domenica 7 febbraio 2021

Pieces of a Woman

 Kornél Mundruczó

Con Martin Scorsese in veste di produttore esecutivo, il bellissimo Pieces of a Woman è il primo film in lingua inglese del regista ungherese Kornél Mundruczó, un habitué di Cannes, scritto dalla sua collaboratrice e moglie Kata Wéber da una loro pièce del 2018. Sviluppandosi in una serie di scene nel corso di un tragico inverno in una Boston gelata, la storia racconta della morte di una neonata durante un parto in casa andato male; i genitori Martha e Sean, sospinti dalla madre di lei, mandano a processo la levatrice Eva per negligenza criminale; ma la famiglia va a pezzi. Solo una conclusione aperta lascia spazio a un'ipotesi di superamento della disperazione. La materialità psicologica e la fisicità della lunga scena del parto – realizzata in un piano sequenza di 24 minuti che la rende ancora più potente – arrivano come uno shock emotivo. Quando si profila il sospetto che le cose comincino ad andar male, l'angoscia che sorge dalla preoccupazione sul viso muto della persona in carica, la levatrice, è di raggelante autenticità.
Pur essendo – come dichiara l'autore – un film volutamente americano, Pieces of a Woman ricorda da vicino l'opera del grande polacco Krysztof Kieslowski. Come in Decalogo, parla dell'imponderabile tragico della vita (metaforizzato nel racconto di un ponte crollato per bocca di Sean, che lavora nell'edilizia): un imponderabile cui nulla può far fronte, non la scienza (“La medicina non è in grado di spiegare tutto”) e men che mai l'iper-giuridicizzazione che è una delle piaghe del nostro tempo. Parla del lutto: della sua lacerazione, del suo effetto sulla psiche, della diversità tra uomini e donne nel modo di viverlo. E parla del generale impasto di dolore della vita (la madre sta diventando senile e comincia a dimenticare le cose).
A interni dove spiccano alcuni splendidi surcadrages si alternano tristi esterni col bianco sporco della neve di città. E' magistrale la gestione del campo/controcampo nella scena del discorso di Martha nell'aula del tribunale: al suo primissimo piano si contrappone l'inquadratura della madre con l'altra sorella da un lato e lo spazio vuoto lasciato da Martha dall'altro (il segno di un allontanamento morale prima che fisico), ma un avvicinamento della mdp taglia ai lati la sorella e quel vuoto, fino al primissimo piano della madre – e quando Martha sorride al pubblico, quel sorriso di pacificazione è rivolto a lei.
La costruzione è attentissima, piena di dettagli significativi e di rimandi nascosti. Un giorno di riunione di famiglia in cui vengono alla luce le tensioni più o meno celate (nonché la backstory della madre, in una bella prova recitativa di Ellen Burstyn) non per caso è aperto da immagini del disgelo della neve. Nota che anche questa scena è in larga parte un magnifico piano sequenza. In un film che non ha paura di appoggiarsi sulla metafora, se il tocco dei semi che germogliano appare un po' retorico, arriva un incantevole finale assolato (non privo di ambiguità) a rappresentare la continuità della vita.
Vanessa Kirby, com'è noto, ha vinto la Coppa Volpi per la miglior attrice alla Mostra di Venezia 2020 con il ruolo di Martha. Ma accanto a lei, in un film pieno di buoni attori, va citata in particolare Molly Parker (Eva), che è addirittura magnetica nel convogliare le emozioni (il suo sguardo dal fondo quando entra in aula Martha all'inizio del processo!) con un massimo di semplicità.

Nessun commento: