Quando
uscì, nel 1966, La Bibbia
di John Huston, gli spettatori commentarono all'unisono: è meglio il
libro. La stessa cosa si può ripetere adesso dopo la visione dello
sciocco Dracula
revisionista della BBC (trasmesso da Netflix), realizzato e
sceneggiato da Mark Gatiss e Steven Moffat in tre episodi della
lunghezza di un film. Molti fili sciolti denunciano il progetto di
una seconda stagione.
I
due sono gli autori, com'è noto, dello Sherlock Holmes
televisivo in abiti moderni. Stavolta, con meno successo, applicano
la formula a un altro caposaldo dell'immaginario vittoriano: anche se
è solo il terzo episodio a essere ambientato nella nostra epoca,
tutto il loro Dracula
vuol essere una trasposizione del romanzo di Bram Stoker (1897) sotto
il segno della contemporaneità. Gatiss e Moffat hanno letto il loro
Stoker (troviamo frammenti familiari a tutti i lettori di Dracula
come il termine bloofer lady nel
pessimo terzo episodio) ma si divertono a stravolgerlo.
L'idea più centrata è
lo sviluppo del personaggio di suor Agatha, che in Stoker è solo
nominato di passaggio; qui è Agatha Van Helsing (e poi la sua
discendente Zoe), avversaria di Dracula, e il personaggio più saldo
nella traballante scrittura della miniserie. Va segnalato che la
storia si caratterizza per un doppio livello di realtà, poiché
porta la vittima dentro la mente del vampiro, in una dimensione
allucinatoria causata dal morso (nel secondo episodio ciò porta
all'unico vero momento di brivido dell'intera miniserie, la
rivelazione di chi è l'inquilino della cabina 9).
Il concetto generale è
questo: a) Dracula è un buongustaio del sangue, con tutti gli
abusati doppi sensi su bottiglie e inviti a pranzo; b) attraverso il
sangue si impossessa delle conoscenze delle vittime (per cui, “Blood
is lives” e non life). Ecco un esempio un po' alla Mel
Brooks: conversando sulla nave con una granduchessa, nel secondo
episodio, si accorge che il suo tedesco è un po' arrugginito, esce
un attimo, va a bersi un marinaio bavarese e poi torna che è
perfettamente fluente.
Ma la caratteristica
che rimane principalmente impressa è che Dracula (Claes Bang) è un
battutista inveterato – e parallelamente anche suor Agatha (Dolly
Wells) ha una lingua che taglia e cuce. Bisogna ammettere che si può
trovare qua e là qualche battuta divertente (la madre superiora:
“Perché le forze oscure dovrebbero attaccare un convento?” –
suor Agatha: “Forse sono sensibili alle critiche”). Tuttavia il
risultato complessivo è goffo: quando Dracula, minacciando il
terrorizzato Jonathan Harker perché scriva le lettere, fa il ragazzo
allegro (“Johnny... Johnny...”) col tono ironico che userebbe un
giovane gangster di Martin Scorsese, viene voglia di piantare un
paletto di frassino nel televisore.
Nota bene, anche il
Dracula di Bram Stoker non è privo di un sardonico humour (basta
pensare al terribile scherzo dei lupi). Nelle principali trascrizioni
filmiche, Bela Lugosi e Gary Oldman hanno suggerito anche questo
aspetto, Christopher Lee, Jack Palance e Klaus Kinski no. Qui però
Dracula risulta grossolanamente appiattito. La questione non è che
parla tanto (anche il Dracula del fumetto Marvel Tomb of Dracula è
enfatico e logorroico, e ciò non lo danneggia). Bisogna rovesciare
la questione: le sue battute non sono la causa della sua diminutio
bensì l'effetto. Questo è un Dracula che manca di grandezza. Non
senza una dose di abilità mal impiegata, Gatiss e Moffat hanno
voluto privare questa figura archetipica di tutta la sua dimensione
mitica – fino a concludere il terzo episodio con un tentativo di
psicoanalizzare Dracula (un mix di incongruenze e banalità
pomposamente venduto come rivoluzione euristica) facendolo risultare
un credulone impigliato nella propria leggenda.
Così, cosa resta di
Dracula? Un villain che sa atteggiarsi a uomo di mondo. Il
modello è chiaro: i cattivissimi di James Bond – i quali ci
riportano, tout se tient, al Moriarty holmesiano. Ora, i vari
Blofeld, Goldfinger, Scaramanga, Mr. Big, Le Chiffre sono
indubbiamente più o meno odiosi, ma non fanno paura. Non vorremmo
incontrarli nella vita reale, sono pericolosi, ma siamo lontani da
quel frisson che è sempre stato l'appannaggio del vampiro.
Analogamente questo Dracula stand-up comedian (vedi la scena
alla porta del convento) è sempre molto crudele, ma ha perso l'aura,
diventando un Auric Goldfinger qualsiasi (nemmeno un Blofeld, che
invero possiede una certa maestà).
Il primo episodio,
diretto da Johnny Campbell, copre l'esperienza di Jonathan Harker al
castello di Dracula; ha se non altro l'interesse della scoperta, ma
vi si palesa subito il modo abborracciato con cui Gatiss e Moffat
hanno voluto impastare tutto e il contrario di tutto, l'horror e la
commedia, il dramma e la parodia, lo stereotipo e il dialogo hip.
Un postmoderno che è la parodia di se stesso. L'elemento di
omosessualità (Harker viene nominato “sposa di Dracula”!)
presente qui come in tutta la serie è più un principio modaiolo che
la volontà di seguire una suggestione effettivamente presente in
Stoker.
Il secondo episodio, di
Damon Thomas, narra il viaggio del conte vampiro sulla nave Demeter.
Con un Dracula sempre spiritosone ma che tende meno a strafare, è il
meno peggio dei tre. L'organizzazione narrativa segue un filo logico
più stringente, e la progressiva scomparsa dei passeggeri porta una
reminiscenza di giallo classico alla Dieci piccoli indiani.
Vero è che il film non si pone il minimo tentativo di replicare il
modo di pensare vittoriano (una gentildonna non userebbe mai il verbo
retch, vomitare, specie con uno sconosciuto) ma questo non può
essere imputato a Gatiss e Moffat, essendo un tratto comune a tutto
il moderno cinema in costume, che fa pensare i suoi personaggi come
contemporanei.
Il terzo episodio, di
Paul McGuigan, sulla vampirizzazione di Lucy Westenra, è il
peggiore, e riesce ad essere banale e insensato nello stesso tempo. A
differenza degli altri, si segnala in negativo anche per alcune
goffaggini di regia e messa in scena. Quando la morta Lucy ritorna
come vampiro (è un cadavere bruciato ma non lo sa, poiché nello
specchio si vede giovane e bella), ha senso che dapprima compaia ai
nostri occhi riflesso sul piano lucido del tavolo – ma l'insistenza
troppo prolungata su questo fa capire in anticipo la rivelazione
della sua realtà oggettiva. Parimenti, ha senso che il suo
innamorato Jack si sia portato un paletto per darle la pace, ma il
modo in cui lo tiene dietro la schiena è da commedia più che da
horror. Peggio ancora, l'insulsa sceneggiatura trasforma il
personaggio di Lucy in un'oca assoluta; il che non sarebbe illecito,
se il film non volesse farne l'oggetto privilegiato di desiderio di
Dracula in 500 anni di vita (parole sue). La miniserie non riesce
assolutamente a far capire cosa ci trovi il conte in questo
personaggio stereotipato di scemetta contemporanea; cerca
faticosamente di spiegare che Dracula la vede come “innamorata
della morte”, ma questo tratto di Lucy sembra, per com'è
realizzato, più stupidità giovanile che spirito romantico. Non si
pensi peraltro che questa caratterizzazione sia tutta farina del
sacco di Gatiss e Moffat: in realtà qui i due plagiano, e rovinano
caricandola mostruosamente, un'intuizione di F.F. Coppola in Bram
Stoker's Dracula. L'influsso mal digerito del film di Coppola è
rintracciabile in più di un aspetto della serie.
La trascrizione filmica
di un'opera letteraria non ha un dovere di fedeltà ma ha –
potremmo dire – un dovere di efficacia. Un'opera mediocre tratta da
un testo di valore sarà sentita non solo come un tradimento delle
nostre aspettative di spettatori ma anche, inevitabilmente, come un
tradimento della potenza intrinseca al testo.
Tirando
le somme, non è dunque un problema di “leso Bram Stoker” ma di
fallimento narrativo e artistico. Questo Dracula
della BBC è privo di sentimenti: non il personaggio ma il film. E'
un male del cinema occidentale contemporaneo l'incapacità di rendere
i sentimenti (perché se ne vergogna) – laddove anche nel più
deteriore Z-movie di
una volta (metti, Dracula's Castle
di Al Adamson) c'era almeno un tentativo di prenderli sul serio, pur
con tutta l'ironia del caso. Questa miniserie artificiosa e
superficiale postula un cinema di pupazzi ridotti a puro segno. Ed è,
questo tipo di cinema, lo specchio di una civilizzazione che ha paura
della complessità e della profondità. Per questo è mille volte
meglio il cinema orientale.
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