Cosa succede quando due
ossessioni si incontrano?
Il
pas de deux sull'orlo
dell'inferno
è l'argomento preferito di Paul Thomas Anderson, e ritorna nel
bellissimo Il filo nascosto.
Ma prima di continuare devo avvertire che la questa recensione dà
per scontata
la visione del film: spoiler
alert!
Siamo
a Londra negli anni '50: Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è un
sarto d'alta moda, anzi, è il guru dell'alta moda per l'aristocrazia
(occorre ricordare che la figura del guru ha sempre affascinato
Anderson?). Il perfezionismo nel suo lavoro si rispecchia nel
perfezionismo intransigente della sua vita privata; narcisista
integrale, Reynolds esprime la sua ossessione
del controllo
attraverso una puntigliosità maniacale, uno sdegno dandystico e una
chiusura all'emozione: belligerante, ostentata, silenziosamente
gridata. All'inizio lo sentiamo definire “most
demanding”, e in
seguito “too
fussy”. Ma
purtroppo per lui al potere decisionale assoluto dell'alta
sartoria (disegnare, misurare, cucire!) non corrisponde un analogo
potere decisionale sulla propria vita. L'illusione del dandysmo
mostra qui il suo lato donchisciottesco.
Entra in scena Alma
(Vicky Krieps), ex cameriera, che diventa collaboratrice e amante
(nota peraltro che in tutto il film è rimarchevole l'assenza
descrittiva dell'elemento sessuale). Alma è insinuante, educata,
sottomessa, dialettica – e ancora più spietata del suo Pigmalione.
In un film che è una specie di moto perpetuo, tutto un movimento
incessante e tormentoso, andare e tornare, salire e scendere
(meravigliose nella loro semplicità le immagini della scala), fare e
disfare – come se tutto fosse senza senso – assistiamo alla
silenziosa guerra fra i due contendenti per un unico obiettivo: il
corpo e lo spirito di Reynolds: una guerra per il controllo.
Lei si fa complice e
consigliera del suo dandysmo: vedi l'episodio dell'abito tolto di
dosso mentre dorme ubriaca a una cliente che “non lo merita”. Ma
ha, come ormai si dice anche in italiano, una propria agenda: un mix
di amore possessivo e di aspirazione a una vita “coniugale”
borghese fondata sul dominio. Il che, naturalmente, è anatema per
l'egocentrismo di Reynolds. E' quasi dolorosa a vedersi una sequenza
sul fallimento del tentativo di Alma di preparargli una cena intima a
sorpresa, che lui qualifica di “agguato”. Giammai, però, l'ex
cameriera si accontenterebbe di vivere di luce riflessa in attesa che
il piccolo dio si stanchi di lei e se ne liberi come suol fare con le
amanti decadute. Così Alma diventa un'avvelenatrice di schietto
stampo hitchcockiano e per due volte lo intossica con funghi
velenosi: non per ucciderlo, ma per ridurlo in proprio potere (ciò
non le impedisce di prendere in considerazione l'eventualità che lui
“se ne vada”). Memorabile il modo in cui la pone: “Ha bisogno
di una pausa”. A suo modo questo è amore; folle e perverso ma
amore; anche se è amor sui attraverso l'amore dell'altro
(ecco un dubbio poco piacevole: l'amore non sarà sempre così?). E',
questa, una canzone che Anderson ci ha cantato spesso nel suo cinema.
Il
film incrocia meravigliosamente Hitchcock e Truffaut – la lenta
organizzazione hitchcockiana dell'atto criminale, dove la competenza
degli spettatori è maggiore di quella del personaggio, e
l'autosacrificio erotico-masochistico de La mia droga si
chiama Julie, dove il
personaggio sorpassa e sorprende gli spettatori.
Perché il
rovesciamento sconvolgente è che Reynolds a questo amore venefico
cede. Dopo il primo avvelenamento, ancora ignaro, chiede ad Alma di
sposarlo; dopo il secondo, pur ben consapevole, si arrende a lei
mangiando volontariamente un boccone dell'omelette di funghi che lei
ha preparato (“Bacciami, bambina, prima che cominci a sentirmi
male”). La sequenza, basata su un sublime gioco di primissimi
piani, in cui Alma prepara i funghi velenosi e lui li mangia
mostrando di aver capito perfettamente (il suo sorriso, la forchetta
puntata!) è assolutamente magistrale.
Tuttavia non c'è nel
film di Anderson alcuna traccia del romanticismo e dell'amour
fou di Truffaut. La macchina da presa di Anderson è fredda.
In questa storia L'amour fou non esiste proprio, o solo nel
significato diretto delle parole, come amore folle, depurato di tutto
il suo apparato mitico. E' un film di crudeltà polanskiana, se
vogliamo aggiungere un altro riferimento; ma si potrebbe menzionare
anche il cinema “entomologico” di Luis Buñuel.
Diverso è il motivo
per questa resa. La perdita di autonomia di Reynolds, ottenuta da
Alma tramite l'avvelenamento (“Io ti voglio completamente inerme”),
è un ritorno allo stato di bambino. Sull'infantilismo sotteso alla
figura di Reynolds il film insiste molto; infine vediamo che in Alma
lui ritrova la madre perduta, di cui ha continuato, diceva, a
sentirsi accanto la presenza (nota che ha anche cercato di crearsi
una vice-madre nella troppo fredda e pragmatica sorella Cyril).
In
una scena fondamentale Reynolds, sofferente e febbricitante nella sua
camera dopo il primo avvelenamento, vede nel delirio la madre stessa
nel suo vestito da sposa, muta e immobile contro la parete, e le
confessa che pensa sempre a lei; entra Alma, e abbiamo un attimo di
compresenza della donna reale e di quella fantasmatica; poi uno
stacco mostra Alma inquadrata da vicino, e quando vediamo di nuovo la
stanza, c'è solo Alma e la donna fantasma è sparita – ma più che
scacciarla Alma l'ha fagocitata.
Tutti
gli spettatori avranno colto il piccolo inner joke
di dare alla protagonista Alma un nome che ci riporta subito per
associazione d'idee a uno dei due numi tutelari del film. Ma al di là
di questo, Alma significa nutritrice (alma mater)
– ed è importante ricordare la sua prima apparizione come
cameriera in un locale, alla quale Reynolds ordina una prima
colazione incredibilmente abbondante, tanto che lei lo soprannomina
“the hungry boy” (il
mangiare è uno dei fili rossi del film, dove fra l'altro Alma
irrita Reynolds facendo troppo rumore durante la colazione, con un
bel “primo piano sonoro” che ci ricorda come la cura estrema del
suono sia un'altra caratteristica del cinema di Anderson). Lo scherzo
diventa nerissimo quando vediamo l'uso che fa Alma dei funghi:
nutritrice, certo, ma di veleno.
Attraverso
il quale però ella afferma il suo status di madre: cioè la
nutritrice per eccellenza, la creatura che ha il controllo; si
realizza quel ritorno all'utero cui Reynolds oscuramente aspirava
(ultime parole del film: “Comincio ad avere fame”). Poiché Alma
diventa la madre, ha senso che nelle ultime immagini compaia con un
attributo per eccellenza della maternità quale la carrozzina.
E'
un cortocircuito logico, tutto ciò, perverso e malato, che ci dice
molte cose – non cose che ci piaccia sentire, si capisce – sulla
guerra segreta dell'amore.
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