Stalin morì
improvvisamente, a inizio marzo 1953, e i suoi cortigiani, fra cui
Nikita Chruščëv, non ebbero il tempo di respirare di sollievo per
essere scampati ai capricci del tiranno che già dovettero cominciare
a tramare in una guerra sotterranea per conservare il potere – e
probabilmente la vita.
Come potremmo definire
in termini di genere il notevole Morto Stalin se ne fa un altro
(The Death of Stalin) dello scozzese Armando Iannucci, che
narra con forte vis satirica questa cupa vicenda? Non è
propriamente una commedia perché non c'è una torsione comica del plot, al di là di pochi tratti personali; non è un dramma perché
si ride di gusto, in mezzo all'orgia shakespeariana di complotti e di
sangue.
E' un dramma storico –
in cui i colori lividi e il carattere outré creano il
sentimento del grottesco. E il denudamento impietoso della
mediocrità umana (tutti questi dirigenti sovietici rappresentando
diverse sfaccettature della bassezza) crea la classica condizione
ironica propria della commedia: ovvero, il personaggio è più in
basso dello spettatore. Impossibilitati all'empatia, se non nel senso
assai generico per cui in ogni uomo si vede l'uomo, noi li guardiamo
dall'alto come osserveremmo una lotta di formiche in un
formicaio. Da ciò nasce un riso impietoso, che senza negarsi la
consapevolezza della condizione umana mantiene un carattere di
visione distaccata. Perché questi dirigenti sovietici sono “anime
morte” consapevoli di esserlo; così è comprensibile la battuta di
Chruščëv sulla religione: “Chi sano di mente vorrebbe una cazzo
di vita eterna?”
“Commedia grottesca”
potrebbe dunque essere la risposta corretta al nostro interrogativo
sulla definizione. Purché si abbia a mente che il grottesco qui non
è solo dell'invenzione ma è elemento costituente dei fatti e
dell'ambiente presi in esame.
Il
fatto che nel film uno dei personaggi più divertenti, Molotov, sia
interpretato da Michael Palin fa scoccare un inevitabile
cortocircuito tra Morto Stalin...
e il cinema di sublime ilarità e cattiveria dei Monty Python. E
infatti l'URSS della fine del regno di Stalin e dei complotti per la
successione è un mondo non solo crudele e perverso ma
intrinsecamente folle: degno dei Monty Python appunto. O di Alfred
Jarry: il gruppo dirigente comunista ben delineato nel film è un Ubu
Roi collettivo. Il cuore dell'epoca culminante e finale del
totalitarismo staliniano è (come per qualsiasi basso impero) la
giostra di un clan di pagliacci sanguinari, che complottano sottovoce
anche mentre reggono la bara al funerale. Più
che deliziosi i loro riferimenti al cinema americano (battute che si vorrebbero
citare tutte se non fosse peggio di uno spoiler), e sembrerebbe che
questi assassini fossero tutto cinefili, anzi cinéphiles,
linea Cahiers du Cinéma
in anticipo: e quindi, registi e attori americani citati come miti
incarnati. Storicamente, cinefilo a suo modo Stalin lo era; è
vero il suo gusto per i western americani, e verissimo il suo piacere
sadico di costringere i suoi sodali-servi a vederseli alle quattro di
notte...
Continuamente
contrapposta alla commedia dei dirigenti è la cieca ferocia della
NKVD, la polizia segreta (“Spara prima a lei ma fa in modo che lui
guardi”): è un mondo dove la folgore colpisce a caso. Solo il
grande Otar Iosseliani ha mostrato così bene questo cuore
di tenebra del comunismo, in
Briganti.
Indimenticabili le scene nella sede della NKVD, dove risuonano di
continuo i “Viva Stalin!” seguiti da uno sparo (si usa sempre il
termine fucilare, ma nell'URSS di Stalin il sistema di esecuzione era
un colpo di pistola in testa).
Questa
eccellente realizzazione drammaturgica si fonda su una messa in scena
davvero di rilievo. Un solo difetto
– ma è molto grave: le scritte in inglese su cartelli, segnali,
corone funebri. Questa imperdonabile goffaggine rovina l'accuratezza
di una messa in scena accurata, ed è come i leggendari orologi al
polso dei legionari romani nei film peplum.
E
si fonda, il film, su una serie di gustosissime interpretazioni.
Steve Buscemi ruba la scena come Chruščëv, ma vanno menzionati
almeno Simon Russell Beale, il terribile Berija, Jeffrey Tambor,
l'aspirante erede Malenkov, e Jason Isaacs, uno Žukov poco
somigliante ma delizioso.
Nel
film, la storia della successione a Stalin e dell'eliminazione di
Berija è concentrata sul piano temporale rispetto alla realtà
storica: tutto si svolge in pochi giorni, laddove Stalin morì a
inizio marzo e Berija fu eliminato in luglio. Ma un film non è un
manuale di storia. Sul piano intellettuale, Malenkov non era stupido
e ridicolo com'è qui ritratto; su quello personale, Molotov non era
così sorridente e cordiale. A differenza che nel film, Molotov
sapeva di essere nel mirino di Stalin, con Mikojan, da mesi: da
quando il dittatore, a sorpresa, lo aveva attaccato violentemente
alla prima riunione del nuovo Comitato Centrale nel 1952.
Soprattutto, Berija, un mostro umano sadico e stupratore, perse il
potere e la vita non solo perché i suoi compagni e complici lo
temevano ma perché aveva avviato (ironia della storia!) una politica
troppo riformista per i loro gusti.
La
cosa divertente è che lo spettatore non esperto prenderà magari per
realtà storica alcune semplificazioni satirico-letterarie (vedi
sopra) e per invenzione satirica alcuni dettagli pazzeschi che invece
sono pura verità. Cito solo Polina Molotova, la moglie di Molotov,
fatta arrestare e torturare da Stalin, che appena liberata scoppia a
piangere sentendo la notizia della sua morte; o i conati di vomito
nel water di Chruščëv per la rabbia e la tensione delle serate con
il tiranno (non era l'unico, racconta nelle sue memorie). Com'è
autentica la storia di Stalin che giace morente nel suo piscio mentre
i dirigenti sovietici si consultano su cosa fare.
Come
ci ricordano le didascalie finali, in seguito le epurazioni
continueranno, benché senza spargimento di sangue nel gruppo
dirigente; e alla fine anche Chruščëv cadrà. Seduto dietro di lui
a un concerto, nel finale del film, un giovane Brežnev lo guarda
come il gatto guarda il topo.
Nei titoli di coda, si
moltiplicano i visi cancellati; prima quelli degli epurati, com'era
d'obbligo nell'universo sovietico, dove dalle foto svanivano certi
visi, come fantasmi al contrario; e poi sempre più, finché non
spariscono tutti, anche quelli delle persone nella folla con in mano
la foto di Stalin e anche quello di Stalin stesso nella foto. Questa
folla kafkiana di uomini senza volto è il lascito del film.
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