Nonostante
l'elemento avventuroso e la grandezza degli sfondi, il notevole
cartoon della Disney Frozen
– Il regno di ghiaccio
è in primo luogo un dramma di contrasti umani. Diretto da Chris Buck
e Jennifer Lee, prima donna regista di un lungometraggio Disney (dopo
Brenda Chapman, che però abbandonò Ribelle – The Brave
cedendolo a Mark Andrews),
Frozen è assai
liberamente ispirato a La regina delle nevi di
Andersen – e infatti The Snow Queen era
un precedente (e migliore) titolo di lavorazione.
Il
film riprende, più che la storia di Andersen le sue tematiche: il
ghiaccio che congela i sentimenti, la separazione, la memoria, il
sacrificio; e qui fa scontrare con buoni risultati la malinconia
nordica anderseniana e l'ottimismo volontaristico americano. E'
ricco di caratterizzazioni e conflitti credibili e di un dialogo
molto spiritoso (una tradizione Disney, ma si sente anche l'eredità
di decenni di commedia hollywoodiana).
Sappiamo
bene che l'irruzione del digitale nel cinema dal vero ne ha cambiato
profondamente il senso, mettendo in crisi la concretezza fotografica,
praticamente trasformando (qui esagero, ma nel senso giusto) il
cinema live in cartone animato. Forse non riflettiamo
abbastanza sul rovescio della medaglia: contestualmente, anche il
cinema cartoon ha assunto una maggiore impressione soggettiva di
realtà, non perché confondiamo i due regimi, ma perché si è
attenuata la “percezione dell'abisso ontologico” (pardon my
French) fra disegno e realtà. Se questo è vero, adesso più che
mai possiamo aspettarci dai disegni psicologie articolate e dialoghi
che ne derivino. Del resto, un capolavoro assoluto quale WALL-E
ha mostrato un gioco a due degno di Clark Gable e Claudette Colbert
fra due protagonisti non solo disegnati ma non umani, meccanici e per
di più muti.
Per
inciso, non è gratuito citare WALL-E perché alla base di
questo film e di Frozen e di quasi tutta la miglior animazione
americana sta il genio indiscusso di John Lasseter, il padre della
Pixar, che nel presente film è produttore esecutivo; dopo i film
rivoluzionari diretti in passato, Lasseter si riserba spesso il ruolo
di produttore, ma in questa veste ha un'impronta determinante
paragonabile, diciamo, a quella di Val Lewton nella grande stagione
degli horror RKO.
Per
tornare a Frozen, è stato
già segnalato da molti come questo film prosegua la tendenza alla
demitizzazione del principe azzurro, che qui si rivela una canaglia
(anche se a dire il vero il coup de théâtre si
rivela un po' forzato), e come prosegua la linea delle eroine
femminili assertive e indipendenti: ne era già il manifesto Ribelle
– The Brave, che
però aveva per protagonista una ragazzina, mentre Anna è una
giovane donna adulta. Si potrebbe aggiungere che alcuni dettagli
seppelliscono, qui più che mai, la tradizionale carineria disneyana:
l'inquadratura di Anna dormiente con un filo di saliva che le scivola
lungo il mento, oppure il riferimento all'odore delle ascelle e
addirittura alle pulci del vero destinatario dell'amore, il montanaro
Kristoff.
Col
pupazzo di neve Olaf si continua la tradizione disneyana del
personaggio impacciato e ridicolo (qui, più che impacciato,
buffamente innaturale fino al delirio) che si assume il ruolo del
côté comico,
lontanissimo discendente del fool
del teatro elisabettiano – e che in Frozen
è molto ben integrato nell'azione anziché limitarsi a un ruolo
laterale come nei Disney classici.
Ho
insistito sui personaggi, ma il gusto descrittivo con cui sono
realizzati gli ambienti (penso per esempio ai dipinti nel palazzo
reale) non va sottaciuto; e naturalmente il paesaggio montano -
ispirato alla Norvegia – conferisce al film una potenza
scenografica, esaltata da “movimenti di macchina” di pura pompa
da cinema action. Sulle note di Let It Go,
la nascita del palazzo di ghiaccio è una pagina grandiosa.
Frozen
riprende la tradizione del cartoon con canzoni (una tradizione
Disney, ma non sempre mantenuta) e la sviluppa fino a trasformare il
film in un vero musical. E' proprio del musical il modo in cui la
canzone d'amore Love Is an Open Door tra Anna e il principe
Hans rompe l'unità di luogo rigorosamente mantenuta nel resto del
film. Se la più bella è Let It Go, merita una citazione
particolare Do You Want to Build a Snowman?: articolata in tre
momenti, sul piano narrativo accompagna il riassunto della crescita
di Anna separata dalla sorella, mentre su quello musicale è
tripartita con fluidità in tre stili diversi, la dolcezza delle
canzoni infantili, poi una verve quasi rock per l'adolescenza, poi la
solenne tristezza del lutto (la morte dei genitori) per l'età
adulta.
Una
menzione va alla traduzione italiana delle canzoni, di Lorena
Brancucci. Nella gustosa Fixer Upper,
la canzone con cui i troll propongono ad Anna di sposare Kristoff, la
deliziosa rima fra troll e
rock'n'roll è un colpo di genio (ma da ricordare anche
quella macho/bacio).
Le belle voci italiane sono di Serena Rossi (Anna) e Serena Autieri
(Elsa).
Resta
da dire una parola sul cortometraggio che precede. Get
a Horse! di
Lauren MacMullan
mette
in scena uno pseudo Disney d'annata per poi distruggerlo attraverso
giochi metacinematografici uscendo e rientrando “nel film”
attraverso lo schermo bucato. Ed è certamente bello – ma non si
può non restare dell'opinione che se tutto il breve film fosse
rimasto lo pseudo Disney 1928 sarebbe stato ancora meglio.
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