Lars Von Trier
Partiamo, com’è giusto, dalla forma; e consideriamo la macchina da presa a mano, oscillante e reale, dai movimenti veloci, umani, vitali (com’è facile rinunciare alla fluidità meccanica, quando ne vale la pena!). La pellicola sgranata, dai colori spenti, in dialogo con la bellezza nervosa dell’inquadratura; la netta potenza di quei visi, che si apre se non erro solo due volte in laceranti sguardi in macchina – sguardi a noi – che trapassano lo schermo/barriera. La risonanza dei paesaggi con elaborazione digitale che fanno da “copertine” ai capitoli del film.
Molto lega Lars Von Trier a Dreyer: vedi l’accecante naturalezza. Von Trier coglie l’oggetto nei piccoli gesti, ma non è un realista: è un idealista nel senso di Platone e di Hegel. Lampeggia nelle inquadrature un’evidenza che non è la perfezione mimetica del realismo ma un barbaglio del Vero nel visibile: come Rossellini, Dreyer, Bresson, Godard, Lars Von Trier va oltre la mimesi. Per questa via Von Trier ritrova la capacità del cinema (ontologica, direbbe Bazin) di materializzare il miracoloso in un lampo del reale: come l’apparizione della lepre che consola Bess in lacrime dopo l’episodio dell’autobus.
“Breaking the Waves” (il titolo italiano non c’entra nulla col film) è scandito in 7 capitoli e un epilogo (forse val la pena di ricordare che 7 è un numero importante nella liturgia, e 14 sono le stazioni della Via Crucis). Anni Settanta; un paese sull’aspra costa del mare (l’elemento dell’acqua ha sempre importanza nel cinema simbolico e metafisico di Lars Von Trier). Bess (Emily Watson, sublime), il cui marito è rimasto paralizzato in un incidente e peggiora, si prostituisce agli sconosciuti vestita da battona, piangendo, in una sorta di sacrificio, uno scambio, offerto a Dio per salvare la vita di Jan. Nelle parole di Dio stesso è paragonata a Maria Maddalena. Perché Bess parla con Dio, che le risponde attraverso la sua bocca, come in uno sdoppiamento della sua personalità disturbata. Dialoghi potenti e terribili. E’ un Dio esigente, cupo, severo (“Tu sai che io do e tolgo a mio piacimento”), persino vendicativo: il Dio “geloso” della Bibbia. La bocca di Bess quando è Dio che parla diventa dura, quasi irosa.
Il tema del sacrificio attraversa il film, coincidendo con quello dell’amore. Amore e sacrificio di cui sono incapaci i bigotti della tetra chiesa puritana del paese, così (spiritualmente) povera da non avere neppure le campane (com’è bello quell’improvviso “sguardo in su” della macchina da presa a mano che ci rivela la cella campanaria vuota). Bess è figura del sacrificio, come Cristo; e il suo “Padre, perché non sei qui con me”, mentre si avvia alla nave-Calvario nel capitolo intitolato appunto “Il sacrificio di Bess”, riflette il “Padre, perché mi hai abbandonato” evangelico. Ma in questo momento Dio risponde: la chiama, brusco, “esserino sciocco”, ma si coglie nel suo dire una severa tenerezza materna. Sarebbe interessante paragonare i “caratteri” della madre di Bess e di Dio quando si esprime in bocca alla ragazza. Perché tutto il film è una rete di allusioni, rimandi, “correspondances”.
L’amore – passando attraverso i tormenti del dubbio (morendo: “Ho paura di aver sbagliato tutto”) e del martirio – porta Bess, schizofrenica e ninfomane per il mondo, alla santità. E’ questa che oscuramente riconoscono i pochi che vedono: ma solo dopo la morte e dopo l’ambiguità del miracolo (direbbe ancora Bazin: “Santi lo si è solo dopo”). Nel mare che circonda tutto, verso cui scorre il fiume della “copertina” dell’epilogo, e sul quale alla fine risuoneranno le campane, viene sepolto il cadavere trafugato di Bess. Intanto – “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti” – gli aridi che si credono la vera chiesa seppelliscono con maledizioni una bara colma di sabbia.
(Il Friuli)
sabato 12 gennaio 2008
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