sabato 12 gennaio 2008

Troy

Wolfgang Petersen

Il problema dell’Iliade di Wolfgang Petersen è l’accelerazione. Diavolo, in Omero i Greci ci mettono dieci anni per arrivare al dunque; in “Troy” Achille sbarca sulle spiagge di Troia la mattina, i suoi Mirmidoni catturano Briseide più o meno a mezzogiorno, Agamennone gliela porta via la sera stessa, il giorno dopo abbiamo la battaglia con Achille in sciopero e i Greci vengono travolti (Menelao e Aiace ci hanno già lasciato le penne)... L’iperconcentrazione degli avvenimenti è la cifra di “Troy”. L’ellissi di 12 giorni concessi in tregua da Achille per i funerali di Ettore equivarrà al periodo più lungo del film?

Tuttavia, benché sia divertente annotarlo, questo è legittimo. Lo sceneggiatore David Benioff non è Omero né pretende esserlo; sgombriamo subito il campo dalle lamentele dei grecisti sui tradimenti di un film dove alla fine muore perfino Agamennone. Rilievi che si potrebbero applicare a qualsiasi peplum; “Troy” del resto nei titoli si dichiara non tratto dall’Iliade ma ispirato ad essa (inoltre, credo che il copyright dell’Iliade sia scaduto). Posto che lo spettacolo funzioni, e “Troy” funziona abbastanza, a che serve piangere sopra le differenze rispetto al corpus mitologico? Idem per l’eliminazione dell’elemento omosessuale fra Achille e Patroclo, in una pellicola dove Achille è Brad Pitt - non per nulla, con gran gioia delle spettatrici ricorre più nudità sua che di chiunque altro nel film. Naturalmente niente impediva a “Troy” di mantenere una certa ambiguità omosex senza sbandierarla “apertis verbis”; ma, anche se ce ne fosse stata l’intenzione, il film non ha bastante sottigliezza per questo.

Allo stesso modo non stupisce l’eliminazione degli dei: “Troy” si basa su un laicismo assoluto, talché a un certo punto l’ironia di Ettore (Eric Bana) arriva a parafrasare Stalin: «Di quanti battaglioni può disporre il Dio Sole?». Il film si presta solo due volte a compiacere agli obblighi mitici del racconto: una è elegante, nel senso che la freccia che colpisce Achille al tallone resta compatibile con l’impostazione materialistica complessiva; l’altra nient’affatto, quando vediamo - nella sua unica scena, in riva al mare - la madre di Achille Teti (Julie Christie) sciacquattare coi piedi a mollo, misero residuo del fatto che si tratterebbe di una dea marina.

In ogni modo, “Troy” è spettacolo piacevole. Se Peter O’Toole nel ruolo di Priamo eclissa (nessuna sorpresa) tutti gli altri interpreti, l’Achille di Brad Pitt incarna bene la “vis” guerriera e quella tensione verso l’immortalità che è il respiro del film, e appartiene un po’ a tutti i personaggi (a tal proposito i dialoghi saccheggiano “Il gladiatore”: «Staremo di nuovo insieme, in questo mondo o nell’altro»). Sean Bean disegna un bell’Ulisse umano e machiavellico insieme. Agamennone (Brian Cox) è un “villain” spudorato, gran bersaglio per le frecciate contro i re - gustosamente anacronistiche per l’epoca micenea - ricorrenti nel film. Paride (Orlando Bloom) è un convincente combinaguai, ed Elena (Diane Kruger) è una vera bellezza sexy simil-raffinata, alla Bo Derek. Solo Briseide (Rose Byrne) è un’autentica rottura, una pacifista rompiscatole e piagnucolosa che Achille avrebbe fatto bene a rimandare ad Agamennone espresso.

Tuttavia “Troy” non ha grande consistenza sul piano dei sentimenti, e solo Peter O’Toole riesce realmente a evocare una dimensione tragica. La forza del film sta invece nella sua dimensione gigantesca e collettiva. Qui la

regia di Petersen è giustamente roboante; vedi il bellissimo movimento di macchina che solennizza l’introduzione del Cavallo di Troia nella città, o il memorabile allargamento di visuale che partendo da una nave ci rivela il mare azzurro costellato all’infinito dalle navi dell’invasione. Bellezza delle mura, delle folle, delle battaglie. La computer graphics si adatta molto bene all’epica, col suo potere di magnificare numeri e dimensioni. Che grazie a lei sia arrivata alfine l’occasione di un ritorno del peplum?

(Il Nuovo FVG)

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