Nota:
questo breve saggio fu pubblicato su L'Indice,
periodico d'informazione libraria della Libreria Rinascita di Udine, nel lontano
1982. Lo stile è alquanto datato (al pari naturalmente dei
riferimenti bibliografici) ma forse mantiene ancora qualche
interesse...? Ringrazio l'amico Alberto Burgos, patron
di quell'antica e non dimenticata libreria, per averlo mantenuto in
vita sul suo sito www.sitocomunista.it
G.Pl.
Nella
fortunata serie degli Omnibus gialli (una delle migliori collane
Mondadori) uscì anni fa un'antologia, Delitti
in codice,
dove l'elemento unificante delle varie storie era l'esistenza di un
cifrario da decodificare: la filastrocca dei negretti di Agatha
Christie, i "pupazzi ballerini" di A. Conan Doyle, il
cruciverba di un piacevole racconto di Dorothy Sayers.
Ma
si potrebbe osservare: non c'è qui una ridondanza? Il romanzo
poliziesco non è già,
nella sua essenza, un messaggio cifrato da decodificare? Lasciando da
parte le categorie del suspense
e del thriller,
il giallo classico (o "inglese") ha come protagonista
l'indizio. Su questo brandello di realtà il romanzo cala una luce
accecante (e inquietante, perché gli oggetti assumono centralità
narrativa, molto prima del nouveau
roman).
L'investigatore collega queste unità significanti. Li trae dal loro
mutismo, li inserisce in un contesto, distingue ciò che è segno
da ciò che è solo rumore.
Li decodifica
e legge quello che sta dietro. Ecco la detection.
Segue,
ordinariamente, la morte del colpevole, implicita in ogni arresto,
che fa da pendant
all'uccisione iniziale: ma non credo sia da vedere in ciò un'enfasi
moralistica, quanto un'esigenza di equilibrio strutturale. A ben
pensarci, l'assassinio iniziale è inutile:
nel senso che il crimine serve a innestare la detection,
non la detection
a punire il crimine; il giallo è una macchina che trova il suo
significato in se stessa e non in un'esigenza morale.
In
un'ottima antologia di saggi sul giallo (La
trama del delitto,
a cura di R. Cremante e L. Rambelli, Pratiche, 1980), Maxime
Chastaing pone una domanda intelligentissima: visto che spesso il
detective
propone varie soluzioni sbagliate prima di quella giusta, chi ci
garantisce che l'ultima
spiegazione sia tale? "Tutti
i romanzi polizieschi ... non saranno, in realtà, romanzi di errori
giudiziari"?
Possiamo rispondere: la garanzia è nella parola "fine" in
fondo alla pagina. Se Sherlock Holmes fosse vivo, bisognerebbe
diffidarne: ma il giallo gira
a
vuoto per
il mio piacere (non mi interessa la giustizia, mi interessa la
spiegazione). Così, l'assassino di The
Door
(L'incubo),
di R. M. Rinehart, svelato addirittura nella penultima riga, è
quello,
ma se il romanzo avesse un capitolo supplementare, un supplemento
d'indagine, un altro nome, l'assassino di The
Door
sarebbe quest'ultimo. E compatibilmente con le capacità dell'autore
la macchina potrebbe girare all'infinito: c'è anche lo scaffale dei
gialli nella borgesiana Biblioteca di Babele.
Si
può quindi capire come l'identità dell'assassino venga ad
essere, in fondo, un problema minore. Particolarmente accentuato mi
sembra questo tratto in vari romanzi di Rex Stout, dove Nero Wolfe
scopre a metà romanzo che X, Y e Z avevano occasione e movente per
uccidere e scopre alla fine un testimone che dichiara "a entrare
nella casa è stato X". Avesse Stout scritto un altro nome,
avremmo avuto un altro assassino; né credo sia da vedersi in ciò un
difetto. Semplicemente, per Stout la descrizione di un ambiente e di
un linguaggio assume una tale centralità che l'inutilità
dell'assassinato finisce per prolungarsi nell'inutilità
dell'assassino. Il delitto nel giallo è - giustamente - un colpo
di pistola: serve solo a far partire la corsa.
Ora,
la centralità dell'indizio portò i primi teorici del giallo a
formulare la teoria del fair
play:
il lettore deve avere le stesse possibilità dell'investigatore. Ma
ahimè, il gioco si guastò quasi subito. Invece di contare gli
indizi e riempire il libro di sottolineature in rosso, il lettore
trovava più conveniente spiare tra le righe l'autore al lavoro. Se
questo personaggio è sospetto vuoi dire che l'autore lo intende
innocente, a meno che non voglia farci ragionare proprio in questo
modo... Questa eterodossa detection
privata da ottimi risultati: è più difficile inventare un
personaggio ambiguo che un delitto perfetto; l'autore è sempre meno
astuto delle sue trame: la letteratura ha meno mezzi del delitto.
Ma c'è di peggio. L'enfasi sull'indizio porta al determinismo assoluto: "postulato del romanzo poliziesco è, infatti, che la contingenza non esiste, in qualunque forma si presenti: coincidenza, caso, decisione o pentimento" (Thomas Narcejac, Il romanzo poliziesco, Garzanti, 1976). E il determinismo assoluto si rovescia in surrealismo. Ogni frammento di realtà diventa (minacciosamente) significante: si può paragonare il principio del giallo con quello delle nevrosi ossessive.
Ma c'è di peggio. L'enfasi sull'indizio porta al determinismo assoluto: "postulato del romanzo poliziesco è, infatti, che la contingenza non esiste, in qualunque forma si presenti: coincidenza, caso, decisione o pentimento" (Thomas Narcejac, Il romanzo poliziesco, Garzanti, 1976). E il determinismo assoluto si rovescia in surrealismo. Ogni frammento di realtà diventa (minacciosamente) significante: si può paragonare il principio del giallo con quello delle nevrosi ossessive.
Ed
ecco allora che il quieto e razionale poliziesco si ribalta in
delirio.
L'incubo della razionalità totale: nel romanzo poliziesco classico
l'ordo
rerum
coincide con l'ordo
idearum.
Contro questa pretesa si scagliava a testa bassa Raymond Chandler nel
suo saggio La
semplice arte del delitto:
ma la sua argomentazione (tutto ciò è privo di senso, in un'ottica
realistica) sfondava una porta aperta. Il realismo non ha a vedere
col romanzo poliziesco più di quanto abbia a vedere con Alice
nel paese delle meraviglie.
Vale la pena di riferire che un certo Bertolt Brecht scriveva negli
anni trenta un ottimo saggio sul Kriminalroman,
che alla causalità statistica della vita di ogni giorno sostituisce
"abilmente" una causalità assoluta... che ci aiuta a
pensare (il saggio si può leggere ne La
trama del delitto,
cit.).
Ci
aiuterà sì a pensare, ma l'effetto complessivo è di assoluto
straniamento. Tanto più che una forza interna al giallo spinge
l'autore a enigmi sempre più barocchi. "Gli
autori di romanzi polizieschi hanno abusato della logica, poiché la
deduzione crea sempre effetti di profonda sorpresa e, dato che il
romanzo poliziesco è per eccellenza il romanzo della sorpresa, più
farà sfoggio di ragionamenti, più l'impressione prodotta sarà
profonda"
(Narcejac, Il
romanzo poliziesco,
cit.). Più la sfida è difficile più il merito è grande (poi
c'entra qualcosa anche il fatto di vendere molte copie).
Proprio
in omaggio a questa logica si colloca al centro del poliziesco quel
topos
fondamentale che è il delitto commesso in una camera chiusa
dall'interno. E qui non possiamo non nominare John Dickson Carr: i
cui enigmi portano la ragione fino alle estreme conseguenze, fino a
pervertirla nell'irrazionalità a causa della sua stessa
sottigliezza: spesso, nei romanzi di Carr, la soluzione superstiziosa
e sovrannaturale sembra l'unica possibile, prima di una "spiegazione"
tanto rigorosa quanto contorta (per inciso diremo che Carr ama il
soprannaturale anche perché è congeniale alle sue doti di splendido
pittore di atmosfere, sensazioni, empatie).
È
fin troppo ovvio concludere che la figura del detective
assume una valenza demiurgica. E come no? Noi vediamo nel detective
il Grande Decodificatore. La nostra lettura - il nostro processo di
proiezione e identificazione - è una delega: sbroglia
per me:
riconduci a ordine il caos. Chiediamo al detective
quell'operazione che noi solo con dolore e difficoltà compiamo nella
vita: enucleare dal fluire magmatico dei fenomeni alcune strutture a
cui riferirsi e su cui costruire il proprio rapporto con il non-io.
Qui
- si capisce - viene a distruzione la teoria del fair
play.
Il giallo non esiste per far risolvere un mistero al lettore ma per
fargli assistere alla risoluzione, e goderne: il che è dimostrato
dal fatto che il lettore gode particolarmente degli imbrogli i più
intricati. Il romanzo giallo è lo strutturarsi di un climax
dell'incomprensibile,
che quanto più è estremista tanto più piace: poiché godiamo e del
caos e della sua soluzione. Basta questo per osservare che la lettura
di un giallo è un'operazione sadomasochistica.
Quando
abbiamo parlato dell'ansia di ritagliare nel flusso delle cose i
nostri "assi cartesiani" attraverso l'instaurazione di un
sistema di segni, abbiamo forse trovato il trait
d'union
fra il giallo "inglese" e il suo cugino d'oltre Atlantico:
il giallo americano. Se quest'ultimo spesso si allontana dalla
detection
classica, e più spesso la stravolge, resta tuttavia centrale in esso
il principio della decodifica
di un insieme di segni. Ma non di tracce materiali, bensì di
comportamenti umani. Possiamo dire che il giallo americano usa le
persone come il giallo inglese usa le cose.
Se
ogni giorno noi leggiamo
con fatica i comportamento altrui, cosa accadrà in una situazione
critica, conflittuale? Nei romanzi di un grandissimo autore
americano, Patrick Quentin, i personaggi si scrutano angosciosamente,
isolano nella loro prassi sociale quotidiana dei tratti significanti,
dei sintomi
cercano di indovinare il viso dietro la maschera. È una specie di
angoscia
fenomenologica
che in Quentin si accoppia al carattere pauroso dei "misteri"
per creare un'atmosfera marcatamente onirica. In Cornell Woolrich si
dissolve in una dolorosa denuncia dell'in comprensibilità e ostilità
dell'universo (e sarebbe interessante paragonare la sua opera con
quella di H. P. Lovecraft). In Dashiell Hammett si concretizza in
pittura di genere, in Raymond Chandler parte da una poetica
realistica con ambizioni sociologiche per assumere i toni del
decadentismo (che Jonathan Latimer in The
Lady in the Morgue,
La
dama della Morgue,
estremizzerà fino a livelli archetipici). In Chester Himes approda
al rifiuto di ogni sorta di detection
e fìnanco della struttura narrativa tradizionale.
Se
è permessa una breve digressione, interessante notare come in Mickey
Spillane - autore nel quale la
paura della donna
assume un ruolo determinante - questo problema della vera
entità, delle vere
intenzioni venga enfatizzato appunto nei personaggi femminili. Un
buon esempio è The
Last Cop Out
(Fuori
l'ultimo)
in cui la tematica della simulazione femminile si innesta abilmente
su una struttura estranea e la compenetra fino a determinare la
soluzione, che altrimenti si sarebbe persa in un'impasse.
Ma
torniamo al discorso. Non si vuole ovviamente sostenere che nel
giallo inglese la psicologia dei personaggi sia priva di significato,
bensì che nel giallo inglese esiste un aggancio alla materialità,
alla cosa,
che in fondo condiziona le psicologie. In Agatha Christie l'ambiguità
dei personaggi è statica: si tratta di scoprire chi
sono, cosa hanno fatto,
una volta per tutte. Nel giallo americano è dinamica. Una girandola
di continue modificazioni, per cui a volte - come già accennato - il
romanzo stesso si chiude senza una ricomposizione finale.
È
evidente che nel passaggio dal segno-oggetto al segno-comportamento
si sfalda ogni pretesa di "concretezza della prova". Assai
bene l'ha espresso un Ellery Queen, che, partito da gialli molto
"inglesi", è approdato al culto degli indizi psicologici,
linguistici, antropologici; ai collegamenti per associazione, ai
giochi di parole; tanto da far esclamare a Narcejac (Il
romanzo poliziesco,
cit.): "Ellery
Queen, a suo modo, è un po' l'ultimo dei grandi réthoriqueurs!".
Alla
luce di questa (proposta) distinzione fra decodifica dell'oggetto e
decodifica del comportamento, c'è un'ultima notazione da fare; e
partiremo dalla considerazione un po' ovvia che di solito gli oggetti
stanno fermi mentre la gente va in giro. Se guardiamo pertanto al
disagio
del delitto, possiamo esprimerci in questo modo: il giallo inglese è
claustrofobo, il giallo americano è agorafobo. Il dramma di una
stanza
nel giallo inglese versus
il dramma della città
nel giallo americano.
Pensiamo alla stanza del delitto inglese: "castello", luogo chiuso (camera, giardino privato, club) cui si accede col permesso delle autorità. Lì tende a concentrarsi l'oppressione (ed ecco la mania del detective per il luogo, la paranoia del "dobbiamo esserci"; Sherlock Holmes sapeva a memoria l'elenco dei treni). L'uscita dalla stanza a mistero svelato - come in tanti romanzi di Carr - è un "E quindi uscimmo a riveder le stelle".
Pensiamo alla stanza del delitto inglese: "castello", luogo chiuso (camera, giardino privato, club) cui si accede col permesso delle autorità. Lì tende a concentrarsi l'oppressione (ed ecco la mania del detective per il luogo, la paranoia del "dobbiamo esserci"; Sherlock Holmes sapeva a memoria l'elenco dei treni). L'uscita dalla stanza a mistero svelato - come in tanti romanzi di Carr - è un "E quindi uscimmo a riveder le stelle".
La
stanza del delitto americano è un ambiente, unità nucleare
dell'immenso organismo malato che è la metropoli. Se ne esce, spesso
non ci si torna, perché l'oppressione è mobile, ti accompagna (e
allora ecco gli spostamenti pericolosi, le atmosfere mefitiche di
corruzione estesa che tanto rattristano Philip Marlowe).
Un aspetto umoristico è l'indifferenza di Nero Wolfe per i luoghi del delitto; ma il povero Marlowe non ha altra difesa che serrare la sua cameretta come un fortilizio assediato. E magari anche lì, sotto forma di donna nuda (The Big Sleep, II grande sonno), può intrufolarsi la città.
Un aspetto umoristico è l'indifferenza di Nero Wolfe per i luoghi del delitto; ma il povero Marlowe non ha altra difesa che serrare la sua cameretta come un fortilizio assediato. E magari anche lì, sotto forma di donna nuda (The Big Sleep, II grande sonno), può intrufolarsi la città.
Così,
realizzando in vari gradi di compromesso e negazione i due modelli
teorici, la follia inglese della razionalità totale e l'angoscia
americana dell'incomprensibilità degli altri, il giallo trova una
precaria unità come metafora
della comprensione.
Il detective
introdurrà una certa quantità di ordine là dove c'era il caos
(segni
sperduti senza collare).
E noi a guardarlo. Cosa volete che conti la vita di quattro-cinque
personaggi da avvelenare, strangolare, annegare? "Carne
da stampa",
per usare un'espressione della Mafalda di Quino, essi sono
sacrificabili. Luccichino i coltelli; scorra rosso il sangue;
prosperi il delitto.
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