Alfonso Cuaròn
Il
3D di solito è un acchiappa-ingenui inutile; però ne troviamo un
raro caso di uso produttivo in Gravity di Alfonso Cuarón.
Bisogna tener mente al fatto che il 3D non rende realmente la
profondità: allontana il primo piano dal fondo lasciando in mezzo
uno spazio vuoto alquanto irreale. Ma qui questa innaturale
sensazione di distanza produce senso – perché fra la Terra immensa
che si staglia sul fondo e i veicoli spaziali in primo l'immensa
distanza è qualcosa più di fisico: è qualcosa di metafisico,
ossessionante e fatale.
Così
quella separazione, quella specie di apartheid dei piani visuali,
introdotta dal 3D assume un senso concreto e rende drammaticamente
una situazione. Che è quella di Sandra Bullock, sperduta nello
spazio dopo un incidente: uno sciame di frammenti di spazzatura
spaziale distrugge la sua navicella e uccide i suoi compagni (si
salva con lei il suo compagno di missione George Clooney, ma poi deve
sacrificarsi); e sta a lei trovare il modo di tornare a casa.
Sempre
che ne abbia la forza, perché è una donna che ha un vuoto interiore
(la morte anni prima della figlia piccola) e deve trovare la forza di
reagire. Nella tradizione americana dello spazio come ultima
frontiera, la sfida estrema per
salvarsi diventa un percorso di crescita. Il senso della sua
avventura si rinchiude tra due battute, da “Odio lo spazio!”
all'inizio a “In ogni caso... sarà stato un grande viaggio” alla
fine. Molto frequenti nel film sono
le soggettive della protagonista da dentro il casco, con i riflessi e
anche con il dettaglio (pseudo)realistico della visibilità delle
mani in accordo col punto di visita.
Ma
lo spazio diventa appunto un luogo metafisico, dove può accadere
anche di incontrare (in senso soggettivo e allucinatorio) il compagno
morto. Come in Solaris,
lo spazio extraterrestre è il luogo in cui l'inconscio richiama in
vita i morti.
Fin
dal titolo, è una questione di gravità - ovvero della sua assenza.
Gravity rende molto bene il trauma della mancanza di
equilibrio, la perdita dell'ubi consistam, la frustrante
fatica del muoversi, il terrore dell'abbrancarsi agli oggetti
sporgenti mentre si passa volando vicino a una navetta, quando la
forza propulsiva del minimo impulso viene mostruosamente
moltiplicata. Diciamo subito che
questo film non c'entra con 2001: Odissea nello spazio,
se non per il fatto che il secondo episodio di 2001
fornisce alcune suggestioni
visuali, che vengono reinterpretate alla luce della concezione
propria del film (laddove lo spazio di 2001
era pulito, quello di Gravity
è “sporco”, pieno di spazzatura spaziale, popolato di veicoli e
stazioni spaziali morti e decadenti).
Mentre all'interno dei
veicoli spaziali, sempre in assenza di gravità, è tutto un
disordine di piccoli oggetti volanti – e questo suggerisce
un'immagine di grande poesia: le lacrime che si staccano dalle guance
di Sandra Bullock per galleggiare, piccole sfere di liquido,
nell'aria.
Contestualmente
il film rende assai bene il senso di minaccia di questa nera infinità
in cui ci si perde. Perché la nostra Terra è un luogo finito; solo
il mare o il deserto ci danno quell'impressione di infinità, e di
infinita solitudine, che nello spazio è immediatamente presente,
minacciosa e inumana. La logorrea del personaggio di George Clooney
non sarà per caso anche un mezzo
per colmare quest'infinita vuotezza? Gravity
è un film sulla solitudine: la sua protagonista è recisa da ogni
contatto umano (compreso il cordone ombelicale immateriale della voce
della base terrestre, che l'incidente rende muta) – e a questo
punto è di sola di fronte alla vera domanda: vuoi veramente
salvarti? E' interessante che il personaggio sia piuttosto
indisponente quando è in compagnia di George Clooney (anche nella
sua riapparizione fantasmatica), sfiorando la caratterizzazione
stereotipata della damsel in distress
– mentre dà il meglio quando è sola e abbandonata. La solitudine
per lei è la migliore delle cure?
Ed è interessante, in
questo irregolare percorso di salvezza, il passaggio di Sandra
Bullock - nella sua ricerca di salvataggio da un veicolo spaziale
abbandonato a un altro - dagli USA ai russi e dai russi ai cinesi:
come una trasmigrazione della tecnologia fondatrice e salvifica, che
tanti anni fa era per definizione solo occidentale.
E forse si può
collegare a questo il fatto che sia nella stazione russa sia in
quella cinese troviamo dei simboli religiosi a proteggere il posto di
“guida” (rispettivamente un'icona e una statuetta orientale),
mentre di sicuro non ve n'erano nella navetta del nostro occidente
“laico” e tecnicizzato.
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