martedì 6 luglio 2021

Far East Film Festival 2021


Dopo l'edizione solo online, a causa della pandemia, dell'anno scorso, il Far East Film Festival 2021 si è svolto a fine giugno in forma doppia: dal vivo sul grande schermo, non al Teatro Nuovo Giovanni da Udine bensì ai cinema Visionario e Centrale, e online sulla piattaforma MyMovies – con alcune eccezioni da un lato e dall'altro.
La domanda da un milione di dollari è: cosa ci aspetta per l'edizione 2022? E' certo (toccando ferro) il ritorno sia alla collocazione a fine aprile sia al Teatro Nuovo. Ma è altrettanto certo che al Visionario rimarrà un ruolo centrale nel festival.
Inoltre c'è la grande questione della trasmissione online. Su questo, è prematuro discutere. Ma una cosa, a parere di chi scrive, è sicura, e vale per tutti i festival cinematografici e non solo per il FEFF: la dimensione online non è stata un semplice ripiego dovuto a un anno di lockdown, ed è qui per restare.

Ecco uno sguardo ai film, premettendo che ovviamente non li ho visti tutti. Di una ventina ho pubblicato una recensione o una scheda breve sotto il presente articolo.
Cominciamo dal Giappone, che quest'anno è stato il più ricco – tallonato da Hong Kong – sia come qualità sia come quantità. Vedi schede sotto per Hold Me Back di Ohku Akiko, Ito di Yokohama Satoko, Jigoku-no-hanazono OFFICE ROYALE di Seki Kazuaki, Midnight Swan di Uchida Eiji.
Last of the Wolves di Shiraishi Katsuya è il seguito di The Blood of Wolves, che mostrava una fantasia visuale barocca e un realismo naturalistico nella narrazione. Vi ritorna il poliziotto Hioka (Matsuzaka Tori) che, dopo la morte di Ogami (Yakusho Koji) in Blood, ha ereditato la sua politica di immischiarsi fra le gang yakuza per mantenere la pace. Ma deve vedersela con lo yakuza psicopatico Uebayashi, appena uscito di prigione. Costui, la tradizionale figura di super-villain debitamente ghignante e odioso, colpisce più di Hioka: il film vorrebbe mostrare in quest'ultimo l'uomo che ha fatto un patto faustiano e ne è travolto ma gli fa fare piuttosto una figura barbina. Senza dubbio il film è spettacolare come Grand Guignol yakuza-style. Però lo danneggia gravemente, oltre alla necessità di appoggiarsi sul film precedente, una dose di forzature e implausibilità che lo rende inferiore al barocchismo di Blood.
Blue di Yoshiha Keisuke è un buon esempio di cinema sportivo sulla boxe (come Underdog, che non ho visto). Bello il montaggio, assai netto e preciso, di una secca sobrietà, fra una scena e l'altra. Gli incontri sul ring sono assai ben resi, con una chiarezza che si oppone al gusto contemporaneo del racconto a flashes. Le figure dei personaggi riprendono quelle di tanti film sul pugilato: il campione che si ritrova il cervello danneggiato dai colpi (Higashide Masahiro), la sua donna che soffre per questo (Kimura Fumino), il bravissimo teorico del gioco che però sul ring perde sempre (Matsudara Kenichi), il rookie in ascesa (Emoto Tokio, che è il personaggio più originale, in parte per un paio di bei tocchi di comedy, in parte per una faccia memorabile). Per fortuna l'abilità del regista Yoshida non fa avvertire la prevedibilità e guida il racconto con sicurezza fino a una bella conclusione.
The Goldfish: Dreaming of the Sea di Ogawa Sara: in una casa-famiglia per orfani, una diciottenne di nome Hana si affeziona a una bambina piccola, Harumi, che all'inizio sembra autistica – poi vediamo che è shockata perché era picchiata dalla madre, cui è stata tolta. Ma anche Hana ha un passato che le fa male. Che Ogawa Sara abbia imparato da Kore-eda si vede. E' brava (alla Kore-eda) nel dare concretezza a momenti significanti, come andare a mangiare sotto un albero o correre a cercare un riparo perché piove. Inoltre Ogawa (lei stessa attrice) ottiene buone interpretazioni, e non solo perché i bambini rubano sempre la scena. La piccola Hanada Runa (Harumi è eccezionale) anche per una capacità della regia di cogliere/costruire la pregnanza di un'espressione. Un paio di sue inquadrature nel film fanno veramente provare un brivido.
The Wheel of Fortuna and Fantasy di Hamaguchi Ryusuke, Orso d'Argento all'ultimo festival di Berlino, è un film intenso che si focalizza sul mondo femminile per esplorare in tre episodi le “intermittenze del cuore”, con una delicatezza di sguardo – come è stato scritto – quasi rohmeriana. Sono tre episodi con quattro protagoniste femminili (l'ultimo episodio è a due), splendidamente interpretati; ma vanno elogiate anche le figure di contorno maschili e femminili: il regista Hamaguchi ha fra le sue varie doti una particolare capacità di direzione degli attori. Dentro il gioco del caso e dell'immaginazione... questo il significato del titolo... si svolgono i tre incontri, ciascuno dei quali insegna qualcosa sull'amore alle protagoniste – e a noi.
Lasciando perdere il modesto You're Not Normal, Either! di Maeda Koji, segnalo in conclusione l'ottimo documentario SUMODO – The Succcessors of Samurai di Sakata Eiji, che non solo dà un quadro vivo e soddisfacente dello sport del sumo ma potrebbe compiere il miracolo di trasformarci in appassionati di questo sport!

Hong Kong è la patria spirituale del FEFF, sempre nei nostri cuori. Vedi schede sotto per Drifting di Jun Li, Limbo di Soi Cheang, Madalena di Emily Chan, Shock Wave 2 di Herman Yau, Sugar St. Studio di Sunny Lau, Time di Ricky Ko.
Girato con abilità, The Way We Keep Dancing di Adam Wong è un seguito di The Way We Dance del 2013. E' interessante l'argomento: il quartiere di Kowloon è diventato la base per tutta la cultura di strada dello hip hop e adesso viene travolto dalla gentrification con il conseguente aumento degli affitti, per cui le varie band non hanno più dove andare. Senza sorpresa, la polizia è al servizio delle grandi imprese edilizie. Parte del gruppo protagonista viene convinta a mettere le loro capacità al servizio di questo redevelopment con un progetto chiamato Dance Street – e questo li pone in contrasto con le frange più povere e radicali dei giovani che vi abitano. Segue un conflitto di sentimenti fino all'ovvio pentimento finale, che però non cambia le cose. E' interessante osservare come, sotto la novità concreta della musica hip hop e della street dance, l'impianto sia molto “vecchia Hollywood” (che vuol dire anche “vecchio cinema hongkonghese”).
One Second Champion di Chiu Sin-hang (co-regista di Vampire Cleanup Department con Yan Pak-wing) riprende da Vampire la nostalgia del vecchio cinema hongkonghese, sebbene in modo meno evidente: One Second Champion si rifà al vecchio melodramma sportivo made in Hong Kong (la figura del bambino, la sua sordità, l'incidente, il bambino che assiste disperato mentre il padre pugilatore ne prende un sacco). Tuttavia purtroppo il film è piuttosto insoddisfacente. Il violentissimo incontro di boxe finale può però essere una pagina di cinema sportivo interessante per gli appassionati.
Assai migliore Hand Rolled Cigarette di Chan Kin-long. Un prologo in b/n nel 1996 parla dei militari cinesi di HK che nello sciagurato Handover il governo inglese abbandonò a se stessi, garantendo un passaporto solo ai gradi alti. L'azione del film si svolge nel 2019, quando questo gruppo è stato diviso dai fatti della vita. Chiu (Lam Ka Tung, aka Gordon Lam) si barcamena come mediatore nell'ambiente della malavita. A casa sua si rifugia, inseguito dagli uomini di un boss per ragioni legate allo spaccio di droga, il giovane Mani che appartiene a una minoranza di immigrati disprezzati. Il film è puro noir hongkonghese; la fotografia di Rick Lau è moderna, col consueto uso di colori acidi e alterati. Non è un film d'azione nel senso isterico contemporaneo, anzi, si basa sulle atmosfere, ma i momenti d'azione non mancano e il finale, come prevedibile, è un autentico massacro. Il film si conclude con questa dedica: “A coloro che continuano a lavorare duro per il cinema di Hong Kong – passando la fiaccola alle future generazioni”. Questo dice tutto.
Zero to Hero di Jimmy Wan è un film sportivo strappalacrime sulla storia vera del campione hongkonghese delle Paralimpiadi So Wa Wai. Nato con una paralisi cerebrale che gli inibisce i movimenti; cresce e diventa un corridore grazie agli sforzi eroici di sua madre (Sandra Ng, anche produttrice). E' il classico film di cui Dante direbbe “E se non piangi, di che pianger suoli?” – ma tutta l'adesione umana non può nasconderci l'evidenza della costruzione a effetto (del resto, lo dichiara già il pomposo commento musicale). Un'osservazione in margine. Il giovane attore che interpreta So Wa Wai, con grande impegno naturalistico, presenta una prosthetic che gli fa sporgere i denti in modo spaventoso. Chiaro che lo si compiange lungo tutto il film. Poi sui titoli di coda appaiono le foto del vero So Wa Wai; segue controllo su Internet; sorpresa, il vero So Wa Wai aveva un aspetto molto più “normale”! Jacques Rivette avrebbe avuto una o due cose da dire in proposito.
Nella selezione hongkonghese svetta alto, insieme a Limbo, Coffin Homes di Fruit Chan; ma questo film verrà recensito solo dopo la sua uscita in sala. Infine: menzionare il cinema di Hong Kong significa far salire immediatamente alla mente (e al cuore) un gruppetto di grandi nomi, fra cui quello di Ann Hui. Ann Hui è la protagonista del toccante documentario intimista Keep Rolling di Man Lim-chung, che ci illumina sulla sua personalità. E poi, come non menzionare il film di chiusura, appena restaurato, l'indimenticabile Infernal Affairs di Andrew Lauy e Alan Mak?

Taiwan. Vedi schede sotto per My Missing Valentine di Chen Yu-hsun e per il restauro Execution in Autumn di Lee Hsing.
Gatao: The Last Stray di Ray Jiang è uno spin-off della linea narrativa di Gatao e del suo seguito Gatao 2: il protagonista non è Ren ma il suo vice Qing, ben interpretato da Cheng Jen-shuo. “L'ultimo randagio” è Qing: il film narra del tentativo di un villain di introdurre la droga e mettere zizzania fra le due bande della serie, e, in tale contesto, dell'amore fra Qing e una fotografa, Chi (Hsieh Hsin-ying) che non appartiene al suo mondo. Francamente è un po' uggiosa l'ingenuità di questa ragazza che non si rende conto di cosa significhi la vita di un gangster – ma per fortuna il film ha un buon montaggio veloce per cui non si sofferma oltremodo sul lato sentimentale, tranne che alla fine. Meglio la descrizione della lotta fra bande.
A Man in Love di Yin Chen-hao è un melodramma sulla storia di Cheng, un piccolo criminale attivo nel recupero debiti (Roy Chiu), e del suo amore con una ragazza, Wu Ho-ting. Il film parte come comedy, si trasforma in drama e finisce come puro mélo. Questo è uno dei problemi principali: con questo trapasso non di generi ma di sensibilità, il film appare poco o per nulla equilibrato (oltre che piuttosto debole in sé). Certamente, ci si commuove nel finale (anzi, nella proliferazione dei finali) – e chi non lo farebbe?

Cina continentale. Vedi schede sotto per Anima di Cao Jinling, Endgame di Rao Xiaozhi, Like Father and Son di Bai Zhiqiang.
Before Spring Comes di Li Gen costruisce la narrazione prevalentemente per scene brevissime, spesso impressionistiche, come a piccole pennellate. Questo è funzionale al racconto, che, anche se gira intorno al personaggio del giovane Li, mira a una dimensione collettiva, quasi alla Altman. L'argomento è la vita degli immigrati cinesi recenti in Giappone, e ruota intorno al piccolo ristorante cinese a Tokyo dove lavora Li. Ci si affeziona a questi personaggi, ciascuno con la sua storia, interpretati da buoni attori, fra cui un cameo di Sylvia Chang.
Cliff Walkers di Zhang Yimou, film di apertura del festival, è un'intricata storia di spionaggio (comunisti cinesi contro gli occupanti giapponesi e i collaborazionisti) ambientata negli anni Trenta. Il tema è patriottico ma quella che soprattutto Zhang Yimou mette in scena è la “nebbia del conoscere” connaturata a tutti film di spionaggio, l'impossibilità di riconoscere amici e nemici. L'amico è un traditore che fa il doppio gioco, dal finto nemico, in realtà amico infiltrato, può venire un aiuto imprevisto. In questa nebbia si sacrifica l'idealismo, in un film tragico e melodrammatico, ma ricco altresì di splendide scene d'azione.
In The Eight Hundred di Guan Hu invece chi è il nemico è chiarissimo: è di fronte, in un film di guerra: l'epopea della resistenza di un battaglione di soldati cinesi contro forze giapponesi soverchianti in un magazzino militare a Shanghai nel 1937. Un fiume divide la zona di combattimento da quella “pacifica” delle Concessioni occidentali, e questa doppia partizione – con i cittadini dell'altra sponda che osservano da fuori, ma sempre più coinvolti, la battaglia sull'altra riva, dà a questo film assai ben realizzato una particolare originalità.

E siamo alla Corea. Vedi schede sotto per Seobok di Lee Yong Zoo e il restauro Suddenly in Dark Night di Go Yeong-nam.
Night of the Undead di Shin Jung-won, vacuo titolo anodino (o ironico?) che può trarre in inganno, è una gustosa commedia demenziale. So-hee, sposata a un bellone innamoratissimo che sembra essere l'uomo perfetto, sospetta che costui la tradisca e si rivolge a un investigatore privato. Salta fuori dapprima che il marito se la intende con una quantità inverosimile di donne in giro per tutta la città in uno stesso giorno – al che noi spettatori possiamo solo ammirare la sua resistenza. Ma poi si scopre che è un invasore alieno (infatti gli piace bere benzina). Di qui nasce una farsa scatenata con tentativi reciproci di ammazzarsi fra marito e moglie (che arruola due sue amiche), col detective preso in mezzo, con equivoci e rovesciamenti, e una gustosissima cattiveria (e no, alla fine non si ricompongono). Un gran vantaggio del film sono le interpretazioni. La protagonista Lee Jung-hyun (So-hee) ha una capacità rimarchevole di passare da un'espressione all'altra – cosa necessaria in un film sulla finzione e l'imbroglio reciproco – nel giro di un secondo; le sue due sodali, la durissima Se-ra (Seo Young-hee) e l'ingenua Yang-sun (Lee Mi-do), sono perfette spalle comiche. Da menzionare anche il gelido Kim Sun-oh (l'alieno) e lo stralunato Yang Dong-geun (il detective).
Deliver Us from Evil di Hong Wong-chan è un action gangsteristico di medio livello, che però si lascia seguire volentieri finché non si dà a esagerazioni eccessive. Un sicario compie l'ultima missione uccidendo un boss della yakuza e progetta di ritirarsi a Panama. A impedirglielo, due sviluppi che si intrecciano: in Thailandia la sua ex moglie viene uccisa e sua figlia di nove anni rapita; il fratello dello yakuza assassinato, un killer psicopatico, gli dà la caccia per vendicarsi. Il protagonista (Hwang Jung-min) attraversa il film con un aspetto desolato che gli cattura le simpatie del pubblico; però sul piano spettacolare è più interessante il killer, una buona interpretazione “inumana” di Lee Jung-jae. Ci sono alcune ingenuità di sceneggiatura (Hwang Jung-min che dopo essere stato pugnalato due volte corre come un centometrista). Il comic relief è affidato alla figura di un trans che collabora col protagonista, e l'idea sarebbe interessante, se fosse appesantita da una recitazione stile Il vizietto. Bello, comunque, veder massacrare i trafficanti di bambini.
In Voice of Silence di Hong Eui-jong (che non nasconde ispirazioni alla Coen) una “strana coppia”, Kim e Kang, smaltisce cadaveri per la malavita. Kim (Yoo Ah-in di Burning) è muto ed è il classico bruto obbediente; Kang (Yoo Jae-myung), che lo ha allevato, mescola senza problemi il loro mestiere con una fervida religiosità. Sono due buone interpretazioni ma in particolare colpisce Yoo Ah-in, dovendo esprimersi solo con le espressioni del viso. Un giorno vengono incaricati di occuparsi di una bambina rapita per chiedere un riscatto. Ma poi il boss viene ucciso e i due si trovano fra la bambina (cui Kim si affeziona) e una banda di spietati venditori di bambini. Il film varia di registro, andando dallo humour nero all'inevitabile patetico alla suspense della parte finale.
Non vale molto la commedia Ok! Madam di Lee Cheol-ha, con caos su un aereo in volo e agenti nordcoreani. A tal proposito, interessante invece la produzione americana Assassins di Ryan White. Nel febbraio 2017 Kim Jong-nam, fratellastro (e pericoloso concorrente? O informatore della CIA?) del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, viene assassinato all'aeroporto di Kuala Lumpur (Malaysia) da due donne che gli spruzzano in faccia del gas velenoso sotto gli occhi di tutti. Arrestate e a rischio di una condanna a morte, le due si difendono così: erano state ingaggiate da qualcuno per fare a quello sconosciuto quella che credevano fosse una burla innocua, genere Scherzi a parte. Il documentario di Ryan White cerca di tracciare i contorni di questa storia incredibile. Se fosse la trama di un film di spionaggio i critici direbbero che è inverosimile.
Infine ricordo la retrospettiva di quattro titoli sull'importante regista Yoon Jong-bin (Beastie Boys, Nameless Gangster, Kundo: Age of the Rampant, The Spy Gone North).

Thailandia. Vedi scheda sotto per The Maid di Lee Thongkham.
Il titolo di The Con-Heartist di Mez Tharatorn è un gioco di parole che incrocia “rubacuori” e “re della truffa”. Ina è stata truffata da un bellone che l'ha corteggiata, le ha chiesto un prestito e l'ha ridotta in povertà. Quando incontra Tower, altro truffatore, un bellone anche lui, lo costringe a farsi aiutare a recuperare i soldi. Di qui parte la classica girandola di piani truffaldini sempre più complicati e di fregature reciproche, che coinvolge altri complici. E' un film un po' lungo forse, ma non c'è (quasi) momento che non sprizzi vivacità. Colpisce l'eccellente recitazione: la protagonista Pimchanok Luevidadpaibul ha una mimica deliziosa, Nadech Kugimiya (Tower) fa un George Clooney thailandese con humour e convinzione, e anche gli altri interpreti rendono il massimo. Personalmente, mi ha fatto impazzire Pongsatorn Jongwilas nel ruolo di Jone, il fratello (d'elezione) di Tower.

Indonesia. L'horror Death Knot è il dignitoso esordio come regista del noto attore indonesiano Cornelio Sunny. Una donna si suicida impiccandosi e i suoi due figli, Hari ed Eka, vanno al villaggio di lei, accompagnati dal marito di Eka, Adi. Non la vedevano da anni; anche il padre l'aveva abbandonata. Al villaggio scoprono che la gente la odiava perché aveva fama di essere una strega. Da notare che la casa della madre non è la solita casa piena di oggetti antichi dell'“horror antiquario”ma una casa di campagna di una modernità povera, un anonimato tetro. Molto atmosferico, il film si muove in maniera decisa ed è capace di vivacizzare la narrazione inserendo dove conviene delle immagini-shock. La storia parla di misteriosi istinti suicidi per impiccagione che colpiscono la popolazione locale. Molto bello, inquietante, il folle ghigno che compare sulla faccia dei posseduti.

Malaysia
Hail, Driver! di Muzzamer Rahman: first things first, la fotografia in b/n (di Fairuz Ismail & Hafiz Rashid) è senz'altro bella e si impone con notevoli inquadrature di Kuala Lumpur, fra inquadrature architettoniche e veloci lampi di vita cittadina. Il protagonista è un giovane malese, scrittore fallito (ormai le riviste hanno chiuso perché le gente legge solo online), che per sopravvivere fa il tassista abusivo. Fa amicizia con una ragazza cinese che si prostituisce e va ad abitare con lei – non come convivenza d'amore (i sentimenti sono inespressi fino alla fine) ma d'amicizia e necessità. Per inciso, lui non vede i colori, e ciò vuol porre un'analogia (un po' goffa) con la foto in b/n. La fotografia è più decisa della sceneggiatura: che è programmaticamente impressionistica, tutta fatta di momenti, e in verità piuttosto esile, anche se ciò rientra nel programma decisamente minimalista del regista-sceneggiatore. Non mancano peraltro i riferimenti volanti alla realtà malaysiana (le elezioni politiche, i difficili rapporti fra malesi e cinesi, l'invidia degli indonesiani per il più progredito vicino malaysiano).
Il bel documentario Life in 24 Frames a Second di Saw Tiong Guan intervista quattro registi – l'indiano Anurag Kashyap, il filippino Lav Diaz, il cambogiano Rithy Panh, e John Woo (emigrato a Hong Kong da bambino coi genitori – che hanno alcune cose in comune. La prima, un'infanzia o tragica da subito o diventata tale: abusi sessuali, guerra, povertà, malattie infantili. Si capisce che la storia più terribile è quella di Rithy Panh, che ha vissuto da bambino l'auto-genocidio cambogiano dei Khmer Rossi. La seconda: un amore nato già da bambini per il cinema, come territorio dei sogni e dell'evasione, e in seguito diventato per loro (in forme diverse) un modo per esprimere se stessi e cambiare il mondo. Queste interviste sono assai interessanti sul piano biografico. Bello sentire John Woo sostenere che i musical, che ama molto, hanno ispirato il modo in cui dirige i suoi film d'azione; oppure Lav Diaz affermare che i suoi film sono “emancipati” dalla regola delle due ore e che lui non li considera lunghi, li considera liberi. Soprattutto, c'è al fondo di tutto questo un'idea forte di resistenza che commuove.

Filippine. Per ragioni diverse, non posso esprimere entusiasmo né per Son of the Macho Dancer di Joel C. Lamangan né per Fan Girl di Antoinette Jadaone (interessante però come volontaria autodistruzione del protagonista Paulo Avelino, nel ruolo di se stesso, come figura romantica). Assai meglio il bellissimo documentario di Grace Pimentel Simbulan A Is for Agustin, che traccia un ritratto del quarantenne Agustin, poverissimo carbonaio nella zona di Zambales, il quale ha sempre avuto il desiderio di andare a scuola – e così ci va, mescolandosi ai bambini (delizioso come questi a volte non resistono al desiderio di guardare in macchina!). Agustin vive con la moglie e il figliastro Nonoy, e il suo desiderio di studiare si scontra con le esigenze della loro miseria, tanto più che Nonoy deve andare alle superiori. Il documentario dà un quadro veramente memorabile di vita quotidiana in questa famiglia e questo villaggio, comprendente le uscite per andare a cantare in qualche fiesta (Agustin è bravo con la chitarra) o magari per cantare in gruppo in città a Natale davanti alle case in cerca di offerte. Il ritmo che all'inizio appare un po' lento serve per entrare dentro queste vite, e man mano l'adesione diventa tale che non si sente più lo scorrere del tempo. A differenza del solito, le didascalie “di destino” che appaiono alla fine non servono solo ad acquietare la curiosità ma hanno anche un senso “poetico” commovente. Un film di grande umanità.
Ricordo en passant che il festival ha presentato una retrospettiva dedicata al grande attore filippino Eddie Garcia, che intendeva onorare nell'edizione 2020, e che è morto improvvisamente – a 90 anni, ancora attivo – in un incidente sul set.

Infine, se non ci sono stati film da Singapore, c'è una new entry del festival, il Myanmar (Birmania). Vedi scheda sotto per Money Has Four Legs di Maung Sun. Ma anche in questa sede voglio ripetere che la produttrice e co-sceneggiatrice del film, Ma Aeint (ospite a Udine due anni fa), è stata arrestata dai militari e non se ne ha notizia dal 5 giugno. Il regista Maung Sun attualmente si nasconde. FREE MA AEINT!

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