Ancora
una volta Martin Scorsese, nel suo modo narrativo spiraliforme,
traccia il quadro storico e antropologico di un’epoca. C’è una
tensione epica presente nel cinema scorsesiano, che per lo più è
costretta in forme basso-mimetiche – invernali, direbbe Northrop
Frye – e che esplode nell’affresco storico di Gangs of New York,
che è un po’ il Nascita di una nazione di Scorsese. Lo stesso si
può dire del superbo Killers of the Flower Moon. Non per nulla, come per Gangs of New
York, anche su questo film si stende l’ombra
di uno dei grandi autori maledetti del cinema americano, il Michael Cimino de
I cancelli del cielo.
Com’è
noto, Killers of the Flower Moon racconta una cupa storia autentica
di delitti ai danni degli indiani Osage nell’America degli anni
Venti. In un film che si apre con la mesta cerimonia Osage del
seppellimento di una pipa sacra, perché i loro figli e nipoti
saranno assimilati (“Saranno istruiti dai bianchi”), un
fulminante raccordo lega la “tomba” della pipa alle zolle da cui
erutta il petrolio. Ora la tribù Osage è diventata ricca. I bianchi
sono calati come cavallette sposando le donne indiane allo scopo di
ereditare (gli Osage sono minati dalle malattie). In questa logica
“King” Will Hale (Robert De Niro), che si atteggia a grande amico
degli indiani e ostenta di parlare la loro lingua, organizza un
cinico piano di uccisioni incrociate per fare in modo che l’eredità
arrivi alla sua famiglia. E’ una scia di sangue e delitti
nascosti – dice Will: “Io gli voglio bene ma col passare del tempo
spariranno. Il loro tempo è finito” – in uno sviluppo intricato
che giustifica la dimensione monstre (ma sempre appassionante) del
film.
Se
Killers of the Flower Moon riprende tutta la panoplia tematica di
Scorsese, in primo luogo viene la perdita dell’innocenza. Questo
film è la cronaca della discesa all’inferno – l’ossessione
scorsesiana del peccato e della redenzione! – dell’ingenuo reduce
di guerra Ernest (Leonardo Di Caprio) sotto l’influsso del satanico
zio Will. L’ironia presente nella scena dell’arrivo, in cui zio
Will lo chiama eroe di guerra e subito dopo sentiamo che Ernest era
cuoco in fanteria, serve a introdurre una connotazione di
subordinazione che è il cuore del personaggio. Il suo rapporto,
misto di amore e colpevolezza, con la moglie indiana Mollie (una
potente interpretazione dell’attrice nativa Lily Gladstone), che
non si fa soverchie illusioni su di lui ma è sinceramente
innamorata, non gli impedisce di sporcarsi le mani nella
cospirazione. Il racconto è anacronico: in sorprendenti flashback,
man mano che tutti i pezzi vanno a posto, sempre più scopriamo Ernest come
stolido operatore del male. Nella sua debolezza, anche se ama la moglie e i figli arriva a farsi strumento del tentativo di uccidere Mollie alterando le sue iniezioni di insulina contro il diabete, di
cui lei soffre, con una fialetta datagli dallo zio; e nega la verità a se stesso in un patetico tentativo di
autoillusione basato sulle parole di Will, “Devi solo indebolirla
un po’”.
Ernest
è un memorabile personaggio imprigionato nella rete della famiglia,
con zio Will come perversa e suadente figura paterna. Ecco ancora la
famiglia, che percorre il cinema scorsesiano: nel senso ristretto o
in quello allargato, come la piccola mafia di Means Streets, o, allargando
ancora, tutte quelle società chiuse, “tribali”, che intrappolano
irreparabilmente l’individuo: non solo la mafia di Quei bravi
ragazzi e Casinò ma anche l’alta società newyorkese fine
Ottocento de L’età dell’innocenza, o il suo contrario nel
quartiere degradato di Gangs of New York. Qui vale la pena di
ricordare che in Scorsese, come in Paul Schrader, sovente la donna
(non senza riferimenti religiosi) offre la possibilità di fuggire da
questa ragnatela; ma in genere i protagonisti scorsesiani non la
colgono (fa eccezione il Nicolas Cage di Al di là della vita); e
così è per Ernest nel presente film.
Non
stupisce che sia stato usato nella critica l’aggettivo "shakespeariano". C’è molto Shakespeare qui. Anche zio Will è
un autentico tentatore shakespeariano, nella dismisura della sua
menzogna; ma soprattutto, il viluppo di contraddizioni e il conflitto
emotivo di Ernest e quello di Mollie (il suo innamoramento e la
sua paura, la coscienza della minaccia e l'incertezza sull’uomo che ama)
mantengono quell’irriducibilità alla comprensione totale che
contraddistingue i personaggi veramente grandi. Forse solo Orson
Welles – non a caso uno dei punti di riferimento di Scorsese – ha
avuto l’audacia di mettere in scena caratteri così complessi.
Ma
la perdita dell’innocenza non vale solo per il personaggio: vale
anche per un intero Paese. Questo è un altro grande tema ritornante
di Scorsese, dal citato Gangs of New York a Shutter Island, per fare solo due titoli; e in questo film
l’autore dà testimonianza della colpa originaria degli Stati
Uniti: lo sterminio degli indiani e la rapina delle loro terre.
L’attenzione alla cultura indiana (Scorsese è, lo sappiamo, un
antropologo dello schermo) fa emergere anche il côté mistico del
regista, che viene evocato in soggettiva "mitica" nella scena della morte della nonna (quanti
fantasmi, quante visioni, fra cui qui il gufo annunciatore di morte, compaiono in forma allucinatoria nei film di
Scorsese!). Killers of the Flower Moon fotografa il declino di una
cultura, dove i riti tribali sopravvivono in forma marginale
(commovente il rito Osage per i morti che vediamo più di una volta)
e destinata all’estinzione. Tutto ciò è congelato simbolicamente
nel triste destino di Mollie e delle sue sorelle.
Di
queste cose il cinema narrativo può parlare solo attraverso
l’illusionismo sostitutivo della messa in scena. Ecco allora il
magnifico finale che ci porta direttamente sul piano metanarrativo
(inutile ricordare quanto l’elemento metacinematografico sia sempre
stato caro a Scorsese). Dopo la vicenda processuale dell’ultima
parte del film, aprendo la sequenza con il sarcasmo oggettivo della
voce di uno speaker che intona “Il bene ha trionfato!”,
apprendiamo il destino successivo dei personaggi vedendo una
ricostruzione in radio, con attori e rumoristi, per la trasmissione
True Crime Stories, davanti al pubblico accorso a seguire la messa in
onda in diretta; e proprio Martin Scorsese compare come ultimo
speaker del racconto e lo suggella.
3 commenti:
Il film è magnifico, maturo e attuale insieme. La tua recensione lo è altrettanto. Una volta di più: hat on !
Hats off, volevo dire.
Tre ore e mezza che passano in un soffio. Che film!
È sempre un piacere leggerti, ovvero non solo quando scrivi delle Giornate ;)
Giuliana
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