venerdì 28 novembre 2025

Il generale dell'armata morta

Luciano Tovoli

Luciano Tovoli è un grande direttore della fotografia, da Suspiria a Titus per fare solo due nomi, e regista di un solo film del 1983, poco visto, Il generale dell’armata morta (liberamente tratto da Ismail Kadaré). Bisogna ringraziare il Visionario e la Mediateca “Mario Quargnolo” per averci dato l’occasione, lunedì 24, di apprezzare su grande schermo questo eccellente film, presentato dall’autore.
Magnificamente fotografato – da Tovoli stesso – e montato (basta vedere lo splendido inizio nel cimitero), il film si basa su una bella sceneggiatura di Luciano Tovoli e Michel Piccoli con la supervisione di Jean-Claude Carrière. Un generale (Mastroianni) e un colonnello cappellano militare (Piccoli), entrambi innamorati di una contessa vedova (Anouk Aimée), girano per un’Albania spettrale con il compito di recuperare le ossa dei caduti italiani – e in particolare quelle del colonnello Di Brienni, marito della contessa, la cui tomba in Italia è vuota.
La ricerca dei due militari – comprendente l’incontro con un buffonesco generale tedesco (Gérard Klein) – finisce per diventare negli atteggiamenti un “doppio parodico” della guerra stessa. Il delirio militar-alcoolico del generale (che durante la guerra era alla scrivania) e l’ambiguità tormentata del cappellano, mentre i due si spiano, proiettano il film in una dimensione grottesca. Bellissima la fluidità con cui dal quadro narrativo drammatico di partenza il film si trasforma via via in una sorta di commedia nera “inverando” in tal senso quelli che nella prima parte sembravano eccessi di caratterizzazione (come il linguaggio letterario della contessa).
A un certo punto, nella parte iniziale, una frase della contessa contiene una citazione nascosta della Lenore di Bürger (la ballata romantica sul soldato morto che esce dalla tomba per rapire la fidanzata), e questo concetto si proietta su tutto il film: la necessità che l’amato marito morto venga ritrovato e definitivamente sepolto. Ma credo si possa dire che vale anche al di là del singolo personaggio, con i corpi scheletriti dei soldati morti, identificati dalle piastrine, che metaforicamente sembrano tendersi ad afferrare un Paese che d’abitudine dimentica (o traveste) il passato per non affrontarlo.
Il generale dell’armata morta doveva essere girato in Albania ma il governo italiano fece pressione su quello albanese per impedirlo. Tovoli non si arrese e lo girò negli Abruzzi; è una sua piccola gustosa vendetta l’aver inserito nel testo, quasi un inner joke, un richiamo a L’Armata Sagapò, cioè il più famoso caso di intervento repressivo nella storia del cinema italiano. Tuttavia il film non ebbe una distribuzione accettabile in Italia (mentre in Francia sì). Il libro Una storia scomoda di Antonio Caiazza, presente alla proiezione assieme a Luciano Tovoli, parla di questa storia.

sabato 22 novembre 2025

The Smashing Machine

Benny Safdie

Gli amanti del cinema sportivo apprezzeranno il film biografico sul lottatore di arti marziali miste Mark Kerr (interpretato da Dwayne Johnson, “The Rock”), il discreto The Smashing Machine di Benny Safdie, già presentato con successo all’ultima Mostra di Venezia. Il film si concentra su alcuni anni cruciali di Kerr (che nel finale 2025 appare in persona, dopo il ritiro, e saluta gli spettatori). I durissimi scontri sul ring sono girati con la macchina a mano e in 16mm. come tutto il film, dando un’idea di verità aumentata dal posizionamento della cinepresa non direttamente sul ring ma fuori dalle corde. 
Con la storia (autentica) di Mark Kerr, The Smashing Machine segue i tratti classici del cinema sportivo. Dapprima il successo, poi la crisi e la caduta, con abuso di pillole originato dagli analgesici, accompagnata da tensioni con la fidanzata Dawn (Emily Blunt); segue la rinascita, propiziata dall’amico campione Mark Coleman (il lottatore Ryan Bader) e dall’ex campione ora allenatore Bas Rutten (incisivo nel ruolo di se stesso); vediamo il ritorno all’allenamento nel tipico montaggio veloce celebrativo, sulle note di My Way nella versione grintosa di Elvis Presley. Il rapporto con Dawn tuttavia si aggrava disastrosamente. Poi Kerr parte per l’incontro della sua vita in Giappone...
L’aspetto notevole del film è l’insistenza sulla vulnerabilità del protagonista, che piange sovente e mostra dei tratti decisamente infantili (vedi all’inizio la scena in cui tiene il muso a Dawn, arrivata in aereo, per avere interrotto la sua concentrazione prima del combattimento). La strana contraddizione fra questa montagna di muscoli e certi suoi comportamenti da bambino da sculacciare (difficile a farsi, però...) espone un problema base dei nostri tempi: l’eclissi della virilità.

(Messaggero Veneto)



domenica 16 novembre 2025

The Running Man

Edgar Wright

Diversi anni fa, Stephen King pubblicò alcuni romanzi sotto lo pseudonimo Richard Bachman; i migliori sono La lunga marcia (The Long Walk) e L’uomo in fuga (The Running Man). Quest’ultimo è poi diventato un film, L’implacabile, con Arnold Schwarzenegger; ora torna sugli schermi come The Running Man, diretto da Edgar Wright e ben interpretato da Glen Powell, più fedele dell’altro al romanzo originale.
Siamo in un futuro distopico, nel quale la tv organizza un gioco mortale: sotto l’occhio voyeuristico delle telecamere, un concorrente per soldi deve sfuggire, per un dato periodo di tempo, a dei Cacciatori legalmente autorizzati a ucciderlo, mentre il pubblico televisivo fa il tifo per l’uno o gli altri. Come si vede, siamo solo un passo oltre rispetto alle varie Temptation Islands dell’oscenità televisiva di oggi. Va detto che il romanzo di King è largamente debitore (eufemismo!) a un paio di profetici racconti di Robert Sheckley (La settima vittima, da cui un film di Elio Petri, e Sprezzo del pericolo) risalenti addirittura agli anni Cinquanta. Sheckley era un autore satirico di tutto rispetto, finché non cadde in preda alla tentazione arty di molta fantascienza del periodo seguente.
Partecipa al gioco per povertà e disperazione il padre di famiglia, con figlioletta malata, Ben Richards (Glen Powell), spinto e incoraggiato da due figure che più odiose non si può, il produttore Dan Killian (Josh Brolin) e il presentatore Bobby Thompson (Colman Domingo). Ma che il network giochi sporco non è una sorpresa – se non per il running man. Edgar Wright, anche co-sceneggiatore, regola i conti con la televisione, non solo esponendo il modo in cui fabbrica una falsa realtà ma anche divertendosi a parodiare en passant la soap opera.
L’inglese Wright è un regista che si distingue per un approccio vivace, diretto, quasi brutale, ma con un grano di follia (Hot Fuzz, Scott Pilgrim vs. the World, The World’s End, Ultima notte a Soho) che può trasformarsi in bizzarro umorismo anarchico – anche al di là di una comedy quale L’alba dei morti dementi. Ve n’è un esempio anche nel presente film, con una casa piena di sorprese e di trappole, come in un Buster Keaton perverso. Lo stile moderno di Wright si vede bene nel modo in cui visualizza i pensieri (nella trattativa con Killian, vediamo dapprima come realtà la tentazione di Ben Richards di sfasciargli la testa sul tavolo), anche incrociandoli abilmente col racconto (il riconoscimento di un Cacciatore sotto le spoglie di un falso barbone matto).
Il film mette in scena un’America futura in confronto alla quale Blade Runner sembra Honolulu. Autore molto portato agli inseguimenti e all’azione (si pensi a Baby Driver – Il genio della fuga), Wright conduce il racconto con tutta la tensione del caso; ma l’aspetto avventuroso sul fuggitivo spietatamente inseguito non gli fa mai dimenticare una carica di protesta sociale.
Nonostante il tentativo del network di presentarlo come un farabutto, Ben Richards diventa un eroe per gli emarginati. E il film – attenzione, spoiler! – mette in scena addirittura una rivoluzione, sebbene sul piano personale il lieto fine sia chiaramente appiccicato.
Curiosità: Edgar Wright esordì in Italia a Udine, accompagnando il suo primo film, il super-indipendente A Fistful of Fingers, alla rassegna “Eurowestern" nel 1997. Da allora, ne ha fatta di strada.

giovedì 13 novembre 2025

The Mastermind

Kelly Reichardt 

Mille anni fa, Jean-Luc Godard buttava bombe narrative sotto il polar (piani di rapine e gangster in fuga) soffermandosi sui tempi intermedi mentre i momenti forti dell’azione erano o elisi o parodiati. Ce lo fa tornare in mente (in tutt’altro clima culturale, naturalmente, e non parliamo neanche di analogie di grandezza) l’interessante film di Kelly Reichardt The Mastermind. “Mastermind” è in inglese il cervello dietro un crimine; ma qui di cervello ce n’è poco. Siamo all’inizio degli anni Settanta. Un imbecille, James Mooney (Josh O’Connor), sposato con due figli, in passato (apprendiamo) studente d’arte fallito, decide di rubare in pieno giorno nel museo della cittadina quattro quadri di un maestro contemporaneo. Non sembra così difficile perché la sicurezza (con un guardiano sempre addormentato) è a livello Louvre. James arruola due balordi (uno è una sostituzione dell’ultimo momento) per fare materialmente il colpo e consegnargli le tele.
Ovviamente tutto comincia ad andare a rotoli fin dal giorno dopo – e qui entra il nostro discorso. La tragicomica sequenza del furto, che in un normale heist movie sarebbe centrale, qui è (come si direbbe in arte: siamo in argomento) risolta in una serie di schizzi. Invece più tardi, quando James deve nascondere il bottino al piano superiore di un granaio, l’operazione… togliere i quadri dalla cassa, portarli su a due a due per una scala a pioli, poi portare su la cassa, rimetterci dentro le tele, infine risolvere il problema della scala che è caduta… è seguita in un tempo reale, immediato, che fa contare ogni secondo (al cinema, si sa, il tempo reale significa un tempo dilatato). Beninteso, non è certo la prima volta che un film si concentra sul tempo reale, il tempo quotidiano, l’immediatezza assoluta e via dicendo. Ma è molto più raro che ciò accada all’interno di uno svolgimento legato al cinema di genere.
Una fenomenologia dell’immediato immediato si incrocia nella seconda parte con lo sviluppo narrativo di James in fuga, dopo che tutto il piano è collassato – mantenendo quella stupidità assolutamente irriflessiva che si potrebbe considerare un frutto maligno dell’epoca, ma che poi è andata anche peggio. Respinto da due vecchi amici, James si aggira senza sapere che fare in quella specie di deserto sociale che è la sterminata solitudine americana. Kelly Reichardt si attiene all’immediato, non ne fa una metafora politica e nemmeno un’elegia della solitudine – sebbene la dimensione politica sia indubbiamente presente (sono gli anni della guerra del Vietnam) e inneschi la feroce beffa del destino che conclude la fuga.
Josh O’Connor è assai bravo ma in particolare colpisce, fra le molte buone interpretazioni, Alana Haim nel ruolo della moglie delusa Terri, che non sapeva niente del crimine. Sotto una maschera di impassibilità ha, davanti all’incoscienza assoluta del marito, delle espressioni di furiosa e trattenuta disperazione davvero memorabili.

domenica 9 novembre 2025

Un semplice incidente

Jafar Panahi

Il grande regista iraniano Jafar Panahi fa un cinema eminentemente morale – che non significa “cinema col messaggio”, come molti credono specialmente in Italia, bensì cinema che ti mette prepotentemente di fronte a un problema morale. In Un semplice incidente – film potente, che ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes 2025 – Panahi pone un problema morale che si squaderna e si moltiplica (è una spiacevole caratteristica della morale, questa. Non ama le linee facili).
All’inizio, un uomo accigliato in auto con la figlioletta e la moglie incinta investe un cane, con disperazione della bambina. «Quello che deve succedere succede; c’è sicuramente un motivo per cui Dio lo ha messo sul nostro cammino», commenta con rassegnato fatalismo la moglie. È più vero di quanto pensino! La macchina ha un guasto; in officina il meccanico Vahid riconosce dalla voce dell’uomo, che zoppica, e dal cigolio della sua protesi, Eghbal detto “Gambalesta”, il seviziatore zoppo che ha torturato lui e altri sventurati, bendati, nelle carceri dell’infame regime iraniano. Là i torturatori violentano le ragazze perché, in base alle loro credenze primitive, se muoiono vergini vanno in paradiso, mentre loro vogliono condannarle all’inferno.
Scoperto dove abita, lo rapisce e scava una buca nel deserto per seppellirlo vivo. Ma ecco il dubbio: quell’uomo legato e bendato, che protesta disperatamente la sua innocenza, è proprio Eghbal? L’onesto Vahid non vuole ucciderlo se non è sicuro. Così raduna un gruppo di persone che sono state torturate per una sorta di grottesco consulto (non per nulla nel film viene menzionato en passant Beckett) all’interno del furgone dove giace narcotizzato il possibile torturatore. Nella suspense continua, che non sarebbe esagerato definire da thriller, c’è un momento di terribile umorismo dell’assurdo quando il furgone finisce la benzina e il gruppo deve scendere per spingere, compresa la ragazza in abito da sposa.
Il primo problema morale di Un semplice incidente è lo stesso di un film (minore) di Roman Polanski, La morte e la fanciulla: il rischio di colpire un innocente per uno scambio di persona. S’incrocia con quello, posto da alcuni degli ex torturati, della liceità etica di uccidere così. Un altro problema aggiuntivo riguarda la famiglia del colpevole. La narrazione di Panahi intreccia l’analisi dei caratteri (con magnifici attori), il dibattito morale e naturalmente l’ansietà materiale per il crimine che stanno compiendo, in questo paese dittatoriale ma, come vediamo, basato sulla corruzione – e così costruisce nel film una tensione addirittura dolorosa. Jafar Panahi qui non è metacinematografico come in altri casi (Taxi Teheran, Tre volti, Gli orsi non esistono) ma semplice e diretto come una lama nella carne.


sabato 8 novembre 2025

Dracula - L'amore perduto

Luc Besson  

È una vera doccia scozzese Dracula – L’amore perduto di Luc Besson, fra cadute imbarazzanti e aspetti riusciti (meno). Il motivo: incerto su quale direzione prendere, Besson (anche sceneggiatore) le sceglie tutte.
Già all’inizio lascia piuttosto perplessi la stupidità dei dialoghi relativi alla guerra contro i turchi, fra il pacifismo idiota di Elisabetta (“È necessaria questa guerra?”) e il discorso di Vlad al vescovo quando pretende da Dio che la guerra risparmi sua moglie – risciacquatura di piatti eccessiva anche per il XXI secolo, non diciamo neppure il XV. Ma si capisce tutto dall’armatura che i suoi uomini fanno indossare a Vlad: il film si ispira direttamente a Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola: Dracula rinnega Dio perché avergli tolto l’amata moglie Elisabetta e si strugge nei secoli cercando la sua reincarnazione, finché non la ritrova nell’Ottocento in Mina. Niente di male in questa derivazione (il film di Coppola è una pietra miliare), ma Besson vi aggiunge una strana ingenuità: un conto è rifare la storia, un conto – a mo’ di pudibonda ammissione? – copiare dei particolari e delle inquadrature di Coppola, in modo pedissequo quanto goffo (basta pensare alla scena della ribellione contro Dio o all’acconciatura con cui Dracula vecchio appare a Jonathan Harker); il che non solo è inutile ma danneggia il film.
Nella scena della battaglia contro i turchi, non si capisce perché Besson stacchi subito, visto che la descrizione degli scontri è la sua specialità (e infatti è efficace l’apparizione dei soldati sul crinale con le teste tagliate sulle lance). Muore Elisabetta, e Dracula uccide il vescovo e rifiuta Dio, con un super-coppolismo (quando alza le mani urlando a fine scena) da far pensare a un madonnaro che riproduce un quadro famoso coi gessetti. Stacco a quattrocento anni dopo, in una Parigi che si prepara a festeggiare il centenario della rivoluzione.
In questa sagra della cattiva recitazione, a partire dal protagonista, tengono su il film Christoph Waltz (non sorprende!) come prete vampirologo e la nostra Matilda De Angelis, spiritosa nel ruolo di un’allegra vampira. Quello che c’è di buono nel film di Besson è un certo gusto dell’ironia e del grottesco: vedi i gargoyle disneyani di servizio nel castello di Dracula, o la scena di Dracula nel convento con le suore possedute, a metà strada fra Ken Russell e il recente (mediocre) Dracula televisivo della BBC, o quella dell’eliminazione della donna vampiro. Nella stessa vena ironica, il dialogo contiene delle battute riuscite. Il medico sul ragazzo vampirizzato: “Stavo pensando di fargli una trasfusione” – Christoph Waltz con cortese freddezza: “Sono certo che la gradirebbe”. Quando scoprono alla fine la tomba di Dracula: “Una bara? Non ci dormirei mai” – Waltz: “Lo faremo tutti un giorno”.
Nel lungo flashback sulla vita di Dracula prima di ritrovare Elisabetta/Mina, raccontata a Jonathan Harker prigioniero, una svolta forse un po’ ingenua ma almeno originale è quella dell’invenzione del profumo, dove l’aspetto più notevole è che diventa un balletto! Peccato che, incrinando l’unità, resti un unicum nel film (e ci fa capire con improvvisa e assoluta evidenza che questo Dracula sarebbe stato più felice se fosse stato un musical).
Il finale è alquanto over-spoken – sarebbe irrispettoso ma non oltraggiosamente sbagliato dire che il prete sconfigge Dracula a forza di chiacchiere – ma almeno fornisce un’adeguata dose di romanticismo. Qui però bisogna dire chiaramente che Besson non raggiunge mai l’alto e dolente romanticismo del Dracula di Coppola.
In conclusione: ci sono stati vari Dracula (intendo quelli tratti dal romanzo) memorabili nella storia del cinema, ma il presente film si inserisce nella serie dei tentativi poco riusciti. Provaci ancora, Drac.