martedì 4 dicembre 2018

Roma

Alfonso Cuaròn 

Si potrebbe sostenere che esistano due tipi di narrazione cinematografica. Il primo è quello del “vasto fluire”, che si dilata nella pluralità di personaggi e nella dimensione del tempo; il secondo mette in scena una singola avventura concentrata. S'intende che il primo tipo è più vicino al modello romanzesco, e spesso ne proviene (ma non sempre). Quel ch'è certo è che il cinema USA – che pure aveva trionfato nel primo genere di narrazione (basta pensare a Via col vento o alle riduzioni letterarie MGM) – ora tendenzialmente si è ridotto, e si potrebbe dire ristretto, al secondo tipo.
Almeno per quanto riguarda i film singoli: perché può accadere che una saga, sviluppandosi nel tempo, realizzi in vari capitoli (inizialmente neppure previsti) il modello “disteso” romanzesco, com'è accaduto per Star Wars. Invece le serie televisive tendono spesso a dilatare il secondo tipo, sebbene con notevoli eccezioni: per esempio Twin Peaks, che peraltro è riduttivo definire solo una serie televisiva.
Il messicano Roma (che è il quartiere di Città del Messico) di Alfonso Cuarón rientra perfettamente nel primo tipo di narrazione. E' un vasto romanzo che rievoca la vita messicana nel 1970-71. La sua natura è quella dell'affresco, con una vivace pittura ricca di dettagli che suoneranno una campanella particolare nella memoria degli spettatori messicani: i comici televisivi di allora, le riviste sexy dell'epoca (Audaz, Él, Caballero), i film di successo: vediamo sullo schermo citazioni di Tre uomini in fuga e di Marooned (Abbandonati nello spazio) – con la quale, del resto, Cuarón rende omaggio al film ispiratore di quella che probabilmente resta la sua opera migliore, Gravity, un film sulla solitudine dove lo spazio diventa quasi un luogo metafisico.
Qui è bene ricordare che Alfonso Cuarón (che non è un Cukor, per carità!) come regista ha sempre avuto un'impronta letteraria e romanzesca. Costruisce film di struttura “forte”, tradizionale, e non per nulla spesso adatta romanzi classici o contemporanei (sceneggiati più o meno liberamente): La piccola principessa da Frances Hodgson Burnett, Paradiso perduto da Grandi speranze di Dickens, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban da J.K. Rowling; anche la distopia I figli degli uomini proviene, però col massimo di libertà, da un romanzo di P.D. James. Ma si può vedere l'importanza di una struttura narrativa forte per Cuarón già nella presenza fondante della voce over nel vecchio Y tu mama también.
Roma mette al centro la vicenda della cameriera india Cleo inserendola in quella della rottura della famiglia borghese presso cui presta servizio, originata dall'abbandono del padre. Cleo viene messa incinta e abbandonata da un giovane cialtrone maniaco delle arti marziali, che finirà a far parte delle squadracce governative partecipando al massacro del Corpus Christi del 1971 (il Cile e l'Argentina, di cui sappiamo tanto, sono anticipati da questo semisconosciuto Messico dei presidenti Diaz Ordaz ed Echeverria).
Abile artigiano, Cuarón si caratterizza per la capacità di messa in scena ravvivata da piccole intelligenti invenzioni. Grazie a queste l'ingegnosa rilettura di Grandi speranze spostato nell'America contemporanea convince sopravvivendo a difetti come l'overacting di Anne Bancroft. Oppure va citata la sua svolta in senso noir, con sottolineature horror, della saga di Harry Potter, che fin dal mutamento di Hogwarts in senso freddo, “polanskiano”, apre alla cupezza che caratterizza gli episodi successivi del ciclo. Di notevole vivezza è poi il plausibile mix di realtà presente e deformazione futura con cui I figli degli uomini dipinge un'Inghilterra fascistizzata in un mondo divenuto sterile.
Le vicende di Roma si svolgono in un Messico catastrofico: le scosse di terremoto, il terrorismo governativo, la guerra tra proprietari e contadini (l'incendio del bosco). A livello più immediato il film è costellato di immagini infauste: il freddo lastricato disseminato disseminato delle merde del cane Borras, la villa degli amici di famiglia con le pareti piene di teste di cane imbalsamate, il bambino che “ricorda” le sue cupe vite precedenti. E naturalmente presagi: messi in scena a volte in modo un po' meccanico, come il bicchiere che cade e s'infrange dopo un brindisi di buon augurio per il parto di Cleo, a volte meno artificioso, come quando il rischiato annegamento di due dei bambini è preannunciato da una frase del fratellino su una sua vita passata.
Con Del Toro, Iñárritu, Rodriguez (texano ma di famiglia messicana), Alfonso Cuarón appartiene a quell'ondata messicana che ha lasciato il suo segno a Hollywood. Fotografato dallo stesso regista in un netto b/n, Roma è il suo ritorno al Messico. La sua calma apparentemente fredda (ma non lo è) corrisponde all'atteggiamento del narratore onnisciente in questo fluire, che senza essere un capolavoro non passa senza lasciare un segno nello spettatore.


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