David Yates
Le carte sono in tavola, scorre il sangue, il tempo delle ambiguità è finito: Voldemort ha preso il potere e ogni mago deve fare la sua scelta. “Adesso cambierà tutto, non è così?”, aveva detto Hermione alla fine di “Harry Potter e il Calice di Fuoco”: come a volte accade nel flusso della Storia, per i protagonisti della saga di J.K. Rowling si congiungono il momento della fine dell'adolescenza e quello in cui il mondo che conoscono è rovesciato dalle fondamenta. E' per questo che il tragico “Harry Potter e i Doni della Morte – Parte I” di David Yates si apre con una sequenza straziante e sottilmente barocca: Hermione lancia l'incantesimo della perdita della memoria sui suoi genitori babbani, che per il loro bene devono dimenticare di avere una figlia, e l'immagine di lei scompare dalle loro foto incorniciate. Contestualmente gli zii di Harry abbandonano Privet Drive (fa male il film a eliminare, per ovvie ragioni di tempo, uno degli episodi più toccanti del romanzo, l'addio di Dudley). Questo inizio bellissimo e disperato pone il tono del film: non grandi scene da disaster movie (come l'attacco al Millennium Bridge in “Harry Potter e il Principe Mezzosangue”) ma un cataclisma dell'anima.
Tutto questo è nei colori della fotografia di Eduardo Serra, colori grigi, tristi, che dipingono un mondo gelato anche quando Harry e Hermione si ritrovano in salvo dopo la fuga dalla casa-trappola di Bathilda Bagshot; solo alla fine, sulla sabbia, dopo un'altra fuga fortunosa, pur nel dolore della morte di un amico la luce sarà più calda.
Lo humour della trasformazione collettiva in Harry mediante la Pozione Polisucco, all'inizio del film, non fa che sottolineare per contrasto la cupezza dell'atmosfera; idem per la solennità della partenza, seguita immediatamente dalla battaglia nel cielo. C'è una sorta di stanchezza profonda nel film, non nel senso di una debolezza narrativa ma di una malinconia da fine del mondo; negli scontri, che sono una brutale materia di sopravvivenza, manca l'esaltazione epica. Si può prevedere che questa ritornerà nel grande finale della Parte II, quando l'amata Hogwarts diventerà campo di battaglia fra le fiamme (si potrebbe ipotizzare un'influenza su J.K. Rowling del concetto di Götterdämmerung delle saghe germaniche e di Wagner: Hogwarts come il Walhalla). Ma in questa prima parte non v'è altro che dubbio, tristezza e disperazione. Hogwarts non compare neppure (e proprio a causa di questa mancanza – sia a livello di messa in scena che simbolico – ci accorgiamo meno del gap di età fra i personaggi e gli attori). Il film si svolge prevalentemente in giro (in fuga) per un'Inghilterra vuota e deserta come in un film di zombi.
Sembra incredibile che un tempo la saga cinematografica di Harry Potter sia stata un caldo film per bambini dove l'orrore e il pericolo esistevano ma dove, dopo averli sconfitti, si ritornava nell'accogliente alveo familiare della Grande Sala di Hogwarts a cogliere gli allori e rimpinzarsi di cibo. All'inizio de “I Doni della Morte”, quando il serpente Nagini si scaglia avanti a inghiottire un cadavere, si avventa a fauci aperte contro la macchina da presa. E' un segno: una dichiarazione che non si faranno sconti agli spettatori sul piano del racconto nero. La pagina in cui Harry segue dentro la sua casa la muta, vacillante Bathilda Bagshot è puro horror film: la morta vivente, il ronzare delle mosche (classico segno cinematografico del massacro avvenuto), la scoperta shocking degli schizzi di sangue secco sulle pareti.
Alcuni problemi di resa visiva delle pagine del romanzo sono risolti con estrema acutezza nel film di Yates. Nella scena della tentazione di Ron, quando l'Horcrux gli parla per far leva sul suo senso d'inferiorità nei confronti di Harry e sulla sua gelosia (anche sessuale) riguardo a Hermione, compare una visione allucinatoria di Harry e Hermione come ceree creature perfette e inumane rifatte al computer: ecco che la CGI diviene forma conscia della narrazione, non più semplice fonte di effetti speciali (e nota l'audacia di mostrarli nudi che si baciano). O vedi la superba e delirante sequenza della lettura della fiaba dei Doni della Morte, resa visivamente attraverso figure grafiche irreali, quasi in silhouette, di cui si notano gli arti scheletrici: siamo a mezza strada fra Lotte Reiniger e Tim Burton.
Come nel romanzo, il dominio dei Mangiamorte, che s'impadroniscono del Ministero della Magia e iniziano una campagna di eliminazione dei maghi di sangue babbano, si configura come un parallelo fantasy del nazismo. Il film sotto quest'aspetto è impressionante grazie alla proprietà del cinema di mostrare i visi. Spieghiamoci: i maghi e le streghe che vediamo entrare al Ministero “nazificato” non hanno un aspetto diverso dai film precedenti, e infatti sono gli stessi: per paura o per conformismo sono divenuti collaborazionisti (è la banalità del male di cui ci ha parlato Hannah Arendt). Detto per inciso, e in particolare riguardo a Mrs. Umbridge, più che mai si rimpiange qui che il pacifismo di J.K. Rowling abbia impedito ai suoi eroi positivi di usare la maledizione letale, “Avada Kedavra”; ed è il solito problema della liceità dei mezzi che sorge ogni volta che il bene si confronta contro il male assoluto.
Le carte sono in tavola e ognuno deve fare la sua scelta. Si avvicina la ciclopica battaglia che concluderà il ciclo, e in questo rogo si consumerà - per poi rinascere mostrandoci un mondo purificato - la grande saga.
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