sabato 28 novembre 2020

Gauguin

Edouard Deluc 

Gauguin di Edouard Deluc, con Vincent Cassel, ha un vantaggio: può usare autentici panorami polinesiani nella sua biografia (un po' “ripulita”) del grande pittore, limitata in pratica al suo primo soggiorno in Polinesia. Uscito in Francia nel 2017, da noi è arrivato in ritardo finendo vittima del Covid, e si vede solo online. Tuttavia, anche se è pensato per il grande schermo, questo modesto film tiene qualcosa della fiction televisiva.
Come introduzione all'arte di Gauguin tocca affidarsi a due parole di Theo, il mercante d'arte che all'inizio spiega qualcosa a una signora (e al pubblico). Non viene esplicitato ma è Theo Van Gogh, il fratello e mecenate di Vincent. Ci sono degli accenni didattici buttati qua e là per lo spettatore; per esempio, mostrare una riproduzione de La grande onda di Kanagawa di Hokusai appesa nella capanna di Gauguin serve a significare l'influsso dell'arte giapponese (lo japonisme) su tutta la cultura artistica del tardo Ottocento; ma fondamentalmente è poca roba. In realtà Gauguin si concentra sulla vita e non sull'arte. Ci sono la povertà di Gauguin, la cattiva salute, il suo odio per i missionari, per ovvie ragioni un po' meno la sessualità; ma paradossalmente la pittura è la grande assente del film (certo, vediamo Gauguin comprare colori e dipingere, e con questo? Potrebbe anche essere un pittore della domenica). Questo perché il film si sofferma sulla suggestione psicologica che detta i dipinti piuttosto che sul processo creativo vero e proprio. La scena migliore è quella che dà origine al quadro Manao tupapao – Lo spirito dei morti veglia, con l'amante tahitiana Tehura distesa bocconi sul letto, nuda e spaventata (“Erano finite le candele... Sono venuti gli spiriti”): solo qui sentiamo un brivido di riconoscimento che congiunge l'occasione e l'opera.
Bisogna aggiungere che il film tiene da parte “i Gauguin”, i dipinti finiti e oggi famosi, per i titoli di coda, dove li vediamo enunciati uno dopo l'altro, e così lo spettatore “ricostruisce” mentalmente l'unione della narrazione con il risultato. Però quest'esilio nei credits li sminuisce: perché lo spazio dei titoli di coda implica una separazione rispetto al racconto. Semmai, un regista più dotato avrebbe fatto sfilare questa progressione di capolavori prima dei titoli, come climax alla fine del film.
Invero, la chiave per penetrare la verità di Gauguin e la sua esperienza umana è proprio la sua pittura. Per questo il film rimane piuttosto vuoto; e la profondità della tensione di Gauguin verso l'innocenza tahitiana rimane circoscritta a qualche enunciazione verbale. Mostrare in modo convincente la pittura nel suo farsi è difficile, se uno non è, per esempio, Martin Scorsese (Lezioni di vero, in New York Stories). Ma si può sempre ottenere della buona divulgazione, da Moulin Rouge di John Huston a Brama di vivere di Vincente Minnelli – che accanto a Van Gogh presentava un Gauguin (Anthony Quinn) che certo ricorderemo più di Vincent Cassel.

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