Alfonso Cuaròn
Creato dalla regia, lo spazio filmico materializza sullo schermo uno spazio architettonico, sia esso reale, ri/costruito, modellino. È importante perché, se il racconto s’iscrive in uno spazio, certo questo spazio non è neutro. La prima cosa da guardare in “Harry Potter e il prigioniero di Azkaban” (il più cupo e forse il migliore dei tre “Harry Potter” usciti finora; la regia passa da Chris Columbus ad Alfonso Cuarón) è proprio lo spazio architettonico principe, la scuola di magia di Hogwarts: cambiata al punto di rischiare una lieve tensione nella continuità.
Nei primi due film la connotazione di Hogwarts è una calda vastità. Si pone sotto il segno di una grandezza “bene abitabile”; la sua sontuosa antichità ha un che di accogliente. Dentro e fuori dal castello l’asse è orizzontale, o facilmente praticabile. Tutto in perfetta sintonia coi primi romanzi di J.K. Rowling: Harry Potter inizialmente incarna lo stereotipo letterario dell’orfano perseguitato che trova fuori dalla propria casa inospitale un’imprevista casa sostitutiva.
Ma in “Harry Potter e il prigioniero di Azkaban” - premesso che a livello delle marche sentimentali Hogwarts resta la Vera Casa - salta all’occhio una differenza di sguardo. All’esterno l’asse da orizzontale è diventato obliquo: tutte ripide discese campestri. Contestualmente la vastità si è come ristretta. Colline aguzze, boschi di pini, tutto un universo nuvoloso sembrano stringere d’assedio queste torri irreali. Anche i cortili trasmettono una sensazione di più stretto. E di antico, ma un antico freddo e distante - “polanskiano” - come certi oggetti: quel diaproiettore antidiluviano usato dal professor Piton nella lezione sui lupi mannari! I colori della fotografia sono più cupi. Sembra che non possa esistere (anche se è implicato, si capisce, nell’universo diegetico) il vasto cortile assolato dove Harry imparava a volare nel primo film. Ora Hogwarts fa pensare ai castelli vampireschi degli horror Hammer, segnatamente alla malinconica villa-castello in rovina di “The Gorgon” (“Lo sguardo che uccide”, 1963) di Terence Fisher.
Non dimentichiamo che i romanzi di J.K. Rowling sono un grande ciclo-Bildungsroman, o romanzo di formazione, in cui Harry Potter cresce come un adolescente inquieto e angosciato. C’è sempre un delizioso umorismo; ma di episodio in episodio si accentua sempre di più una nota nera (il quinto volume è quasi feroce). A livello visuale, questo film porta retrospettivamente l’ombra esistenziale sviluppata negli ultimi romanzi già nel terzo episodio (un vantaggio secondario della scelta è che bene si accorda ai visi degli interpreti, visibilmente cresciuti e un po’ più vecchi dei 13 anni dichiarati nel film). Può essere interessante che all’inizio del film l’esplosione di rabbia di Harry che gonfia l’orrida zia, avvenga senza uso della bacchetta magica, più simile a un fenomeno di Poltergeist adolescenziale.
Cuarón e gli altri realizzatori rileggono il mix di avventura e humour del romanzo originale in senso noir, con sottolineature horror piuttosto marcate: non solamente la bellissima resa dei Dissennatori ma la grande pagina della trasformazione del professor Lupin in lupo mannaro, che è una sequenza - benché spostata appena un filo sul piano grafico/cartoon – di licantropia cinematografica autentica (ed è quasi priva dell’elemento comedy – il terrore di Ron - che bilanciava il clou horror del film precedente coi ragni giganti).
Argomento affascinante dell’ultima parte del film - l’invenzione della Rowling è bene resa sullo schermo - è il ritorno indietro nel tempo, col paradosso di Harry e Hermione che si nascondono da loro stessi, come nel secondo episodio di “Ritorno al futuro”. Molto bello come la soluzione di apertura e chiusura della sequenza (la macchina da presa “passa attraverso” un gigantesco meccanismo a orologio sulla facciata del castello) alluda simbolicamente al segmento narrativo che delimita. Basta questo a dare un’idea della serietà del lavoro di Cuarón.
(Il Nuovo FVG)
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