Shinoda Ryota (Abe
Hiroshi) è un uomo irresponsabile. 15 anni fa ha vinto un premio letterario col
suo primo e ultimo libro; ora tira avanti come detective privato squattrinato e
gioca d’azzardo. Non ha mai digerito il divorzio dalla moglie Kyoko (Maki Yoko);
è in arretrato con gli alimenti; vede il figlio bambino solo una volta al mese (ma
secondo Kyoko sta solo giocando una volta al mese a fare il padre). In
famiglia, mentre Ryota e la sua sorella maggiore si fanno una guerra
sotterranea, la vecchia madre (Kirin Kiki) sogna che i due ex coniugi si
rimettano insieme. La radio dice che sta arrivando un tifone. Ritratto di famiglia con tempesta (After the Storm).
Quando è uscito il bellissimo
film di Kore-eda Hirokazu – come ogni volta che esce un film giapponese con
tematiche familiari – è regolarmente saltato fuori a livello giornalistico il
nome di Ozu. In realtà Kore-eda non è affatto un prosecutore di Ozu. Semmai, il
regista al quale si può ricondurre la sua opera (com’è riconosciuto nelle sue
interviste) non è Ozu Yasujiro bensì Naruse Mikio: il “quarto grande” del
cinema giapponese classico con Ozu, Mizoguchi e Kurosawa, purtroppo assai meno
conosciuto in Italia.
Basterebbe vedere come in
Ozu il realismo psicologico dei comportamenti si sposa a un elemento di
astrazione, del tutto assente nell’immediatezza di Kore-eda. Cosa ancora più
importante, in Ozu esiste uno sviluppo drammaturgico: la situazione “si carica”
lentamente fino a raggiungere uno o più punti di crisi, dai quali procede lo
sviluppo ulteriore o la conclusione. Invece nel cinema di Kore-eda – come in vari
film della maturità di Naruse – lo sviluppo del racconto tendenzialmente non
procede per punti di crisi ma si immerge tutto nel quieto fluire del tempo. Il
“salto di qualità” senza il quale non si avrebbe un racconto è legato più al momento che al fatto, e cioè più al pesare del tempo e della vita quotidiana nel suo
flusso che ad azioni o accadimenti dirompenti. Un lento agire dei personaggi,
un accumulo di fatti quotidiani; basta pensare, tra i suoi film recenti, al
magnifico Little Sister. In altre
parole, in molte opere (evidentemente non in Nobody Knows, peraltro basato su un fatto di cronaca, né in Father and Son) Kore-eda, sulla scia di
Naruse, elide parzialmente o totalmente l’elemento drammaturgico (preparazione
della crisi/esplosione/dopo crisi) per concentrarsi in un “nocciolo di tempo” che
risulta addirittura solenne.
E infatti: in Ritratto di famiglia con tempesta c’è un
tifone, ma esso non si pone come evento operatore di una svolta drammatica, bensì
come occasione, momento in cui si
incrina una lunga accumulazione cristallizzata di momenti precedenti; e
s’incrina, potremmo dire, non in base a un fatto esterno ma sotto il peso del
tempo stesso. Ovviamente influisce la circostanza specifica di essere riuniti
tutti sotto lo stesso tetto per una notte – ma è una sorta di catalizzatore.
Il valore metaforico del
tifone è evidente; non però come distruzione estrema che preannuncia una
ricostruzione. Dice Kore-eda in un’interessante intervista recente a Chiara
Ugolini (Repubblica TV): dopo il
tifone, erbe e fiori stanno meglio. Se ne fa portavoce nel film la nonna quando
dice che i tifoni le piacciono perché rinfrescano (“fanno piazza pulita” nella
versione italiana). Si potrebbe dire che nel film esiste un concurrere fra il tempo atmosferico e il
tempo esistenziale dei personaggi.
Kore-eda è tutto meno che
un regista dell’incomunicabilità, però è acutamente conscio di come noi
tendiamo a vedere una data faccia negli altri, ed essa è determinata
dalla nostra mistura di emozioni/desideri/frustrazioni/ricordi, alla quale non
rinunciamo come modo di rapportarci al mondo. E nel tempo la dimensione della
durata minaccia di fissare le
percezioni, appunto a causa di quella presenza emotiva con cui ci rapportiamo
all’altro.
Al centro del film c’è la
percezione dolorosa del tempo passato, e di come il tempo modelli le vite in
modo totalmente diverso dai progetti e dai sogni. Il passato pesa sui
personaggi; quello che manca loro, in particolare al protagonista Ryota, è
quell’atteggiamento di consapevolezza nei confronti della vita che Kore-eda
nell’intervista citata chiama “allungare gli arti”. Ritratto è un film costellato di riflessioni sull’amore
(riflessioni in cui le donne sono molto più sagge degli uomini). Vale la pena
di osservare che in uno di questi dialoghi sull’amore – in cui sentiamo che la
maggior parte della gente non lo prova mai ma è un bene per loro – è
impressionante la coincidenza ideale con Bergman.
Alla fine del film i
protagonisti si trovano after the storm.
La tempesta ha ripulito l’aria e molte incrostazioni sono cadute. La
conclusione è aperta – difficile immaginare se questa famiglia separata si
riunirà o se i protagonisti continueranno per la loro strada – ma hanno raggiunto
una nuova comprensione, quell’accettazione dell’esistente che sola permette di
crescere. Assai bene ha fatto la casa di distribuzione, la Tucker Film, a
sottotitolare la canzone che si sente nei titoli di coda, la quale esprime in
modo assai chiaro quest’ambiguità.
A tutto questo si collega
il tema, centrale in Kore-eda e centrale in Ritratto,
del lutto. Poiché accade nella vita che la comunicazione venga interrotta,
accade anche che questa frattura venga resa irreparabile dalla morte. Come in Still Walking, un film del 2008 che ha tali
somiglianze con Ritratto da poterne
essere considerato il gemello (ed è sempre interpretato da Abe Hiroshi, nel
ruolo di un personaggio di nome Ryota, e Kirin Kiki nel ruolo della madre), alla
base del racconto c’è il dolore, la difficoltà di elaborarlo, di relazionarsi
agli esseri umani con questo peso, l’impossibilità di annodare fili spezzati,
emozioni lacerate e non ricomposte (fantasie sul ritorno dei morti, magari in
forma di farfalla, ritornano nel cinema di Kore-eda).
Rimane la dimensione del
ricordo, che per Kore-eda è qualcosa di dannatamente importante (in After Life, un bizzarro e affascinante
film sull’aldilà che è l’opera seconda di Kore-eda, i morti hanno diritto a
portarsi con sé un ricordo solo). Nota che al ricordo si connettono le scene di
preparazione e consumo del cibo che costellano i suoi film (anche Ritratto), rito familiare e sociale: in
Kore-eda il cibo è una categoria dell’esistenza come il bere per Ozu. Il passato
ha colori che nella memoria sono più intensi (i fiori dell’albero di Still Walking!) – ma è irrevocabile, non
si lascia ricondurre al nostro cambiamento e ai nostri pentimenti. Sebbene
possa accadere, come nel presente film, il miracolo di una scoperta che anni
dopo la morte ridefinisce la percezione del defunto.
Ritratto di famiglia con tempesta è un film carsico. Sotto la distesa e a tratti
ironica descrizione della quotidianità, la prima storia sottesa riguarda il rapporto
sia della madre sia dei figli col padre morto; la seconda racconta il rapporto
di Ryota con la moglie quand’erano sposati. Sono legate, le due storie, dalla
somiglianza di carattere – quasi un’identità – fra il padre e Ryota: cosa che
tutti non si stancano di sottolineare, e non certo per fargli un complimento; mentre
quest’identità avviluppa Ryota, che più lotta contro di essa più ci ricade.
Il film è percorso da un
umorismo delicato, che esplode in gustosi tocchi di comedy nelle scene riguardanti il (disonesto) lavoro di Ryota in
un’agenzia di investigatori privati (il saggio boss è interpretato da quel
grande caratterista giapponese che è Lily Franky). Ma anche nelle scene in cui
Ryota col suo collaboratore Machida sorveglia l’ex moglie e il suo nuovo
fidanzato con le sue tecniche di detective privato il cortocircuito vita-lavoro
produce un effetto comico, non aspro (Kore-eda non è mai aspro) ma venato di un
divertimento agrodolce.
In una scena sublime, nel
bel mezzo di un litigio Ryota e sua sorella si mettono a ridere ricordando i
trucchi della madre per nascondere i risparmi al padre giocatore, ed è un
improvviso momento di fraternità. Il “flauto magico” di Kore-eda è la fluente
assoluta autenticità del suo narrare. Quest’uomo geniale ci immette al centro
delle vite dei suoi personaggi come se fossimo un familiare che è sempre stato
lì; e ammiriamo con un’intima comprensione i piccoli schemi e le piccole
cattiverie delle guerre familiari, le evoluzioni e la persistenza degli
affetti, tutti i dolori e le gioie della realtà quotidiana. Un’avventura sotto
la pioggia diventa emozionante come una spedizione antartica!
1 commento:
E' davvero un film bellissimo come tutti quelli del regista, da cui non sai se aspettarti il sorriso o la tragedia, e in cui tutto nasce da un'osservazione profonda della realtà.
E poi c'è quella sequenza di sintesi finale, aperta a un futuro ignoto, con quel dettaglio degli ombrelli distrutti dopo il nubifragio.
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