Eccoci
all'annuale report
sul Far East Film Festival di Udine - sempre magnifico, sebbene
questo non dovrebbe dirlo uno che ci collabora. Solo che - qui devo
permettermi una nota personale - quest'anno a causa di una malattia
non sono riuscito a seguire il festival nella sua interezza, e ho
potuto vedere in modo abbastanza esaustivo soltanto la selezione
giapponese (beh, la migliore). Mettendo insieme le visioni in sala,
le visioni precedenti per le selezioni e qualche recupero
post-festival, cercherò di tracciare un panorama, ma sarà
inevitabilmente più frammentario che negli anni precedenti. Aggiungo
che il festival ha pubblicato un bellissimo volume, a cura di Roger
Garcia, su King Hu, accompagnato da una mini-retrospettiva, e ha reso
omaggio con un film al grande regista filippino Mario O'Hara,
recentemente scomparso.
Il
Giappone
ancora
una volta si rivela la miglior cinematografia asiatica. Anche uno dei
due capolavori assoluti visti al festival è nipponico (A
Story of Yonosuke),
mentre l'altro proviene, lieta sorpresa!, dai territori filmici non
altrettanto appassionanti della Cina continentale (The
Last Supper).
Accanto
al detto A
Story of Yonosuke
di Okita Shuichi (vedi
scheda sotto),
si sono visto altri film eccellenti, come lo sfrenato It's
Me, It's Me
di Miki Satoshi. Il giovane Hitoshi si appropria dell'identità di
un'altra persona per compiere una banale truffa telefonica e questo
atto manda la sua, di identità, fuori dai binari del reale
quotidiano. Hitoshi comincia a incontra molte altre copie di se
stesso, il mondo si “hitoshizza”, ma poi, come in un Highlander
metafisico, i vari Hitoshi si “cancellano” l'un l'altro finché
ne resta uno solo - e la riappropriazione di un'identità frazionata
si lega a una rinascita morale. Miki Satoshi ci ha abituato a questi
film dove la follia cammina a pari passo con un'imperturbabile
logica narrativa, ma è anche la sua abilità di regia a rendere It's
Me, It's Me
un film non solo da vedere ma da studiare.
Sullo
scambio di identità gioca, in forma realistica, anche Key
of Life
di Uchida Kenji. Un altro giovane squattrinato si scambia i documenti
con un tizio dall'aspetto ricco finito in coma per una caduta - senza
sapere che costui è un killer professionista. E il killer si
risveglia senza memoria e crede di essere il poveraccio... Il nome di
Billy Wilder non va speso con facilità, ma questa commedia ha in
effetti un certo sapore wilderiano (immaginatevi Tony Curtis e Walter
Matthau!).
Uno
dei migliori film del festival è I
Have To Buy New Shoes
di Kitagawa Eriko. Storia
di giapponesi a Parigi, è un film intimista, sottilmente malinconico
e sorprendentemente piacevole, con interpretazioni notevoli e un
montaggio secco e preciso. Dialoghi e scene sono di una naturalezza
incantevole - e la Parigi di Kitagawa Eriko è più bella di quella
di Woody Allen!
Ora
dimentichiamo Parigi e spostiamoci nei danchi,
anonimi complessi edilizi di case popolari, nati all'inizio del boom
economico giapponese e poi - almeno a prestar fede al cinema -
decaduti assai. Qui si svolge la vita di Satoru in See
You Tomorrow, Everyone di
Nakamura Yoshihiro. Fin da bambino Satoru ha preso una decisione
(verso metà del film scopriamo perché): non uscire mai dal danchi
in cui abita, e dove fa ronde notturne per assicurarsi che tutto sia
a posto, mentre però i traslochi fanno calare progressivamente la
popolazione. Se prova a uscire dal danchi
comincia a iperventilare e deve rinunciare all'impresa. In fondo,
Satoru è un hikikomori
a livello di quartiere anziché di appartamento. Il film ha un
piacevole svolgimento arguto ma non privo di un côté
toccante.
Ancora
un
danchi,
ma in chiave horror, in The
Complex
di Nakata Hideo, storia di fantasmi ambientata in uno squallido
caseggiato. Non sarà bello quanto Ring
o Dark
Water,
i capolavori dell'autore, ma Nakata ha sempre al suo attivo una
notevole perizia narrativa, nonché una spietatezza (molto giapponese
invero) per cui la conclusione avvicina questo film a Dark
Water
nella logica di un inevitabile sacrificio.
Se
non proprio un triste
danchi,
un quartiere autosufficiente un po' più elegante fa da sfondo alla
vicenda di Maruyama,
the Middle Schooler
del fantasioso regista e sceneggiatore Kudo Kankuro, forse il film
più divertente del festival. Basti dire che è un tuffo a capofitto
dentro la mentalità preadolescenziale, in base alla quale il
giovanissimo Maruyama ha uno scopo nella vita:
farsi una
fellatio
da solo. E questo è il punto saliente di una delirante riflessione
sulla sessualità nascente, i rapporti familiari, le figure paterne
sostitutive, il culto dei supereroi, e più in generale il tentativo
adolescenziale di individuare un ordine nel caos del mondo.
Il
festival non ha trascurato il genere dei jidaigeki
–
i
film
storici con samurai e battaglie – con The
Floating Castle,
diretto dal grande Inudo Isshin (assieme a Higuchi Shinji) con tutto
il suo bizzarro senso dell'umorismo e la sua vivezza di sguardo. Si
tratta di un film piuttosto spiazzante nel panorama usualmente
solenne del genere perché - senza trascurare le scene di
combattimento, i dibattiti sull'onore, il doppio gioco e tutti i
topoi
del caso - si impernia sulla figura di un lord-buffone, Nagachika
(Nomura Mansai), che agisce per vie contorte e imprevedibili (la
fenomenale scena della danza davanti al nemico). L'ascendenza del
film viene direttamente da Kurosawa, come mostra il particolare del
rapporto amichevole, in pratica da pari a pari, fra Nagachika e i
contadini. Infine, menziono di passaggio
il
piacevole ma non decisivo Girls
for Keeps
di Fukagawa Yoshihiro.
Spostiamoci
alla Cina
continentale.
Purtroppo quest'anno ho perduto la maggior parte dei film; ho potuto
vedere l'importantissimo The
Last Supper
di Lu Chuan (vedi
scheda sotto),
ma per esempio, il grande nome di Zhang Yuan segnalava che Beijing
Flickers
non era da mancare.
Ha dei difetti, ma è molto piacevole Design of Death, di Guan Hu, con un memorabile protagonista sorretto da un'ottima interpretazione di Huang Bo, col suo sorriso cavallino alla Fernandel. Accanto all'inutile An Inaccurate Memoir di Yang Shupeng, era deludente Million Dollar Crocodile di Lin Lisheng, un primo esempio cinese di creature movie - sulla carta, perché era ovvio che la censura cinese non ammetterebbe un film in cui una bestia mostruosa fa strage di gente. Così questo film si articola non in termini di dramma sanguinario ma di commedia avventurosa, strano mix di spavento come bluff e buonismo come realtà, con tanto di ragazzino che vorrebbe essere cute. Il coccodrillo gigante (femmina) del titolo spaventa molte persone ma in fin dei conti uccide solo una capra - più il cattivo del film (nientemeno che Lam Suet, spiritosissimo). Curiosità: il titolo è perché il coccodrillo si è mangiato una borsa con 100.000 euro, che l'emigrata di ritorno Barbie Hsu era riuscita a risparmiare in otto anni di lavoro in Italia a fare scarpe (sì, bonasera).
Ha dei difetti, ma è molto piacevole Design of Death, di Guan Hu, con un memorabile protagonista sorretto da un'ottima interpretazione di Huang Bo, col suo sorriso cavallino alla Fernandel. Accanto all'inutile An Inaccurate Memoir di Yang Shupeng, era deludente Million Dollar Crocodile di Lin Lisheng, un primo esempio cinese di creature movie - sulla carta, perché era ovvio che la censura cinese non ammetterebbe un film in cui una bestia mostruosa fa strage di gente. Così questo film si articola non in termini di dramma sanguinario ma di commedia avventurosa, strano mix di spavento come bluff e buonismo come realtà, con tanto di ragazzino che vorrebbe essere cute. Il coccodrillo gigante (femmina) del titolo spaventa molte persone ma in fin dei conti uccide solo una capra - più il cattivo del film (nientemeno che Lam Suet, spiritosissimo). Curiosità: il titolo è perché il coccodrillo si è mangiato una borsa con 100.000 euro, che l'emigrata di ritorno Barbie Hsu era riuscita a risparmiare in otto anni di lavoro in Italia a fare scarpe (sì, bonasera).
Molto
divertente, in compenso, Lost
in Thailand,
prima regia dell'attore comico Xu Zheng, che anche lo interpreta coi
colleghi Wang Baoqiang e Huang Bo. Si è detto: i cinesi hanno
inventato il cinepanettone – e per una volta è vero. Questa
avventura di tre cinesi che tirano a fregarsi (o comunque a
danneggiarsi per stupidità) in una Thailandia che è la summa
di tutti i luoghi comuni turistici sul paese, ci riporta ai tempi
migliori di Boldi e de Sica, per di più con una regia più vivace e
valori produttivi migliori.
Molti
film in costume da Hong
Kong.
Ronny Yu ha realizzato con Saving
General Yang
una delle sue opere migliori (vedi
scheda sotto). E
anche Ip
Man – The Final Fight
potrebbe essere il film migliore (fra quanti ne ho visti: è un
autore estremamente prolifico) nella carriera dignitosa ma alquanto
diseguale del simpaticissimo Herman Yau. Ennesima variazione sulla
biografia di Ip Man, qui nei suoi anni hongkonghesi, interpretato da
Anthony Wong, è un film di estrema freschezza, che parla con
convinzione e semplicità dell'integrità morale del suo
protagonista. Non mancano però le scene di kung fu, molto ben
costruite. Particolare gustoso, a un certo punto (in una
visualizzazione immaginaria) Yau introduce una vera e propria parodia
dello stile tutto CGI dei film di arti marziali moderni più
esagerati. E' tanto più delizioso nell'ambito del festival perché
sembra una risposta a The
Guillotines
di Andrew Lau - il tipico prodotto alla Andrew Lau minore: molta
enfasi che gira un po' a vuoto e un pesante appoggiarsi sulla
computer graphics.
The
Bullet Vanishes
di Lo Chi-leung, con Lau Ching-wan, mette in scena un mystery
con una buona ambientazione d'epoca (primo Novecento), ma si perde
per strada. Se parliamo di Hong Kong, infine, non possiamo non
menzionare i cortometraggi di autori giovanissimi del benemerito
concorso Fresh Wave. Ciascuno di loro mostra un'intelligenza e
capacità che da noi non hanno neanche molti registi affermati,
figuriamoci i ventenni.
Il
solo film di Taiwan
che ho avuto modo di vedere, Forever
Love di
Shiao Li-shiou e Kitamura Toyoharu, è molto più gradevole di quanto
lasci supporre il banalissimo titolo (pare che il titolo di
lavorazione fosse “Hollywood
Taiwan”:
molto meglio). Questa commedia è un appassionato omaggio all'epoca
dei film di serie B in cantonese che venivano prodotti in gran
quantità a Taiwan negli anni Cinquanta.
Sia
delusioni sia piacevolezze arrivano dalla Corea.
Per il primo gruppo, ecco A
Werewolf Boy
di Jo Sung-hee: Il
ragazzo selvaggio
di Truffaut incontra il cinema dei licantropi all'insegna di un
iper-romanticismo giovanilista che non si dimentica di Edward
Mani di Forbice.
Non è memorabile nemmeno The
Berlin File
di Ryoo Seung-wan, il film di apertura, un comune action,
meno svelto e piacevole, per esempio, del recente Die
Hard – Un buon giorno per morire
di John Moore. Entrambi i film comunque sono stati campioni d'incasso
in patria.
Molto
meglio il folle The
Ghost Sweepers
(cioè “Gli spazzafantasmi”) di Shin Jung-won. Storia
di cinque esorcisti, più una giornalista d'assalto, in lotta contro
un potente spirito maligno su un'isola sperduta, è un originale mix
di farsesco e (se non proprio horror) avventura fantastica, con
passaggi dall'uno all'altro registro talvolta quasi stridenti (ma lo
dico in senso positivo).
How
to Use Guys with Secret Tips di
Lee Wong-suk ha addirittura vinto il premio del pubblico. In realtà
non è affatto il miglior film del festival; tuttavia è molto
arguto. L'uso della computer graphics a manetta - una mania dei
coreani - trova la sua giustificazione in un'intelligente formula
narrativa che invece di tenere separati i due livelli del film (un
corso video su come fregare gli uomini e l'uso che ne fa la
protagonista nella sua vita) li mescola e incrocia in un divertente
delirio. The Thieves, di Choi Dong-hoon, come molti film coreani è troppo lungo e come tutti i film del regista un po' troppo intricato. Tuttavia è molto divertente, ha dell'umorismo, contiene scene d'azione fulminanti - e non dimentichiamo la bellezza di Kim Hye-soo!
Non
ho visto il film novità proveniente dalla Corea del Nord (ma in
coproduzione).
La
Thailandia
ha contribuito con un film a episodi sull'amore, convincente e
piuttosto intenso, Home
di Chookiat Sakveerakul, con un buon film di gangster assai vivace
(The
Gangster
di Kongkiat Khomsiri), e con alcuni horror. 9-9-81
è un
film a episodi interessante fin dalla concezione: i registi sono
molti ma la storia è una. Nel
prologo una ragazza vestita da sposa si uccide. I 9 episodi
costituiscono una sorta di puzzle che dà la spiegazione di questo e
di altri fatti che vediamo in seguito, mentre descrivono la
situazione per cui il ghost
della sposa si aggira ancora, ora dolente ora vendicativo. Le diverse
sensibilità dei registi (più di nove: alcuni episodi sono
co-diretti) realizzano un film molto sfaccettato, sia dal punto di
vista del racconto che del linguaggio cinematografico.
Long
Weekend
di Taveewat Wantha (autore anni fa di una spassosa commedia sugli
zombie, SARS
Wars)
è un horror in senso stretto, e fa anche paura. Deve molto al Sam
Raimi de La
casa,
ma senza il suo umorismo, e sviluppa la sua lezione con intelligenza,
adattandola con mano felice alle tradizioni locali.
Dall'Indonesia,
Upi, sempre una regista interessante, porta Shackled,
un thriller dalla atmosfere vagamente alla David Lynch, che però -
come dirlo senza spoiler? - è eccessivamente debitore nel dénouement
a un famoso film di Scorsese.
Chiudiamo
in bellezza con tre urrà per le Filippine.
Gli aswang
- grosso modo, una via di mezzo locale tra licantropi e vampiri -
sono stati il mostro ufficiale del quindicesimo Far East Film,
apparendo in due film. Tiktik:
The Aswang Chronicles
dell'infaticabile Erik Matti è un
horror-action ricco di humour e di calore umano, con un'ottima
costruzione della situazione: la scena in cui i protagonisti arrivano
in un villaggio di aswang
sotto mentite spoglie è magistrale. I trucchi sono buoni, specie
prima delle trasformazioni finali: il modo animalesco e cauto di
muoversi degli aswang
quando sono ancora in forma mezzo umana è memorabile. Indovinati
certi dettagli, come quando Erik Matti decide di rifare la scena più
famosa di Un
lupo mannaro americano a Londra
senza CGI (la trasformazione del maialino) - per il puro gusto di
farlo, visto che userà la CGI nella scena immediatamente seguente
(l'aswang
nudo che fa un salto-volo). Anche la fotografia, che corregge al
computer i cieli dando loro un valore fiabesco, è da menzionare.
Gli
aswang ritornano
in
The
Strangers
di Lawrence Fajardo, un horror minore rispetto all'altro ma comunque
mosso
e piacevole. La sorpresa (costruita mediante intelligenti allusioni
all'inizio) viene sviluppata in modo abile, con false piste, per cui
alla fine sorprende effettivamente; la CGI, se non proprio buona, è
discreta; e infine, per chi conosce anche appena un poco il cinema
filippino, vedere Cherry Pie Picache che improvvisamente si trasforma
in un mostro vale da solo il prezzo del biglietto. Il suo ambiguo
sorriso prima della trasformazione è una pagina di recitazione
indimenticabile!
Su
una nota più allegra, Chris Martinez ci porta un delizioso musical
con I
Do Bidoo Bidoo,
colorata versione di Romeo e Giulietta fra due famiglie, una ricca e
una povera, con stupefacenti interpretazioni (si capisce che la più
brava di tutti è la sublime Eugene Domingo). Con la sua prevalenza
di duetti e quartetti rispetto alle scene di balletto il film sembra
quasi staccarsi dal musical classico all'americana per assumere la
forma del film cantato alla Jacques Demy; e Chris Martinez sviluppa
al massimo la figura geometrica del rispecchiamento fra i personaggi
delle due parti sul piano musicale. E' un vero peccato che non sia
piaciuto a tutti gli spettatori. In un mondo perfetto, tutti gli
spettatori sarebbero usciti entusiasti dal teatro Giovanni da Udine
cantando in coro “I Do Bidoo Bidoo”. Ma che questo non sia un
mondo perfetto già lo sospettavamo, vero?
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