domenica 29 dicembre 2013

Frozen - Il regno di ghiaccio

Chris Buck e Jennifer Lee

Nonostante l'elemento avventuroso e la grandezza degli sfondi, il notevole cartoon della Disney Frozen – Il regno di ghiaccio è in primo luogo un dramma di contrasti umani. Diretto da Chris Buck e Jennifer Lee, prima donna regista di un lungometraggio Disney (dopo Brenda Chapman, che però abbandonò Ribelle – The Brave cedendolo a Mark Andrews), Frozen è assai liberamente ispirato a La regina delle nevi di Andersen – e infatti The Snow Queen era un precedente (e migliore) titolo di lavorazione.
Il film riprende, più che la storia di Andersen le sue tematiche: il ghiaccio che congela i sentimenti, la separazione, la memoria, il sacrificio; e qui fa scontrare con buoni risultati la malinconia nordica anderseniana e l'ottimismo volontaristico americano. E' ricco di caratterizzazioni e conflitti credibili e di un dialogo molto spiritoso (una tradizione Disney, ma si sente anche l'eredità di decenni di commedia hollywoodiana).
Sappiamo bene che l'irruzione del digitale nel cinema dal vero ne ha cambiato profondamente il senso, mettendo in crisi la concretezza fotografica, praticamente trasformando (qui esagero, ma nel senso giusto) il cinema live in cartone animato. Forse non riflettiamo abbastanza sul rovescio della medaglia: contestualmente, anche il cinema cartoon ha assunto una maggiore impressione soggettiva di realtà, non perché confondiamo i due regimi, ma perché si è attenuata la “percezione dell'abisso ontologico” (pardon my French) fra disegno e realtà. Se questo è vero, adesso più che mai possiamo aspettarci dai disegni psicologie articolate e dialoghi che ne derivino. Del resto, un capolavoro assoluto quale WALL-E ha mostrato un gioco a due degno di Clark Gable e Claudette Colbert fra due protagonisti non solo disegnati ma non umani, meccanici e per di più muti.
Per inciso, non è gratuito citare WALL-E perché alla base di questo film e di Frozen e di quasi tutta la miglior animazione americana sta il genio indiscusso di John Lasseter, il padre della Pixar, che nel presente film è produttore esecutivo; dopo i film rivoluzionari diretti in passato, Lasseter si riserba spesso il ruolo di produttore, ma in questa veste ha un'impronta determinante paragonabile, diciamo, a quella di Val Lewton nella grande stagione degli horror RKO.
Per tornare a Frozen, è stato già segnalato da molti come questo film prosegua la tendenza alla demitizzazione del principe azzurro, che qui si rivela una canaglia (anche se a dire il vero il coup de théâtre si rivela un po' forzato), e come prosegua la linea delle eroine femminili assertive e indipendenti: ne era già il manifesto Ribelle – The Brave, che però aveva per protagonista una ragazzina, mentre Anna è una giovane donna adulta. Si potrebbe aggiungere che alcuni dettagli seppelliscono, qui più che mai, la tradizionale carineria disneyana: l'inquadratura di Anna dormiente con un filo di saliva che le scivola lungo il mento, oppure il riferimento all'odore delle ascelle e addirittura alle pulci del vero destinatario dell'amore, il montanaro Kristoff.
Col pupazzo di neve Olaf si continua la tradizione disneyana del personaggio impacciato e ridicolo (qui, più che impacciato, buffamente innaturale fino al delirio) che si assume il ruolo del côté comico, lontanissimo discendente del fool del teatro elisabettiano – e che in Frozen è molto ben integrato nell'azione anziché limitarsi a un ruolo laterale come nei Disney classici.
Ho insistito sui personaggi, ma il gusto descrittivo con cui sono realizzati gli ambienti (penso per esempio ai dipinti nel palazzo reale) non va sottaciuto; e naturalmente il paesaggio montano - ispirato alla Norvegia – conferisce al film una potenza scenografica, esaltata da “movimenti di macchina” di pura pompa da cinema action. Sulle note di Let It Go, la nascita del palazzo di ghiaccio è una pagina grandiosa.
Frozen riprende la tradizione del cartoon con canzoni (una tradizione Disney, ma non sempre mantenuta) e la sviluppa fino a trasformare il film in un vero musical. E' proprio del musical il modo in cui la canzone d'amore Love Is an Open Door tra Anna e il principe Hans rompe l'unità di luogo rigorosamente mantenuta nel resto del film. Se la più bella è Let It Go, merita una citazione particolare Do You Want to Build a Snowman?: articolata in tre momenti, sul piano narrativo accompagna il riassunto della crescita di Anna separata dalla sorella, mentre su quello musicale è tripartita con fluidità in tre stili diversi, la dolcezza delle canzoni infantili, poi una verve quasi rock per l'adolescenza, poi la solenne tristezza del lutto (la morte dei genitori) per l'età adulta.
Una menzione va alla traduzione italiana delle canzoni, di Lorena Brancucci. Nella gustosa Fixer Upper, la canzone con cui i troll propongono ad Anna di sposare Kristoff, la deliziosa rima fra troll e rock'n'roll è un colpo di genio (ma da ricordare anche quella macho/bacio). Le belle voci italiane sono di Serena Rossi (Anna) e Serena Autieri (Elsa).
Resta da dire una parola sul cortometraggio che precede. Get a Horse! di Lauren MacMullan mette in scena uno pseudo Disney d'annata per poi distruggerlo attraverso giochi metacinematografici uscendo e rientrando “nel film” attraverso lo schermo bucato. Ed è certamente bello – ma non si può non restare dell'opinione che se tutto il breve film fosse rimasto lo pseudo Disney 1928 sarebbe stato ancora meglio.

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