Il
film che i fascisti del politically correct non volevano che
vedessimo l'abbiamo visto, ed è bellissimo. A Rainy Day in
New York di Woody Allen è
ispirato; in piccolo, s'intende, ma fa pensare a Mozart per la
leggerezza e l'eleganza dei movimenti. Restando nel campo di Allen,
può ricordare Una commedia sexy in una notte di mezza
estate (si potrebbero fondere i
titoli: A Sex Comedy in a Rainy Day in New York),
non solo per l'atmosfera sognante ma per l'incantevole levità. A
Rainy Day è un film
impalpabile, come un balletto.
Su un canovaccio
semplicissimo (due studenti fidanzati progettano di passare insieme
un weekend a New York ma il caso si mette di mezzo) Woody Allen riporta con
sottigliezza divertita i suoi classici temi, e in particolare la
domanda che tutti si fanno (e che in tarda età diventa,
retrospettivamente, ancora più urgente): chi sono? cosa voglio?
Qui la forma della
commedia è quella dell'intoppo che si sviluppa a cascata. Gatsby e
Ashleigh, che studiano in una piccola università, non mancano di
soldi (loaded, pieno, è una parola ricorrente), non solo
perché sono entrambi di famiglia ricca ma perché il ribelle Gatsby
è un grande giocatore di poker. Ora Ashleigh – che aspira a
diventare giornalista – ha l'opportunità di intervistare a New
York un famoso regista per il giornale del campus; Gatsby – che
aspira solo a restare se stesso – è ben lieto di ritornare nella
sua città (basta che sua madre non lo sappia: c'è un party da
evitare).
Un elemento centrale
del cinema di Woody Allen, lo sappiamo, è il concetto di destino. Ci
scherzava sopra evocando buffonescamente la tragedia greca all'inizio
de La dea dell'amore. Il destino (attraverso un avvenimento
imprevisto, una scoperta, una visita, una magia) mette in crisi
l'equilibro di una o più esistenze e le spinge a frustate verso una
maggiore autenticità – una parola che ha molta importanza nel
cinema alleniano.
Quello che per Ashleigh
doveva essere l'impegno di un'ora si complica sempre più, e la
ragazza si lascia travolgere non troppo malvolentieri dalle ansie e
dalle tentazioni di Hollywood – un mondo che ormai ha sede a New
York. In un passaggio esilarante, incontrando un super-divo Ashleigh
dimentica anche il proprio nome.
Intanto
il suo ragazzo gira per la città continuando a rovistare nel proprio
disincanto esistenziale. Nomina omina:
si chiama Gatsby (la ricchezza, l'eleganza, l'inquietudine) e come se
non bastasse di cognome fa Welles. C'è un senso di libertà in
questo giovane ribelle (Timothée Chalamet, appena visto in The
King) che se fosse sfrenato
avrebbe qualcosa da rimbaudiano; ma nel fondo di Gatsby non c'è
Rimbaud, e neanche la beat generation,
bensì un senso di curiosità, misura e bellezza che serpeggia nel
cuore di New York, e che Allen è capace di farci scoprire, in un
viaggio cinematografico che si situa – complici i magnifici
ambienti fotografati da Vittorio Storaro – a metà strada fra la
realtà e la favola.
Così,
seguendo lo schema frequente in Allen del raddoppiamento, il film si
biforca in una doppia giornata (di pioggia) parallela e in due anime
differenti. Gatsby, lo abbiamo già detto, è newyorchese fino al
midollo. Ashleigh viene da Tucson, Arizona (il che offre alla
newyorkese Shannon/Selena Gomez, che fa da terzo incomodo,
l'occasione di una serie di frecciate di superba acidità); è stata
reginetta di bellezza, viene da una famiglia di ricchi supporters
di George Bush, e – nella deliziosa interpretazione di Elle Fanning
– è solare fino alla punta dei capelli color del grano.
Ah, ma possono un
Gatsby iper-newyorkese (“Mi serve il monossido di carbonio per
sopravvivere”) e una solare ex reginetta di Tucson stare insieme? A
questa domanda, come capita spesso in Allen, rispondono non gli
uomini ma il destino. Però qui, se galeotto è il mondo del cinema,
il destino si identifica con New York stessa. “The city has its own
agenda”, dice a un certo punto la voce narrante.
A
Rainy Day in New York è
un film sulla gioventù vista
con occhio attento, amabile ma attento, da un vecchio. Allen rivive
se stesso in Gatsby, come ha fatto in tanti semi-sosia più giovani
nel corso della sua carriera: le ossessioni di Gatsby (il senso della
verità e l'incertezza su come raggiungerla, le scelte
prevalentemente in negativo e l'amore per l'arte e per New York come
punto fermo) sono le ossessioni di Woody Allen – ma qui senza
nevrosi e senza angosce. Punteggiato dai soliti gustosi allenismi
(“La vita reale va bene solo per chi non sa fare di meglio”), è
un film curiosamente soffuso di un senso di quiete.
E'
un film dov'è molto presente il tempo: preso in giro nei tanti
appuntamenti mancati, ricordato negli orologi – con un appuntamento
di fronte a un famoso orologio di New York finisce il film – ma
anche cupamente evocato nelle battute (che nascondono una paura) di
Gatsby sul fumare che accorcia la vita. Allen non ha mai dimenticato
in tutta la sua carriera che la morte è un appuntamento
irrevocabile. E tuttavia bisogna vivere. La grande pagina delle
confidenze della madre (Cherry Jones) a Gatsby è una lezione di
vita: la verità che le persone non sono quelle che sembrano, la vita
non è facile, e tanto meno lineare come sembra quando si è
giovani: ecco tutto; e (come sempre in Woody Allen) la bellezza è
l'unica cosa sicura.
Allen
scrive e filma con la saggezza dei vecchi. C'è del dubbio
esistenziale in questi andirivieni – ma non c'è angoscia (peraltro
Woody non dimentica di annotare che i soldi possono essere utili per
angosciarci di meno). Per tutta la vita Woody
ci ha fatti ridere sul suo eterno rapporto con lo psicoanalista
(ricordate? “Gli concedo ancora un anno e poi vado a Lourdes”).
Adesso, a 84 anni compiuti il primo dicembre, la nostra impressione è
che Woody abbia potuto permettersi finalmente di mandare il suo
psicoanalista in pensione.
2 commenti:
recensione perfetta, mi ci sono ritrovata :-)
Giorgio è sempre un critico sublime!
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