sabato 12 gennaio 2008

Alexander

Oliver Stone

Troppo divertente vedere, nei titoli di “Alexander” di Oliver Stone, Warner Bros. scritto in caratteri greci! Idem, leggere in seguito su una mappa a mosaico “Middle Sea”, e “Tax System” su un papiro di Alessandro. Ma quest’ultima è una tradizione (ridicola) del cinema peplum: e “Alexander” è un peplum a pieno diritto. Non della forma semi/fantasy (“Il gladiatore”) oppure revisionista (“Troy”) oggi di moda; “Alexander” è un buon solido peplum vecchia maniera, da situare nella tradizione del peplum razionalizzante alla Cecil B. De Mille: che volgarizzava il testo storico o biblico traducendolo in forme ultra-accessibili al grande pubblico, ma senza l’intenzione in partenza di stravolgerlo.
Così “Alexander” (legittimamente) razionalizza la figura di Alessandro Magno: gli toglie largamente il côté barbarico, lo trasforma in una sorta di tormentato utopista. Il suo “daimon” si traduce in un concetto base della cultura americana: Alessandro è “l’uomo che ha un sogno”; ed è un classico tocco di tragicità americana la visualizzazione dell’inanità e fallimento del sogno nella cavalcata in ralenti di Alessandro contro l’elefante da guerra – che per il suo elemento di “sospensione” mi ricorda l’incubico inseguimento della “tacianka” da parte di John Reed/Warren Beatty in “Reds”.
Siccome non si dà buon peplum senza la sensualona supersexy e crudele, è giusto che appaia la stupenda Angelina Jolie, una delle cose migliori del film col suo ritratto di Olimpiade, madre di Alessandro, come incrocio di strega maniaca dei serpenti e di dark lady coronata (subito dopo l’assassinio del re Filippo, superbo il suo sguardo da gatto che ha rubato la panna!). A questo ruolo ai limiti del grottesco la brava Jolie riesce perfino a prestare un tocco di veridicità.
Sospetto che questo discorso non piacerebbe molto a Oliver Stone, il quale si figura semmai di aver girato un “peplum di pensiero” alla “Spartacus”. Oliver Stone si crede un regista intenso e raffinato, mentre invece è un naïf – ma proprio in questo essere naïf trova, “malgré soi”, la sua forza. Stone è al suo meglio quand’è vitalista, barbarico, gasato; è al suo peggio quando riflette e teorizza. In “Alexander” c’è molto dello Stone migliore; si può considerare il suo miglior film, con “Ogni maledetta domenica”, e a parte il caso anomalo di “Talk Radio”.
C’è una vivacità del sentimento: “Alexander” è una forte storia d’amore omosessuale (aspetto questo che nel film non è affatto celato, com’è parso ad alcuni commentatori orbi). C’è una sensualità, che dà corpo alla violenta scena erotica con Rossane. C’è una potenza di concezione: l’ingresso a Babilonia (che sembra rendere omaggio a Griffith), l’angosciosa spedizione “fantascientifica” in un’India “oltremondo”, le due scene di battaglia. Nella prima, Stone costruisce con eleganza l’immagine sulle lunghe aste delle sarisse macedoni (l’ispirazione viene dalle lance dei soldati russi nell’“Alexander Nevskij” di Ejzenstejn); peccato che il regista abbia voluto aggiungere il tocco pesantemente retorico di un’aquila che volteggia sopra l’esercito come in “Napoléon” di Abel Gance. La seconda battaglia, in India, col suo frazionamento allucinato e col suo delirio cromatico (i viraggi in rosso ora dell’intera immagine ora dello sfondo di fronde, dopo la ferita di Alessandro) è forse la pagina più memorabile del film.
Sarebbe stato un grande film se Stone non avesse avuto paura (quanto diverso dal suo protagonista!) di seguire la propria natura. Invece vi ha inserito brutti stacchi di montaggio troppo netti (quasi vergognosi, come un volersi trattenere) a chiudere le scene più esaltate. Vi lo ha appesantito con una presenza troppo forte della voce narrante del vecchio Tolomeo (il quale scrisse veramente le sue memorie, non pervenuteci). C’è un’ellissi orribile, con la morte di Filippo raccontata dalla voce narrante, in pieno contrasto con qualsiasi regola drammaturgica (questa scelta stridente è solo parzialmente sanata più in là nel film, quando la parte saltata ricompare come flashback). Tuttavia, il bicchiere è più pieno che vuoto.

(Il Nuovo FVG)

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