sabato 26 gennaio 2008

La promessa dell'assassino

David Cronenberg

“Not for the squeamish”. Nello splendido “La promessa dell’assassino” di David Cronenberg, che inizia con una gola segata dal rasoio di un killer e poi stacca sull’incongruità dei piedi nudi di una ragazza interamente vestita che sta per morire di emorragia, l’evidenza crudele delle immagini (marchio di fabbrica peraltro di tutto il cinema di Cronenberg) è fondamentale; la loro crudezza è l’involucro necessario della cupezza di questa storia - ma diremo meglio, di questo universo.
In una Londra piovosa, sul finire dell’anno, una sconosciuta adolescente russa drogata partorisce, prima di morire, una bambina nelle mani dell’ostetrica Anna (Naomi Watts). Cercando l’identità della morta per evitare alla piccola l’orfanotrofio, Anna si trova coinvolta con la terribile mafia russa di Londra. Al cui interno si gioca il gioco del potere fra i tatuati “soldati” e “capitani” del clan diretto dal feroce patriarca Semion (Armin Mueller-Stahl), tra il suo debole figlio Kiril (Vincent Cassel) e il suo guardaspalle in ascesa, Kolja (Viggo Mortensen). Per Anna la difesa della neonata è una sorta di riparazione: l’ombra di un suo precedente aborto, mai enunciato visivamente, pesa su tutto il film - è per questo che all’inizio c’è tanta enfasi visiva sulla neonata insanguinata. Ma anche perché, nel mondo dipinto da Cronenberg, sceneggiato da Steve Knight, è giusto ricordarci che nasciamo nel sangue.
“Questo non è il nostro mondo, – fa sua madre ammonendo Anna di non impicciarsi – noi siamo gente comune”. Cronenberg ci dà il vero film (altro che il modesto Denys Arcand!) sulla caduta della civiltà occidentale: descrive il nuovo medioevo in cui fra la vita degli umili e quella dei potenti la mediazione rassicurante del diritto comune non esiste più (l’affermazione di Kolja “Gli schiavi mettono al mondo schiavi” è tutt’altro che metaforica). Ma il film va oltre l’assunto politico. Cronenberg, questo disegnatore di “universi mutanti”, mette in evidenza nel film tre “bolle di universo” (la famiglia di Anna – il clan della mafia russa – il doppio gioco e le infiltrazione del FSB, ex KGB) di cui ciascuna ingloba e determina a sua insaputa quella inferiore, ed è a sua volta determinata dalla superiore: una gerarchia di livelli di esistenza che non può non ricordarci la sua trascrizione in termini fantastici, attinenti ai videogiochi, in “eXistenZ” (1999).
David Cronenberg, lo sappiamo, è il cineasta delle mutazioni del corpi, il profeta della “nuova carne”. Questo tema ne “La promessa dell’assassino” sembra nascosto, e invece è evidente – lo dichiarano anche i titoli di coda, che presentano dettagli ingranditi dei tatuaggi sulla pelle del mafioso russo. Perché “nelle prigioni russe la storia della tua vita è scritta sul tuo corpo: con i tatuaggi – se non hai i tatuaggi non esisti”. Come in “Crash” (1997) il corpo si modificava in un “corpo altro” con gli innesti ortopedici, così qui la scrittura imposta su di esso determina la sua realtà, la sua identità, la sua concretezza. E’ inutile rendere anonimo, nel modo macabro che vediamo nel film, un cadavere – perché sarà il suo corpo stesso a parlare. Ecco l’ultima incarnazione cronenberghiana della “nuova carne”.
Proprio per questo la cerimonia del tatuaggio in cui Kolja ottiene le “stelle” di capo è intrisa d’un nero misticismo. Ed ha senso che questa scena si leghi immediatamente a quella, già celebre, dello scontro nei bagni pubblici fra Viggo Mortensen completamente nudo e due killer in giacca di cuoio: dove la carne, l’acciaio e il cuoio volteggiano in una danza mortale degli elementi.
Delle “stelle” si parla sempre nel film con un rispetto mistico (“Dì alla sezione russa che hai visto stelle sopra il mio cuore. Digli che ho oltrepassato soglia”). Il tatuaggio non è un trofeo, o un mero simbolo di grado; è una “soglia”, è la concretizzazione di una mutazione; appartiene alla stessa classe delle escrescenze, degli innesti metallici, dei peli ispidi di mosca, delle fessure per videocassetta che spuntano nei corpi cronenberghiani.

(Il Nuovo FVG)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

caro giorgio, non è il post(o) giusto, ma - in mancanza di un indirizzo elettronico - segnalo a te come ai tuoi 2525 affezionati lettori un film che compete con il magnifico Cronenberg per rappresentazione dell'oggi, del today USA: no country for the old man, dei cohen, è potente come un classico, e acuminato come un rasoio. qui a Parìs, mentre un pubblico poco meno massificato del nostro tradisce con risate fuori posto la neritudine rappresentata, ho maltrattenuto la commozione per i personaggi, tutti da tragedia greca made in texas. un finale da maestri lascia però un silenzio in sala dal quale perfino boulevard saintmarchais non riuscì a strapparmi. E l'angelo della Bastiglia, indifferente, guarda i detriti che WB predisse, vedendoli...

giorgioplac ha detto...

Caro Valerio, finalmente ho avuto modo di vedere (i distributori italiani si sono presi il loro "sweet time") il film dei fratelli Coen, ed è verissimo, l'hai definito perfettamente - quello poi che mi lascia basito è come le visioni del mondo (e dello stile) dei Coen e di Cormac McCarthy, necessariamente differenti, abbiamo potuto assimilarsi a tal punto in quest'opera potente e misteriosa, che in teoria ha tutto per essere una mise en scène del romanzo, un'onesta traduzione in immagini, mantenendo del romanzo non solo il plot ma i monologhi e i dialoghi; e invece assimila il romanzo e lo trascina nel proprio mondo e nella (propria) cinematografia coeniana... E' vero, cosa unifica Cronenberg e i Coen (ma anche il dimenarsi senza scopo del mostro informe in computer graphics di "Cloverfield" eccetera) se non la percezione che assistiamo alla fine dell'Occidente? (come in quegli incubi in cui ti si avvicina il disastro ma non riesci a muoverti)