C’è una battuta di
importanza capitale in Every Thing Will
Be Fine (Ritorno alla vita) di
Wenders quando, nella hall a un concerto, Sara, l’ex compagna del protagonista
(che lo guardava da un palco in platea), osserva: “Ti siedi ancora vicino
all’uscita come una volta”. Sì, lo scrittore di successo Tomas (James Franco) è
proprio un tipo così: quello che si siede sempre vicino all’uscita. Every Thing Will Be Fine si potrebbe definire sommariamente come
una storia di colpa e redenzione - chiarendo che la colpa qui non è un fatto oggettivo
ma una durezza dell’anima.
Il fatto concreto è un
incidente inevitabile: guidando nella neve Tomas investe accidentalmente due imprudenti
fratellini in slitta, dei quali uno muore. Nessuno, nemmeno la loro madre
single, gliene addebita la responsabilità; tuttavia il senso di colpa resta;
perché se uccidi un bambino ti senti tragicamente colpevole anche se sei
innocente. Tuttavia Tomas rifugge da questo senso di colpa riconoscendolo a
livello razionale (sul momento mette anche in atto un tentativo di suicidio
“dimostrativo”) e insieme indurendosi a livello emotivo; e il film racconta del
suo recupero (in Wenders la dialettica è sempre tra la fuga e il ritorno).
Un avvenimento che accade
anni dopo è indicativo: al luna park (meraviglioso come in questa scena Wenders
fa passare il mood dall’allegria
festiva alla minaccia) un incidente di cui sono testimoni spaventa Tomas, la sua
nuova compagna Ann e la figlia di questa. Tornati a casa, Ann gli dice: “Non
c’è niente che riesca a scalfirti?” – e ne nasce un “litigio freddo” con una
discussione molto wendersiana sulle mani che tremano o no. Gli attimi in cui il
mondo traumaticamente cambia dovrebbero cambiare anche noi. Ma noi facciamo
resistenza al cambiamento; non è che non lo viviamo, ma lo nascondiamo a noi
stessi e agli altri (per quale miracolo della forza di volontà, o per quale
vischiosità del sentire, le nostre mani non tremano quando dovrebbero tremare?)
La realtà è che Tomas è
un lontano discendente dello scrittore Wilhelm di Falso movimento. Senza nemmeno rendersene conto, fagocita le
emozioni per trasferirle sulla pagina bianca; non per nulla gli viene osservato
nel corso del film che i libri scritti dopo il suo incidente sono migliori; e in
questo trasferimento è come se si assolvesse dall’obbligo del tremore. Sente la tragedia intellettualmente
ma non più nelle fibre; lascia che il tempo la ottunda. Ancora alcuni anni dopo,
l’incontro casuale con Sara (che era la sua compagna al tempo dell’incidente e
che lui ha lasciato) lo conferma. Lo schiaffo improvviso di Sara ci ricorda che
il male che uno ha fatto rimane comunque, per quanto uno possa cambiare e
magari pentirsi (“Pensavo solo a me allora”. Il cinema di Wenders è pieno di
queste figure).
Come si sarà capito, il film
si dilata “nel corso del tempo”, qualcosa che Wenders ama molto, con salti ora
di due anni, ora di quattro, che seguono la vita di Tomas, col passaggio da
Sara ad Ann e il suo formarsi una famiglia, visto che Ann ha una figlia bambina
(adorabilmente saputella, Mina è uno dei personaggi più brillanti del film). Contestualmente
il film segue la vita di Kate, la madre del bambino ucciso, e di suo figlio
Christopher. I due, Tomas e Kate, condividono in una sequenza magica un momento
di commozione e ricordo (in questa scena la vecchia strip di foto che Tomas osserva
è una reminiscenza di Alice nelle città);
ma poi non si vedranno più. Fra le righe, c’è un accenno alla più grave e
profonda delle questioni religiose occidentali: la teodicea: qual è il senso
del dolore e del male?
Si potrebbe osservare che
la narrazione parte in modo un po’ incerto; ma poi Every Thing Will Be Fine prende ala e cresce costantemente. E’ anche un film sulla paternità mancata,
altro tema wendersiano; Tomas non può avere figli (fisicamente e metaforicamente);
anche la figliastra Mina gli ricorda - senza polemica - che lui non è suo padre;
quando poi a Tomas è richiesto di assumere una funzione di aiuto e consiglio (cioè
paterna) verso Christopher cresciuto, aspirante scrittore anche lui, si sottrae
miserabilmente al suo compito. La vendetta di Christopher innesta una sequenza
che dal punto di vista del linguaggio cinematografico si può definire solo
magistrale, quando la famiglia torna a casa e trova una finestra aperta: parlo
dello stupefacente senso di minaccia reso con piccolissimi carrelli da destra a
sinistra e viceversa.
Imprevedibilmente (considerata
la personalità di Tomas) il film si rivela un percorso di ricrescita. Nello
svolgimento come possibilità e nella conclusione come possibilità concretizzata,
con quell’abbraccio finale (e quei due primissimi piani, contrapposti,
illuminati dal sole in faccia!) ritroviamo quella pietas, quel senso doloroso della fratellanza umana - in Italia
potremmo dire leopardiano – che è un tratto base di Wenders, e di cui è
manifesto Il cielo sopra Berlino col
suo sequel. E’ come se accanto a Thomas e Kate ci fosse - invisibile stavolta a
noi come a loro - uno degli angeli di quel film.
Inutile dilungarsi sulla
bellezza dell’aspetto visuale (che nel buon cinema è sempre consustanziale al narrativo);
dalla scena di minaccia citata al modo eccellente di risolvere una
conversazione telefonica, a un movimento in dolly che rivela il panorama urbano
attraverso la finestra di un grattacielo. Sono stati diffusamente segnalati i
riferimenti visuali ad Andrew Wyeth; vorrei menzionare anche quelli a Edward
Hopper nella scena del dialogo al bar con Christopher. Ma su un punto è
obbligatorio soffermarsi, ed è l’uso del 3D.
Nonostante il nome, non è
esatto dire il 3D dia la sensazione della tridimensionalità. Quello che fa è di
scomporre i piani, aumentando la distanza fra il primo piano e il fondo; c’è
un’illusione di profondità ma al costo di un effetto di schiacciatura che solitamente
è più spiacevole che altro; e serve soprattutto a lanciare oggetti contro lo
spettatore.
Invece Wenders, il
direttore della fotografia Benoît Debie e la director of stereography Josephine Derobe comprendono bene la
natura del 3D e lo hanno portato a un livello eccellente, almeno per lo state of the art. Wenders ha capito
l’importanza delle linee oblique come congiunzione psicologica per connettere
il primo piano e il fondo, e allora ecco oggetti nella posizione adatta, oppure
strade e vialetti con pilastri e steccati che formano una linea obliqua. Nonché,
naturalmente, un’abile scansione dei piani, o al contrario un’apertura senza
limiti che eliminano propriamente quell’effetto di schiacciatura. Anche se non
si può dire che i difetti siano sempre eliminati (penso alla bruttezza, verso
l’inizio del film, di un primo piano in auto con un normalissimo gioco di messa
a fuoco che il 3D rende irreale), comunque Every
Thing Will Be Fine è un passo avanti su questo terreno scivoloso.
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