Si
potrebbe sostenere che esistano due tipi di narrazione
cinematografica. Il primo è quello del “vasto fluire”, che si
dilata nella pluralità di personaggi e nella dimensione del tempo;
il secondo mette in scena una singola avventura concentrata.
S'intende che il primo tipo è più vicino al modello romanzesco, e
spesso ne proviene (ma non sempre). Quel ch'è certo è che il cinema
USA – che pure aveva trionfato nel primo genere di narrazione
(basta pensare a Via col vento o alle riduzioni letterarie
MGM) – ora tendenzialmente si è ridotto, e si potrebbe dire
ristretto, al secondo tipo.
Almeno
per quanto riguarda i film singoli: perché può accadere che una
saga, sviluppandosi nel tempo, realizzi in vari capitoli
(inizialmente neppure previsti) il modello “disteso” romanzesco,
com'è accaduto per Star Wars. Invece
le serie televisive tendono
spesso a dilatare il secondo tipo, sebbene con notevoli eccezioni:
per esempio Twin Peaks,
che peraltro è riduttivo definire solo una serie televisiva.
Il
messicano Roma (che è il quartiere di Città del Messico) di
Alfonso Cuarón rientra perfettamente nel primo tipo di narrazione.
E' un vasto romanzo che rievoca la vita messicana nel 1970-71. La sua
natura è quella dell'affresco, con una vivace pittura ricca
di dettagli che suoneranno una campanella particolare nella memoria
degli spettatori messicani: i comici televisivi di allora, le riviste
sexy dell'epoca (Audaz, Él, Caballero),
i film di successo: vediamo sullo schermo citazioni di Tre uomini
in fuga e di Marooned (Abbandonati nello spazio) –
con la quale, del resto, Cuarón rende omaggio al film ispiratore di
quella che probabilmente resta la sua opera migliore, Gravity,
un film
sulla solitudine dove lo spazio diventa quasi un luogo metafisico.
Qui
è bene ricordare che Alfonso Cuarón (che
non è un Cukor, per carità!) come regista ha
sempre avuto un'impronta letteraria e romanzesca. Costruisce
film di struttura “forte”, tradizionale, e non per nulla spesso
adatta romanzi classici o contemporanei (sceneggiati più o meno
liberamente): La
piccola principessa da
Frances Hodgson Burnett, Paradiso
perduto da
Grandi
speranze
di Dickens, Harry
Potter e il prigioniero di Azkaban da
J.K. Rowling; anche la distopia I
figli degli uomini
proviene, però col massimo di libertà, da un romanzo di P.D. James.
Ma si può vedere l'importanza di una struttura narrativa forte per
Cuarón già nella presenza fondante della voce over nel vecchio Y
tu mama también.
Roma
mette al centro la vicenda della cameriera india Cleo inserendola in
quella della rottura della famiglia borghese presso cui presta
servizio, originata dall'abbandono del padre. Cleo viene messa
incinta e abbandonata da un giovane cialtrone maniaco delle arti
marziali, che finirà a far parte delle squadracce governative
partecipando al massacro del Corpus Christi del 1971 (il Cile e
l'Argentina, di cui sappiamo tanto, sono anticipati da questo
semisconosciuto Messico dei presidenti Diaz Ordaz ed Echeverria).
Abile
artigiano, Cuarón si caratterizza per la capacità di messa in
scena ravvivata da piccole intelligenti invenzioni. Grazie a queste
l'ingegnosa rilettura di Grandi
speranze
spostato nell'America contemporanea convince sopravvivendo a difetti
come l'overacting
di Anne Bancroft. Oppure va citata la sua svolta in senso noir, con
sottolineature horror, della saga di Harry Potter, che fin dal
mutamento di Hogwarts in senso freddo, “polanskiano”, apre alla
cupezza che caratterizza gli episodi successivi del ciclo. Di
notevole vivezza è poi il plausibile mix di realtà presente e
deformazione futura con cui I
figli degli uomini
dipinge un'Inghilterra fascistizzata in un mondo
divenuto sterile.
Le
vicende di Roma
si svolgono in un Messico catastrofico: le scosse di terremoto, il
terrorismo governativo, la guerra tra proprietari e contadini
(l'incendio del bosco). A livello più immediato il film è
costellato di immagini infauste: il freddo lastricato disseminato
disseminato delle merde del cane Borras, la villa degli amici di
famiglia con le pareti piene di teste di cane imbalsamate, il bambino
che “ricorda” le sue cupe vite precedenti. E naturalmente
presagi: messi in scena a volte in modo un po' meccanico, come il
bicchiere che cade e s'infrange dopo un brindisi di buon augurio per
il parto di Cleo, a volte meno artificioso, come quando il rischiato
annegamento di due dei bambini è preannunciato da una frase del
fratellino su una sua vita passata.
Con
Del Toro, Iñárritu,
Rodriguez (texano ma di famiglia messicana), Alfonso Cuarón
appartiene a quell'ondata messicana che ha lasciato il suo segno a
Hollywood. Fotografato dallo stesso regista in un netto b/n, Roma
è il suo ritorno al Messico. La sua calma apparentemente fredda (ma
non lo è) corrisponde all'atteggiamento del narratore onnisciente in
questo fluire, che senza essere un capolavoro non passa senza
lasciare un segno nello spettatore.
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