giovedì 1 marzo 2018

Il filo nascosto

Paul Thomas Anderson


Cosa succede quando due ossessioni si incontrano?
Il pas de deux sull'orlo dell'inferno è l'argomento preferito di Paul Thomas Anderson, e ritorna nel bellissimo Il filo nascosto. Ma prima di continuare devo avvertire che la questa recensione dà per scontata la visione del film: spoiler alert!
Siamo a Londra negli anni '50: Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è un sarto d'alta moda, anzi, è il guru dell'alta moda per l'aristocrazia (occorre ricordare che la figura del guru ha sempre affascinato Anderson?). Il perfezionismo nel suo lavoro si rispecchia nel perfezionismo intransigente della sua vita privata; narcisista integrale, Reynolds esprime la sua ossessione del controllo attraverso una puntigliosità maniacale, uno sdegno dandystico e una chiusura all'emozione: belligerante, ostentata, silenziosamente gridata. All'inizio lo sentiamo definire “most demanding”, e in seguito “too fussy”. Ma purtroppo per lui al potere decisionale assoluto dell'alta sartoria (disegnare, misurare, cucire!) non corrisponde un analogo potere decisionale sulla propria vita. L'illusione del dandysmo mostra qui il suo lato donchisciottesco.
Entra in scena Alma (Vicky Krieps), ex cameriera, che diventa collaboratrice e amante (nota peraltro che in tutto il film è rimarchevole l'assenza descrittiva dell'elemento sessuale). Alma è insinuante, educata, sottomessa, dialettica – e ancora più spietata del suo Pigmalione. In un film che è una specie di moto perpetuo, tutto un movimento incessante e tormentoso, andare e tornare, salire e scendere (meravigliose nella loro semplicità le immagini della scala), fare e disfare – come se tutto fosse senza senso – assistiamo alla silenziosa guerra fra i due contendenti per un unico obiettivo: il corpo e lo spirito di Reynolds: una guerra per il controllo.
Lei si fa complice e consigliera del suo dandysmo: vedi l'episodio dell'abito tolto di dosso mentre dorme ubriaca a una cliente che “non lo merita”. Ma ha, come ormai si dice anche in italiano, una propria agenda: un mix di amore possessivo e di aspirazione a una vita “coniugale” borghese fondata sul dominio. Il che, naturalmente, è anatema per l'egocentrismo di Reynolds. E' quasi dolorosa a vedersi una sequenza sul fallimento del tentativo di Alma di preparargli una cena intima a sorpresa, che lui qualifica di “agguato”. Giammai, però, l'ex cameriera si accontenterebbe di vivere di luce riflessa in attesa che il piccolo dio si stanchi di lei e se ne liberi come suol fare con le amanti decadute. Così Alma diventa un'avvelenatrice di schietto stampo hitchcockiano e per due volte lo intossica con funghi velenosi: non per ucciderlo, ma per ridurlo in proprio potere (ciò non le impedisce di prendere in considerazione l'eventualità che lui “se ne vada”). Memorabile il modo in cui la pone: “Ha bisogno di una pausa”. A suo modo questo è amore; folle e perverso ma amore; anche se è amor sui attraverso l'amore dell'altro (ecco un dubbio poco piacevole: l'amore non sarà sempre così?). E', questa, una canzone che Anderson ci ha cantato spesso nel suo cinema.
Il film incrocia meravigliosamente Hitchcock e Truffaut – la lenta organizzazione hitchcockiana dell'atto criminale, dove la competenza degli spettatori è maggiore di quella del personaggio, e l'autosacrificio erotico-masochistico de La mia droga si chiama Julie, dove il personaggio sorpassa e sorprende gli spettatori.
Perché il rovesciamento sconvolgente è che Reynolds a questo amore venefico cede. Dopo il primo avvelenamento, ancora ignaro, chiede ad Alma di sposarlo; dopo il secondo, pur ben consapevole, si arrende a lei mangiando volontariamente un boccone dell'omelette di funghi che lei ha preparato (“Bacciami, bambina, prima che cominci a sentirmi male”). La sequenza, basata su un sublime gioco di primissimi piani, in cui Alma prepara i funghi velenosi e lui li mangia mostrando di aver capito perfettamente (il suo sorriso, la forchetta puntata!) è assolutamente magistrale.
Tuttavia non c'è nel film di Anderson alcuna traccia del romanticismo e dell'amour fou di Truffaut. La macchina da presa di Anderson è fredda. In questa storia L'amour fou non esiste proprio, o solo nel significato diretto delle parole, come amore folle, depurato di tutto il suo apparato mitico. E' un film di crudeltà polanskiana, se vogliamo aggiungere un altro riferimento; ma si potrebbe menzionare anche il cinema “entomologico” di Luis Buñuel.
Diverso è il motivo per questa resa. La perdita di autonomia di Reynolds, ottenuta da Alma tramite l'avvelenamento (“Io ti voglio completamente inerme”), è un ritorno allo stato di bambino. Sull'infantilismo sotteso alla figura di Reynolds il film insiste molto; infine vediamo che in Alma lui ritrova la madre perduta, di cui ha continuato, diceva, a sentirsi accanto la presenza (nota che ha anche cercato di crearsi una vice-madre nella troppo fredda e pragmatica sorella Cyril).
In una scena fondamentale Reynolds, sofferente e febbricitante nella sua camera dopo il primo avvelenamento, vede nel delirio la madre stessa nel suo vestito da sposa, muta e immobile contro la parete, e le confessa che pensa sempre a lei; entra Alma, e abbiamo un attimo di compresenza della donna reale e di quella fantasmatica; poi uno stacco mostra Alma inquadrata da vicino, e quando vediamo di nuovo la stanza, c'è solo Alma e la donna fantasma è sparita – ma più che scacciarla Alma l'ha fagocitata.
Tutti gli spettatori avranno colto il piccolo inner joke di dare alla protagonista Alma un nome che ci riporta subito per associazione d'idee a uno dei due numi tutelari del film. Ma al di là di questo, Alma significa nutritrice (alma mater) – ed è importante ricordare la sua prima apparizione come cameriera in un locale, alla quale Reynolds ordina una prima colazione incredibilmente abbondante, tanto che lei lo soprannomina “the hungry boy” (il mangiare è uno dei fili rossi del film, dove fra l'altro Alma irrita Reynolds facendo troppo rumore durante la colazione, con un bel “primo piano sonoro” che ci ricorda come la cura estrema del suono sia un'altra caratteristica del cinema di Anderson). Lo scherzo diventa nerissimo quando vediamo l'uso che fa Alma dei funghi: nutritrice, certo, ma di veleno.
Attraverso il quale però ella afferma il suo status di madre: cioè la nutritrice per eccellenza, la creatura che ha il controllo; si realizza quel ritorno all'utero cui Reynolds oscuramente aspirava (ultime parole del film: “Comincio ad avere fame”). Poiché Alma diventa la madre, ha senso che nelle ultime immagini compaia con un attributo per eccellenza della maternità quale la carrozzina.
E' un cortocircuito logico, tutto ciò, perverso e malato, che ci dice molte cose – non cose che ci piaccia sentire, si capisce – sulla guerra segreta dell'amore.

Nessun commento: