone. E'
un episodietto che non aggiunge nulla allo svolgimento del film e si
sarebbe potuto tranquillamente togliere. Eppure ha un'aria
dickensiana che incanta; e allora è un bene che sia stato mantenuto
(con in più il particolare fresco dei bambini che si radunano per
sentire la cannonata). Così, in conclusione, questo “Grandi
speranze” è un bel contributo al bicentenario del grande inglese.
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