Marc Abraham
La fotografia del “nostro” Dante Spinotti, friulano trapiantato a Hollywood, è il motivo principale per vedere il mediocre “Flash of Genius”, l’incontro di un produttore all’esordio come regista, Marc Abraham, con uno sceneggiatore al suo terzo lavoro, Philip Railsback. Se il regista è poco ispirato, è comunque colpa della cattiva sceneggiatura se il film appare fiacco e narrativamente macchinoso, incapace di costruire e poi rilasciare la tensione drammatica.
Sorretto da un’eccellente interpretazione di Greg Kinnear (che concentra nel volto tormento, stanchezza e determinazione assoluta, gli occhi neri e lucidi come bottoni), “Flash of Genius” è la storia - autentica - di Robert Kearns, l’inventore del tergicristallo a intermittenza. Brevetta la sua invenzione e la propone alla Ford; questa lo illude giusto il tempo di copiargli il brevetto, e poi lo taglia fuori. Ma ha scelto l’uomo sbagliato da fregare: a costo di rovinare tutta la sua vita, Kearns perseguita la Ford per dodici anni, superando ostacolo su ostacolo riesce a portarla in tribunale e alla fine ottiene la condanna della compagnia e un risarcimento milionario.
Si riconosce subito il modello di racconto alla base del film: Davide e Golia, il piccolo uomo contro il sistema prepotente e anonimo delle grandi corporation: un ruolo - nel cinema classico - per James Stewart o Gary Cooper. Più James Stewart, però, perché rispetto a Cooper possedeva qualcosa in più che ce lo fa idealmente ritrovare in Kearn: la capacità di rendere l’ossessione.
Perché è indubbiamente ossessivo questo personaggio tragico e ammirevole da “fiat justitia, pereat mundus”, capace di rifiutare 30 milioni di dollari di risarcimento extragiudiziale perché in tal modo la Ford eviterebbe l’ammissione di averlo truffato; che per la sua guerra giudiziaria sacrifica la vita familiare, si separa dalla moglie e dai sei figli, ma non deflette. All’inizio del film, Kearns rischia di ammazzare l’intera famiglia spegnendo a intermittenza i tergicristalli in mezzo al traffico sotto una pioggia violenta perché si sta chiedendo come potrebbero essere migliorati. Il film non è capace di lavorarci sopra, ma in questo episodio c’è la chiave del personaggio e dell’intero racconto. Sta qui il dramma psicologico sotteso alla sua ostinazione, dramma che in “Flash of Genius” è enunciato a parole ma non riesce a fiammeggiare sullo schermo. Ciò anche a causa del carattere irrimediabilmente stereotipato di tutti i personaggi secondari, a partire da moglie e figli per arrivare all’inviato della Ford che offre il compromesso extragiudiziale, e sembra uno di quei killer dei film di mafia che vogliono violentare la donna prima di ammazzarla. Il film è inoltre danneggiato dalla narrazione a singhiozzo che va in overdose di didascalie come “tre mesi dopo”, “quattro anni dopo” (chi scrive ne ha contate sei). Come Dio vuole, si arriva al processo; e a questo punto il film migliora decisamente trasformandosi in un “courtroom drama”, diviene agile, sciolto, a tratti perfino incisivo.
Il film deve molto alla magnifica fotografia di Dante Spinotti, che nei dialoghi serrati scolpisce i primissimi piani come statue rinascimentali. In un film in cui la pioggia gioca un ruolo così importante, l’immagine di Spinotti è nitida, pulita, “lavata”, negli spazi aperti (la gita in campagna verso l’inizio, o lo sguardo al canale industriale nella luce del mattino), oppure drammatica nel rendere il tempestare della pioggia torrenziale - come in una delle poche scene altamente emotive del film, quando nel diluvio il protagonista vede apparire le grandi Ford di nuovo modello e si accorge che montano i “suoi” tergicristalli. Tuttavia in ultima analisi "Flash of Genius" fa rimpiangere non solo il Francis Ford Coppola di "Tucker" e "The Rainmaker", che sono i riferimenti più prossimi, ma anche i vecchi film di Jimmy Stewart contro il mondo che sono il suo modello lontano.
(Il Nuovo FVG)
sabato 29 agosto 2009
martedì 25 agosto 2009
Exiled
Johnnie To
Il dettaglio di una mano che bussa alla porta apre “Exiled” di Johnnie To: è il destino che bussa. Ma questo è il grande tema di tutta l’opera del maestro hongkonghese: il destino come inevitabile determinazione dell’esistenza, da cui consegue per i suoi eroi la necessità di viverlo dignitosamente (così nel dramma gangsteristico come nel mélo: Andy Lau alla fine di “Yesterday Once More”). Due volte degli uomini dal viso duro vengono a cercare Wo (Nick Cheung), che ha lasciato la gang e si è rifugiato a Macao con moglie e figlio neonato per sfuggire al suo ex boss che lo vuole morto; due volte la moglie (Josie Ho) dice tremando che non c’è.
In tutto il suo cinema Johnnie To ama molto i giochi della simmetria e del raddoppiamento. In “Exiled” la situazione di partenza è pura geometria: due parti in causa alla ricerca di Wo, una per ucciderlo e una per proteggerlo, con due capi (Anthony Wong e Francis Ng) e due sidekicks (Lam Suet e Roy Cheung). La riflette anche la disposizione fisica delle figure. Sul piano simbolico, il film altresì intesse sottilmente un rapporto speculare fra le due figure di donna che vi compaiono, la moglie-madre Josie Ho e la prostituta Ellen Chan. La tenda verde che durante una sparatoria oscilla davanti alla moglie di Wo che prega (disegnando il fragile spazio del sentimento in mezzo alla fatalità balistica) viene rispecchiata dalla tenda verde dietro cui la prostituta si riveste nella clinica clandestina; ed è evidente il parallelismo nella conclusione, quando le due donne sono gli unici personaggi ad allontanarsi, salve, con l’oro.
Quando all’inizio Josie Ho gli chiede di risparmiare il marito, Anthony Wong risponde duramente che non ha scelta. Questo vale per tutti i personaggi: nessuno ha scelta, tutti sono costretti da una serie di obbligazioni - un destino. E’ magnifico come il film esprima questo concetto attraverso l’organizzazione dello spazio: in “Exiled” la costruzione spaziale riflette il racconto, come in Hitchcock o in Welles o in Ophuls. Il surcadrage ossessivo rompe l’inquadratura in partizioni che la frazionano: quindi i personaggi sono visivamente imprigionati in un pattern opprimente di linee, una serie di gabbie visuali - che siano materiali, come la porta in cui compare Josie Ho, o virtuali, come le linee angolate della casa di fronte, contro cui si stagliano i visitatori.
Questo spazio oppressivo si allarga “chirurgicamente” durante le sparatorie: vedi lo scontro a fuoco nella clinica clandestina, quando i teli di plastica che dividono la scena cadono giù volteggiando fra gli spari. La precisione balistica di queste sparatorie, dove le esplosioni nebulose di sangue sono come lampi di luce, il loro connettersi logicamente con la scenografia (la porta che rotea forata dai proiettili in casa di Wo!) richiama i momenti più alti di Anthony Mann. Johnnie To mostra in “Exiled” una vera passione per l’inquadratura dall’alto a piombo (legandola nel finale alla più stupefacente invenzione balistica del film, la lattina che vola verso l’alto – verso la mdp – durante la sparatoria nell’albergo). La plongée a novanta gradi trasmette un senso di oggettività, distanziando la mdp dai personaggi e privandola di empatia: non per cinismo, ma perché la dimensione epica emerge asciuttamente dai puri fatti.
L’ambientazione a Macao alla vigilia del passaggio alla Cina è anche l’occasione per un accenno politico/satirico (pure i gangster hongkonghesi progettano l’handover della malavita di Macao) che ricorda il micidiale coraggio satirico di “Election 2”. Johnnie To - insieme a Fruit Chan naturalmente - è il regista hongkonghese che ha trattato le implicazioni dell’handover nel modo più convincente e radicale. Ma fondamentalmente “Exiled” è un’alta riflessione sui temi dell’onore e dell’amicizia. Perché i cinque personaggi sono amici d’infanzia, ex compagni di banda e di combattimento (grande il timido saluto di Lam Suet alla parte avversa). Così - in un magico cambio di atmosfera - dal primo scontro a fuoco passano ad aiutare il trasloco, mangiano insieme, stabiliscono una tregua di un giorno impegnandosi ad aiutare Wo in un colpo che possa provvedere dei soldi per la sua famiglia. In una pagina straziante lui dà un bicchiere di whisky alla moglie e lei ne beve molto di più con muta desolazione. Poi porta delle coperte ai quattro e loro si addormentano in salotto (Johnnie To è grande nella fotografia del buio come solo Eastwood), non senza lasciare dei turni di guardia per la sorveglianza reciproca.
E’ quella concezione di onore nella fraternità che i cinesi chiamano yi - e che inevitabilmente li espone alla stessa condanna che pesa sull’amico. Il centro morale del film è dunque quello basilare del dramma gangsteristico hongkonghese e giapponese: il contrasto fra gli obblighi dei sentimenti e la fedeltà alla propria missione e al proprio capo. Epico nella geometria degli scontri, elegiaco nell’evocazione del passato affidata a pochi accenni indiretti e una foto ingiallita, “Exiled” riprende e porta al calor bianco di purezza le figure e le tematiche del cinema di To, segnatamente il sentimento elegiaco-eroico di “A Hero Never Dies” e il concetto di amicizia virile di “The Mission”. Anche per questo non c’entra col film - neppure sul piano stilistico - Sergio Leone, che pure è stato evocato. Piuttosto un riferimento occidentale può essere Sam Peckinpah. Il suono malinconico dell’armonica di Richie Jen quando i quattro partono dal molo (suono che passa da diegetico ad extradiegetico accompagnandoli all’albergo della resa dei conti) ha la stessa risonanza romantica e fatale del tranquillo “Let’s go” de “Il Mucchio Selvaggio”.
Sorretto da un complesso di magnifiche interpretazioni, il film trasmette ai personaggi un’abbagliante realtà umana. Non dimenticheremo mai la disperazione muta di Josie Ho, la gelida rabbia trattenuta di Anthony Wong, il delizioso accenno di buffoneria di Lam Suet (sublime la sua lunga tirata da fool shakespeariano: “Quanto è una tonnellata di sogni?”). Nei film di Johnnie To si ride molto, perché come nella vita il dramma ama interlinearsi con elementi di commedia - vedi ad esempio l’opportunismo del poliziotto che si tiene fuori dai guai aspettando mezzanotte, quando andrà in pensione (l’eccellente caratterista comico Hui Siu Hung).
Epopea di incroci e incontri inaspettati, “Exiled” è intessuto di elementi ritornanti (il bussare alla porta, la necessità di spingere l’auto in panne, la monetina, la domanda di Francis Ng “Verso dove?”, le foto ricordo) e tutti rimandano alla storia passata e all’ineluttabilità del presente. Più volte nel film i personaggi tirano la monetina, ed essa non fa che dirigerli secondo la strada prefissata dal gioco beffardo del destino - ovvero l’inevitabile sviluppo del plot. Non si sfugge al destino; quando Anthony Wong butta la moneta in acqua è il segno finale di accettazione. Di lì in poi è un’andata verso la morte - che loro celebrano bevendo: poiché è ricorrente nel cinema di To la considerazione dell’assoluta libertà di chi sa che deve morire, ed essa si esprime qui nell’allegria scombinata e infantile dei quattro subito prima dello showdown.
Alla fine la loro ultima fotografia si lega in montaggio con la prima, quella ingiallita di quando erano ragazzi. Tutti loro, non solo Wo, erano exiled, perché percorrendo i labirinti della vita tutti ci esiliamo dal passato, dalle amicizie e dagli amori, dalla felicità giovanile. Nella conclusione sanguinosa - la pace dopo il massacro - tutte le lontananze vengono sanate.
Il dettaglio di una mano che bussa alla porta apre “Exiled” di Johnnie To: è il destino che bussa. Ma questo è il grande tema di tutta l’opera del maestro hongkonghese: il destino come inevitabile determinazione dell’esistenza, da cui consegue per i suoi eroi la necessità di viverlo dignitosamente (così nel dramma gangsteristico come nel mélo: Andy Lau alla fine di “Yesterday Once More”). Due volte degli uomini dal viso duro vengono a cercare Wo (Nick Cheung), che ha lasciato la gang e si è rifugiato a Macao con moglie e figlio neonato per sfuggire al suo ex boss che lo vuole morto; due volte la moglie (Josie Ho) dice tremando che non c’è.
In tutto il suo cinema Johnnie To ama molto i giochi della simmetria e del raddoppiamento. In “Exiled” la situazione di partenza è pura geometria: due parti in causa alla ricerca di Wo, una per ucciderlo e una per proteggerlo, con due capi (Anthony Wong e Francis Ng) e due sidekicks (Lam Suet e Roy Cheung). La riflette anche la disposizione fisica delle figure. Sul piano simbolico, il film altresì intesse sottilmente un rapporto speculare fra le due figure di donna che vi compaiono, la moglie-madre Josie Ho e la prostituta Ellen Chan. La tenda verde che durante una sparatoria oscilla davanti alla moglie di Wo che prega (disegnando il fragile spazio del sentimento in mezzo alla fatalità balistica) viene rispecchiata dalla tenda verde dietro cui la prostituta si riveste nella clinica clandestina; ed è evidente il parallelismo nella conclusione, quando le due donne sono gli unici personaggi ad allontanarsi, salve, con l’oro.
Quando all’inizio Josie Ho gli chiede di risparmiare il marito, Anthony Wong risponde duramente che non ha scelta. Questo vale per tutti i personaggi: nessuno ha scelta, tutti sono costretti da una serie di obbligazioni - un destino. E’ magnifico come il film esprima questo concetto attraverso l’organizzazione dello spazio: in “Exiled” la costruzione spaziale riflette il racconto, come in Hitchcock o in Welles o in Ophuls. Il surcadrage ossessivo rompe l’inquadratura in partizioni che la frazionano: quindi i personaggi sono visivamente imprigionati in un pattern opprimente di linee, una serie di gabbie visuali - che siano materiali, come la porta in cui compare Josie Ho, o virtuali, come le linee angolate della casa di fronte, contro cui si stagliano i visitatori.
Questo spazio oppressivo si allarga “chirurgicamente” durante le sparatorie: vedi lo scontro a fuoco nella clinica clandestina, quando i teli di plastica che dividono la scena cadono giù volteggiando fra gli spari. La precisione balistica di queste sparatorie, dove le esplosioni nebulose di sangue sono come lampi di luce, il loro connettersi logicamente con la scenografia (la porta che rotea forata dai proiettili in casa di Wo!) richiama i momenti più alti di Anthony Mann. Johnnie To mostra in “Exiled” una vera passione per l’inquadratura dall’alto a piombo (legandola nel finale alla più stupefacente invenzione balistica del film, la lattina che vola verso l’alto – verso la mdp – durante la sparatoria nell’albergo). La plongée a novanta gradi trasmette un senso di oggettività, distanziando la mdp dai personaggi e privandola di empatia: non per cinismo, ma perché la dimensione epica emerge asciuttamente dai puri fatti.
L’ambientazione a Macao alla vigilia del passaggio alla Cina è anche l’occasione per un accenno politico/satirico (pure i gangster hongkonghesi progettano l’handover della malavita di Macao) che ricorda il micidiale coraggio satirico di “Election 2”. Johnnie To - insieme a Fruit Chan naturalmente - è il regista hongkonghese che ha trattato le implicazioni dell’handover nel modo più convincente e radicale. Ma fondamentalmente “Exiled” è un’alta riflessione sui temi dell’onore e dell’amicizia. Perché i cinque personaggi sono amici d’infanzia, ex compagni di banda e di combattimento (grande il timido saluto di Lam Suet alla parte avversa). Così - in un magico cambio di atmosfera - dal primo scontro a fuoco passano ad aiutare il trasloco, mangiano insieme, stabiliscono una tregua di un giorno impegnandosi ad aiutare Wo in un colpo che possa provvedere dei soldi per la sua famiglia. In una pagina straziante lui dà un bicchiere di whisky alla moglie e lei ne beve molto di più con muta desolazione. Poi porta delle coperte ai quattro e loro si addormentano in salotto (Johnnie To è grande nella fotografia del buio come solo Eastwood), non senza lasciare dei turni di guardia per la sorveglianza reciproca.
E’ quella concezione di onore nella fraternità che i cinesi chiamano yi - e che inevitabilmente li espone alla stessa condanna che pesa sull’amico. Il centro morale del film è dunque quello basilare del dramma gangsteristico hongkonghese e giapponese: il contrasto fra gli obblighi dei sentimenti e la fedeltà alla propria missione e al proprio capo. Epico nella geometria degli scontri, elegiaco nell’evocazione del passato affidata a pochi accenni indiretti e una foto ingiallita, “Exiled” riprende e porta al calor bianco di purezza le figure e le tematiche del cinema di To, segnatamente il sentimento elegiaco-eroico di “A Hero Never Dies” e il concetto di amicizia virile di “The Mission”. Anche per questo non c’entra col film - neppure sul piano stilistico - Sergio Leone, che pure è stato evocato. Piuttosto un riferimento occidentale può essere Sam Peckinpah. Il suono malinconico dell’armonica di Richie Jen quando i quattro partono dal molo (suono che passa da diegetico ad extradiegetico accompagnandoli all’albergo della resa dei conti) ha la stessa risonanza romantica e fatale del tranquillo “Let’s go” de “Il Mucchio Selvaggio”.
Sorretto da un complesso di magnifiche interpretazioni, il film trasmette ai personaggi un’abbagliante realtà umana. Non dimenticheremo mai la disperazione muta di Josie Ho, la gelida rabbia trattenuta di Anthony Wong, il delizioso accenno di buffoneria di Lam Suet (sublime la sua lunga tirata da fool shakespeariano: “Quanto è una tonnellata di sogni?”). Nei film di Johnnie To si ride molto, perché come nella vita il dramma ama interlinearsi con elementi di commedia - vedi ad esempio l’opportunismo del poliziotto che si tiene fuori dai guai aspettando mezzanotte, quando andrà in pensione (l’eccellente caratterista comico Hui Siu Hung).
Epopea di incroci e incontri inaspettati, “Exiled” è intessuto di elementi ritornanti (il bussare alla porta, la necessità di spingere l’auto in panne, la monetina, la domanda di Francis Ng “Verso dove?”, le foto ricordo) e tutti rimandano alla storia passata e all’ineluttabilità del presente. Più volte nel film i personaggi tirano la monetina, ed essa non fa che dirigerli secondo la strada prefissata dal gioco beffardo del destino - ovvero l’inevitabile sviluppo del plot. Non si sfugge al destino; quando Anthony Wong butta la moneta in acqua è il segno finale di accettazione. Di lì in poi è un’andata verso la morte - che loro celebrano bevendo: poiché è ricorrente nel cinema di To la considerazione dell’assoluta libertà di chi sa che deve morire, ed essa si esprime qui nell’allegria scombinata e infantile dei quattro subito prima dello showdown.
Alla fine la loro ultima fotografia si lega in montaggio con la prima, quella ingiallita di quando erano ragazzi. Tutti loro, non solo Wo, erano exiled, perché percorrendo i labirinti della vita tutti ci esiliamo dal passato, dalle amicizie e dagli amori, dalla felicità giovanile. Nella conclusione sanguinosa - la pace dopo il massacro - tutte le lontananze vengono sanate.
lunedì 10 agosto 2009
Adam Resurrected
Paul Schrader
Bisogna ringraziare il Premio Amidei di Gorizia che, nell’ambito di una molto opportuna celebrazione del regista e sceneggiatore Paul Schrader, ha dato occasione di vedere il suo ultimo film, “Adam Resurrected”, che chissà se neppure uscirà in Italia. Occasione tanto più fortunata in quanto “Adam Resurrected” è una sorta di summa del cinema di Schrader. Certo, molto appartiene al romanzo di Yoram Kaniuk (in italiano, “Adamo risorto”, Einaudi), sceneggiato da Noah Stollman (però anche Schrader ha contribuito alla sceneggiatura, uncredited); tuttavia, è un film eminentemente schraderiano, e come tale assume la forma della parabola.
Giace alla base del film, lo informa e lo struttura, il concetto di rispecchiamento. Ossessionata serie di duplicazioni, “Adam Resurrected” è una vertigine di specchi che riflettono altri specchi, come un labirinto sognato da Escher; ma la sua (schraderiana) tensione segreta verso l’alto - che solo a poco a poco si rivela nel film - ha qualcosa della cattedrale gotica. Come ha scritto Giona A. Nazzaro in uno splendido saggio, “il gioco delle messinscene, degli schermi e degli inganni, del rovesciamento dei ruoli e della teoria degli spettacoli, prospettano la possibilità che Adam Resurrected sia l’ipertesto stesso del cinema schraderiano”.
Nelle parole di Schrader, è “la storia di un uomo che una volta era un cane che incontra un cane che una volta era un ragazzo”. Nella Germania di Weimar l’ebreo Adam Stein (Jeff Goldblum) è un famoso clown di cabaret e imitatore, compresa l’imitazione di animali. Dopo l’avvento del nazismo, viene internato nel campo di sterminio con la famiglia; qui il comandante Klein (Willem Dafoe), psicopatico filosofo del male, lo costringe a trasformarsi in cane comportandosi in tutto e per tutto come una copia del suo cane lupo Rex. Questa è la duplicazione originaria; la crudele scena del primo incontro la sottolinea con un’inquadratura a piombo quando Adam imita il cane con una mimesi corporale così perfetta che Rex lo accetta come un suo simile (naturalmente è anche il passato teatrale di Adam che si rispecchia nel presente, quello rivelandosi come anticipazione, questo come terribile inveramento: il teatro ha un grande spazio in “Adam Resurrected”).
Il mite cane Rex diventa il gemello di Adam; non per nulla Klein sottolinea questo rispecchiamento quando, celebrando per sarcasmo la festa di Purim (la festa ebraica della liberazione e della gioia, in cui ci si mette in maschera), costringe Adam a truccare Rex da deportato ebreo, con la divisa a strisce e l’aria triste. Inoltre, dopo aver visto la sua famiglia portata al forno crematorio Adam ulula chiuso in una grande gabbia avendo Rex per solo compagno. In contrastante aggiunta alla trasformazione in cane, Klein costringe Adam a suonare il violino per accompagnare i detenuti alla morte - compresi i suoi familiari, per proteggere i quali lui aveva accettato il suo ruolo canino.
Sopravvissuto al Lager, e dopo il suicidio di una figlia sopravvissuta originato dalla scoperta della sua passata trasformazione in cane, negli anni sessanta Adam vive in Israele. Entra ed esce da un Istituto psichiatrico per sopravissuti dei campi situato nel deserto del Negev (nota che l’architettura razionalista dell’Istituto ricorda la praticità tutta linee e angoli retti del campo di sterminio; lo segnala in particolare un raccordo che congiunge la grande gabbia all’aperto, sopra menzionata, con le linee fredde e squadrate dell’Istituto).
Di quest’Istituto Adam è l’enfant terribile, aggiungendo al suo umore anarchico il potere di far passare il suo corpo attraverso una serie di disastri fisici psicosomatici - come dire, di morti e resurrezioni. Come per molti personaggi di Schrader, il peso del passato lo soverchia e lo schiaccia; si porta dentro la trasformazione in cane, fino a rimetterla in atto come gioco sessuale sadomasochistico con l’amante infermiera Gina Grey, che fa abbaiare a quattro zampe. Adam è il classico “uomo chiuso in una stanza” del cinema schraderiano, chiuso nell’impotenza finché non incontra l’elemento scatenante di una crisi che lo distrugga o lo guarisca dolorosamente - in una parola, il martirio.
Ciò avviene quando all’Istituto incontra un ragazzo che dopo un passato di abusi è regredito allo stato di cane (la sua maschera di stoffa bianca con due buchi per occhi ricorda un altro uomo-bestia, l’“Elephant Man” di David Lynch). Guarire il ragazzo dalla condizione canina è per Adam il modo per guarire se stesso. Ecco il secondo rispecchiamento: inizialmente i due si riconoscono reciprocamente in quanto cani (Schrader è fin troppo ellittico su questo ma è evidentemente lo stesso rapporto mimetico di Adam con Rex); però, in quanto si rispecchiano come tali, la salvezza dell’uno è la salvezza dell’altro. “Quel bambino è mio,” dice Adam a Gina, “siamo due cani nel deserto”. Adam si introduce di prepotenza nella caninità di David - lo porta anche al guinzaglio - per fargliela superare (c’è nel rapporto con questo enfant sauvage la stessa esigenza crudele del film di Truffaut); fino a quando può annunciargli: “Tu non sei un cane”. David si alza faticosamente in piedi e cammina.
Nella grande costruzione architettonica di “Adam Resurrected”, ogni passo, ogni figura, ogni movimento si sviluppa in un rapporto di doppio, attiva il riconoscimento di correspondances. Il film va letto secondo un’interpretazione multipla per la quale non sarebbe fuor di luogo ricordare la quadruplice interpretazione di Dante; non nel senso che Kaniuk, Stollman e Schrader abbiano operato secondo i criteri danteschi ma che - proprio come in Dante non v’è contraddizione fra la concretezza della figura letterale e le sue stratificazioni allegoriche, morali e anagogiche - in questo film tra l’elemento immediato e il suo raddoppiamento sul piano del simbolo e dell’allegoria v’è compresenza operante e attiva.
Adam non è solo il nome del primo uomo: in ebraico vale anche “umanità” in genere. Ora, presentandoci l’Istituto quando vi viene portato, la voce narrante di Adam ci dice una cosa importantissima: “my house in the desert”. Il deserto: il luogo dello smarrimento e della ricerca, dell’aridità e della pena, che dev’essere attraversato per salvarsi. Qui Adam si sdoppia come figura dell’intero popolo di Israele, biblicamente perduto nel deserto. Conviene ricordare che un tema presente in tutto il cinema di Schrader è lo scontro fra il padre e il figlio. Questa scissione si concretizza nel senso di colpa di Adam, padre che non ha potuto difendere la sua famiglia dalla distruzione; anche Adam in quanto padre deve “traversare il deserto” del passato e della colpa: un impegno che i protagonisti schraderiani conoscono assai bene. Però a un livello superiore di figurazione, in questo film (con la stessa perentorietà de “L’ultima tentazione di Cristo”, diretto da Scorsese ma scritto da Schrader) il padre è il Padre: uno dei temi base del film essendo quello dell’accusa a Dio - uno dei ricoverati getta un pugno di terra in cielo, contro “il Tiranno”, e progetta di morire per chiedergli di giustificarsi. Il che ci ricorda semplicemente che la Shoah è oggi il contesto in cui deve situarsi e cui deve rispondere qualsiasi ipotesi di teodicea.
Un’altra proiezione allegorica si ha quando, elaborando il concetto di cane sapiente, Adam introduce un collegamento tra il ragazzo David, il cane Rex (re) e Re Davide d’Israele. Adam concretizza il suo corto circuito verbale e concettuale quando presenta ai ricoverati lo spettacolo di “David, King of Dogs” nel “Circo di Adam”; nota che anche il suo antico spettacolo berlinese si chiamava Adam Zirkus - non per nulla lui ripete la presentazione identica anche in tedesco: “David, König der Hunde”. L’esibizione posta sotto gli occhi del pubblico è l’anello di congiunzione tra il cane sapiente e il lento recupero dell’umanità: David impara a battere a macchina su una portatile Olivetti (il suo testo - omaggio all’amante di Adam - con la stessa ostinazione di Jack Torrance in “Shining” sarà la continua ripetizione delle parole “GINA GREYS CLASSY ASS”).
Questa sequenza della "rappresentazione" ci porta all’elemento del teatro, un’altra delle idee forti su cui si organizza il film (ma in generale il cinema di Schrader), e che viene anche verbalizzata in una grande pagina di conferenza di Adam sul teatro e l’artificio. Il film riflette sullo spettacolo, la riproduzione, la messa in scena, l’imitazione, il mascheramento: vedi anche la sequenza della festa di Purim all’Istituto, con Adam truccato da clown di palcoscenico e i ricoverati in maschera, in una pagina di grottesco di gusto molto europeo (sia in Bergman che in Fellini paradossalmente il truccarsi non è un modo di coprirsi il volto/anima ma di metterlo a nudo). “Adam Resurrected” con la sua fuga prospettica di raddoppiamenti è una specie di parafrasi totale di qualsiasi messa in scena. I flashback sull’ascesa del nazismo la sintetizzano dal punto di vista di Adam come se fosse un controcampo del palcoscenico. L’istrionismo di Adam come enfant terribile dell’Istituto è anche il rispecchiamento del suo istrionismo di entertainer prima della deportazione, e al di là di questo tutta la trasformazione in cane nel campo di sterminio è nero capolavoro di spettacolo, messa in scena, impersonazione. Infatti, nella parti del campo di sterminio, la vera messa in scena dell’orrore assoluto del nazismo non sta tanto nelle scene “istituzionali” del campo (anche se nessuno ha il diritto di dimenticare la panoramica ascendente sul camino col fumo del forno crematorio) quanto nel Kammerspiel di Jeff Goldblum e Willem Dafoe nell’alloggio di quest’ultimo.
Nella pagina culminante del film, Adam esce nel deserto gridando a Dio di mostrarsi; e vede il Roveto Ardente. Ma dalle fiamme esce l’allucinazione di Klein (l’ironia per cui il Male assoluto si rivela nella forma assunta biblicamente dal Dio d’Israele non è che un’altra illustrazione simbolica del problema della teodicea, che sta alla base non solo di questo ma di qualsiasi film sull’Olocausto). Klein cerca di indurre Adam a uccidersi - merita notare come Willem Dafoe abbia spesso in Schrader il ruolo del tentatore, da “Affliction” ad “Autofocus”. Adam dunque è andato nel deserto ad incontrare la propria parte oscura. Ma supera la tentazione del suicidio - ed ecco David uscire camminando nel deserto e parlargli.
In seguito la voce narrante di Adam dice che David è andato a vivere con un parente che pare una brava persona. E lui stesso? “Sono diventato un uomo qualunque”. Imprevedibilmente qui entra un grande monologo poetico e scandaloso - preso direttamente da Kaniuk - sul fatto che, ora ch’è guarito, Adam vive nella tranquillità della pianura ma non conosce più né i baratri né le vertiginose altezze della follia.
La forma base del racconto in Schrader è il percorso di crocifissione e redenzione. Un percorso bressoniano (ricordiamo l’amore di Schrader per “Pickpocket”) dove la redenzione è autosacrificio: Adam nel guarire l’altro guarisce se stesso e ciò però lo libera dalla velenosa esaltazione romantica della follia. Per questo non è più interessante per l’infermiera Gina Grey che, ci racconta, lo lascia immediatamente appena guarito. Nel suo discorso finale si coglie un elemento di rimpianto. “Un uomo qualunque” vuol dire il contrario di quella figura mercuriale che abbiamo visto nella Germania pre-nazista del film; talché il film si chiude su una nota di tristezza; il tempo non scorre all’indietro, la perdita di tutto non può essere risarcita.
Si sa che il film dei film per Paul Schrader è “Sentieri selvaggi” (dice di rivederlo una volta al mese). Inutile ricordare che ne ha fatto una parafrasi moderna in “Hardcore”. C’è la tentazione vedere un’analogia fra Adam in “Adam Resurrected" ed Ethan Edwards in “Sentieri selvaggi”. Come Ethan, Adam ha attraversato il deserto per riportare a casa un figlio perduto - ma come per Ethan la conclusione del film non vede il protagonista restare nella famiglia bensì allontanarsene, certo coi suoi fantasmi pacificati, ma comunque solo.
Bisogna ringraziare il Premio Amidei di Gorizia che, nell’ambito di una molto opportuna celebrazione del regista e sceneggiatore Paul Schrader, ha dato occasione di vedere il suo ultimo film, “Adam Resurrected”, che chissà se neppure uscirà in Italia. Occasione tanto più fortunata in quanto “Adam Resurrected” è una sorta di summa del cinema di Schrader. Certo, molto appartiene al romanzo di Yoram Kaniuk (in italiano, “Adamo risorto”, Einaudi), sceneggiato da Noah Stollman (però anche Schrader ha contribuito alla sceneggiatura, uncredited); tuttavia, è un film eminentemente schraderiano, e come tale assume la forma della parabola.
Giace alla base del film, lo informa e lo struttura, il concetto di rispecchiamento. Ossessionata serie di duplicazioni, “Adam Resurrected” è una vertigine di specchi che riflettono altri specchi, come un labirinto sognato da Escher; ma la sua (schraderiana) tensione segreta verso l’alto - che solo a poco a poco si rivela nel film - ha qualcosa della cattedrale gotica. Come ha scritto Giona A. Nazzaro in uno splendido saggio, “il gioco delle messinscene, degli schermi e degli inganni, del rovesciamento dei ruoli e della teoria degli spettacoli, prospettano la possibilità che Adam Resurrected sia l’ipertesto stesso del cinema schraderiano”.
Nelle parole di Schrader, è “la storia di un uomo che una volta era un cane che incontra un cane che una volta era un ragazzo”. Nella Germania di Weimar l’ebreo Adam Stein (Jeff Goldblum) è un famoso clown di cabaret e imitatore, compresa l’imitazione di animali. Dopo l’avvento del nazismo, viene internato nel campo di sterminio con la famiglia; qui il comandante Klein (Willem Dafoe), psicopatico filosofo del male, lo costringe a trasformarsi in cane comportandosi in tutto e per tutto come una copia del suo cane lupo Rex. Questa è la duplicazione originaria; la crudele scena del primo incontro la sottolinea con un’inquadratura a piombo quando Adam imita il cane con una mimesi corporale così perfetta che Rex lo accetta come un suo simile (naturalmente è anche il passato teatrale di Adam che si rispecchia nel presente, quello rivelandosi come anticipazione, questo come terribile inveramento: il teatro ha un grande spazio in “Adam Resurrected”).
Il mite cane Rex diventa il gemello di Adam; non per nulla Klein sottolinea questo rispecchiamento quando, celebrando per sarcasmo la festa di Purim (la festa ebraica della liberazione e della gioia, in cui ci si mette in maschera), costringe Adam a truccare Rex da deportato ebreo, con la divisa a strisce e l’aria triste. Inoltre, dopo aver visto la sua famiglia portata al forno crematorio Adam ulula chiuso in una grande gabbia avendo Rex per solo compagno. In contrastante aggiunta alla trasformazione in cane, Klein costringe Adam a suonare il violino per accompagnare i detenuti alla morte - compresi i suoi familiari, per proteggere i quali lui aveva accettato il suo ruolo canino.
Sopravvissuto al Lager, e dopo il suicidio di una figlia sopravvissuta originato dalla scoperta della sua passata trasformazione in cane, negli anni sessanta Adam vive in Israele. Entra ed esce da un Istituto psichiatrico per sopravissuti dei campi situato nel deserto del Negev (nota che l’architettura razionalista dell’Istituto ricorda la praticità tutta linee e angoli retti del campo di sterminio; lo segnala in particolare un raccordo che congiunge la grande gabbia all’aperto, sopra menzionata, con le linee fredde e squadrate dell’Istituto).
Di quest’Istituto Adam è l’enfant terribile, aggiungendo al suo umore anarchico il potere di far passare il suo corpo attraverso una serie di disastri fisici psicosomatici - come dire, di morti e resurrezioni. Come per molti personaggi di Schrader, il peso del passato lo soverchia e lo schiaccia; si porta dentro la trasformazione in cane, fino a rimetterla in atto come gioco sessuale sadomasochistico con l’amante infermiera Gina Grey, che fa abbaiare a quattro zampe. Adam è il classico “uomo chiuso in una stanza” del cinema schraderiano, chiuso nell’impotenza finché non incontra l’elemento scatenante di una crisi che lo distrugga o lo guarisca dolorosamente - in una parola, il martirio.
Ciò avviene quando all’Istituto incontra un ragazzo che dopo un passato di abusi è regredito allo stato di cane (la sua maschera di stoffa bianca con due buchi per occhi ricorda un altro uomo-bestia, l’“Elephant Man” di David Lynch). Guarire il ragazzo dalla condizione canina è per Adam il modo per guarire se stesso. Ecco il secondo rispecchiamento: inizialmente i due si riconoscono reciprocamente in quanto cani (Schrader è fin troppo ellittico su questo ma è evidentemente lo stesso rapporto mimetico di Adam con Rex); però, in quanto si rispecchiano come tali, la salvezza dell’uno è la salvezza dell’altro. “Quel bambino è mio,” dice Adam a Gina, “siamo due cani nel deserto”. Adam si introduce di prepotenza nella caninità di David - lo porta anche al guinzaglio - per fargliela superare (c’è nel rapporto con questo enfant sauvage la stessa esigenza crudele del film di Truffaut); fino a quando può annunciargli: “Tu non sei un cane”. David si alza faticosamente in piedi e cammina.
Nella grande costruzione architettonica di “Adam Resurrected”, ogni passo, ogni figura, ogni movimento si sviluppa in un rapporto di doppio, attiva il riconoscimento di correspondances. Il film va letto secondo un’interpretazione multipla per la quale non sarebbe fuor di luogo ricordare la quadruplice interpretazione di Dante; non nel senso che Kaniuk, Stollman e Schrader abbiano operato secondo i criteri danteschi ma che - proprio come in Dante non v’è contraddizione fra la concretezza della figura letterale e le sue stratificazioni allegoriche, morali e anagogiche - in questo film tra l’elemento immediato e il suo raddoppiamento sul piano del simbolo e dell’allegoria v’è compresenza operante e attiva.
Adam non è solo il nome del primo uomo: in ebraico vale anche “umanità” in genere. Ora, presentandoci l’Istituto quando vi viene portato, la voce narrante di Adam ci dice una cosa importantissima: “my house in the desert”. Il deserto: il luogo dello smarrimento e della ricerca, dell’aridità e della pena, che dev’essere attraversato per salvarsi. Qui Adam si sdoppia come figura dell’intero popolo di Israele, biblicamente perduto nel deserto. Conviene ricordare che un tema presente in tutto il cinema di Schrader è lo scontro fra il padre e il figlio. Questa scissione si concretizza nel senso di colpa di Adam, padre che non ha potuto difendere la sua famiglia dalla distruzione; anche Adam in quanto padre deve “traversare il deserto” del passato e della colpa: un impegno che i protagonisti schraderiani conoscono assai bene. Però a un livello superiore di figurazione, in questo film (con la stessa perentorietà de “L’ultima tentazione di Cristo”, diretto da Scorsese ma scritto da Schrader) il padre è il Padre: uno dei temi base del film essendo quello dell’accusa a Dio - uno dei ricoverati getta un pugno di terra in cielo, contro “il Tiranno”, e progetta di morire per chiedergli di giustificarsi. Il che ci ricorda semplicemente che la Shoah è oggi il contesto in cui deve situarsi e cui deve rispondere qualsiasi ipotesi di teodicea.
Un’altra proiezione allegorica si ha quando, elaborando il concetto di cane sapiente, Adam introduce un collegamento tra il ragazzo David, il cane Rex (re) e Re Davide d’Israele. Adam concretizza il suo corto circuito verbale e concettuale quando presenta ai ricoverati lo spettacolo di “David, King of Dogs” nel “Circo di Adam”; nota che anche il suo antico spettacolo berlinese si chiamava Adam Zirkus - non per nulla lui ripete la presentazione identica anche in tedesco: “David, König der Hunde”. L’esibizione posta sotto gli occhi del pubblico è l’anello di congiunzione tra il cane sapiente e il lento recupero dell’umanità: David impara a battere a macchina su una portatile Olivetti (il suo testo - omaggio all’amante di Adam - con la stessa ostinazione di Jack Torrance in “Shining” sarà la continua ripetizione delle parole “GINA GREYS CLASSY ASS”).
Questa sequenza della "rappresentazione" ci porta all’elemento del teatro, un’altra delle idee forti su cui si organizza il film (ma in generale il cinema di Schrader), e che viene anche verbalizzata in una grande pagina di conferenza di Adam sul teatro e l’artificio. Il film riflette sullo spettacolo, la riproduzione, la messa in scena, l’imitazione, il mascheramento: vedi anche la sequenza della festa di Purim all’Istituto, con Adam truccato da clown di palcoscenico e i ricoverati in maschera, in una pagina di grottesco di gusto molto europeo (sia in Bergman che in Fellini paradossalmente il truccarsi non è un modo di coprirsi il volto/anima ma di metterlo a nudo). “Adam Resurrected” con la sua fuga prospettica di raddoppiamenti è una specie di parafrasi totale di qualsiasi messa in scena. I flashback sull’ascesa del nazismo la sintetizzano dal punto di vista di Adam come se fosse un controcampo del palcoscenico. L’istrionismo di Adam come enfant terribile dell’Istituto è anche il rispecchiamento del suo istrionismo di entertainer prima della deportazione, e al di là di questo tutta la trasformazione in cane nel campo di sterminio è nero capolavoro di spettacolo, messa in scena, impersonazione. Infatti, nella parti del campo di sterminio, la vera messa in scena dell’orrore assoluto del nazismo non sta tanto nelle scene “istituzionali” del campo (anche se nessuno ha il diritto di dimenticare la panoramica ascendente sul camino col fumo del forno crematorio) quanto nel Kammerspiel di Jeff Goldblum e Willem Dafoe nell’alloggio di quest’ultimo.
Nella pagina culminante del film, Adam esce nel deserto gridando a Dio di mostrarsi; e vede il Roveto Ardente. Ma dalle fiamme esce l’allucinazione di Klein (l’ironia per cui il Male assoluto si rivela nella forma assunta biblicamente dal Dio d’Israele non è che un’altra illustrazione simbolica del problema della teodicea, che sta alla base non solo di questo ma di qualsiasi film sull’Olocausto). Klein cerca di indurre Adam a uccidersi - merita notare come Willem Dafoe abbia spesso in Schrader il ruolo del tentatore, da “Affliction” ad “Autofocus”. Adam dunque è andato nel deserto ad incontrare la propria parte oscura. Ma supera la tentazione del suicidio - ed ecco David uscire camminando nel deserto e parlargli.
In seguito la voce narrante di Adam dice che David è andato a vivere con un parente che pare una brava persona. E lui stesso? “Sono diventato un uomo qualunque”. Imprevedibilmente qui entra un grande monologo poetico e scandaloso - preso direttamente da Kaniuk - sul fatto che, ora ch’è guarito, Adam vive nella tranquillità della pianura ma non conosce più né i baratri né le vertiginose altezze della follia.
La forma base del racconto in Schrader è il percorso di crocifissione e redenzione. Un percorso bressoniano (ricordiamo l’amore di Schrader per “Pickpocket”) dove la redenzione è autosacrificio: Adam nel guarire l’altro guarisce se stesso e ciò però lo libera dalla velenosa esaltazione romantica della follia. Per questo non è più interessante per l’infermiera Gina Grey che, ci racconta, lo lascia immediatamente appena guarito. Nel suo discorso finale si coglie un elemento di rimpianto. “Un uomo qualunque” vuol dire il contrario di quella figura mercuriale che abbiamo visto nella Germania pre-nazista del film; talché il film si chiude su una nota di tristezza; il tempo non scorre all’indietro, la perdita di tutto non può essere risarcita.
Si sa che il film dei film per Paul Schrader è “Sentieri selvaggi” (dice di rivederlo una volta al mese). Inutile ricordare che ne ha fatto una parafrasi moderna in “Hardcore”. C’è la tentazione vedere un’analogia fra Adam in “Adam Resurrected" ed Ethan Edwards in “Sentieri selvaggi”. Come Ethan, Adam ha attraversato il deserto per riportare a casa un figlio perduto - ma come per Ethan la conclusione del film non vede il protagonista restare nella famiglia bensì allontanarsene, certo coi suoi fantasmi pacificati, ma comunque solo.
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