Le
diable probablement, diceva un
film di Bresson. Il diavolo, probabilmente, pensano il pope e le
monache di un isolato convento fra la neve nella Romania rurale in
“Oltre le colline” di Cristian Mungiu (tratto da una storia
vera): che è uno dei più importanti film sul Male apparsi negli
ultimi anni.
Alina ritorna
dall'emigrazione in Germania per riprendersi l'amica Voichita, con la
quale era cresciuta in orfanotrofio, e di cui è innamorata. Ma ora
Voichita è novizia nel convento e vi ha trovato la pace; vuole
ancora bene ad Alina ma non intende andare via con lei. Così Alina
si ferma al convento, ma diventa via via più squilibrata, e anche
materialmente distruttiva; tanto che il pope e le monache – falliti
i tentativi sia di mandarla via sia di tenerla lì – si convincono
che sia indemoniata e la sottopongono a un esorcismo. Legata a una
croce e “curata” con digiuno e preghiere, Alina muore.
Una
tragicità autentica e profonda pervade il film. Se una fotografia
estremamente curata nelle composizioni potrebbe quasi ingenerare un
sospetto di perfezionismo, la scansione dei campi e dei piani è
ammirevole (proprio in seguito alla bulimia del vedere
tutto del cinema contemporaneo,
ecco che il campo lungo diventa più che mai luogo deputato alla
drammaticità).
Il racconto mette bene
in risalto il dogmatismo dell'ambiente (il severo prete dichiara che
un cristiano ortodosso all'estero fa peccato anche solo se entra in
una chiesa non ortodossa, concetto già annunciato da un cartello
all'ingresso del monastero). Il pope e la madre superiora vengono
chiamati dalle monache papà e mamma: è evidente come ciò fornisca
a Voichita quella famiglia che lei non ha mai avuto. Così, sembra
che tutti i conti tornino: è una semplice storia di superstizione
clericale.
E
invece no. Con un coraggio che al giorno d'oggi ha dell'incredibile,
Mungiu realizza sull'argomento un film aperto sul piano morale. Dirlo
sembra un'eresia, ma tutti nel film hanno ragione. “Oltre le colline” è
una ronde della
responsabilità, ed è questo che lo rende così potente (uno degli
attributi terribili del male è che spesso è intricato con il bene).
Tutti nel film sono
contemporaneamente vittime e carnefici. Prendiamo il caso
paradigmatico di Alina. Qui non dobbiamo lasciarci sviare dalla
vulgata laica per cui entrare in un convento è di per sé una cosa
innaturale. Immaginiamo pure che Voichita avesse solo sposato un uomo
(o una donna, se è per questo). Vediamo subito che il suo rifiuto ad
andarsene e il comportamento distruttivo di Alina sarebbero stati
esattamente gli stessi. Alina attacca ciò che è intorno a Voichita
perché crede che sia questo a impedirle di riaverla – ma non è
così. Vuole Voichita più che amarla - se è vero che l'amore
conosce la rinuncia. Per lei l'amore è divenuto una psicosi (che,
quanto a questo, copre una psicosi più profonda – ma chi può
mettersi a discutere la vertigine peirciana dell'amore?).
Contestualmente, l'innocente Voichita, la vera vittima del film,
rifiutandosi di seguire Alina diventa il suo carnefice.
E che dire del
convento? Mentre tutte le istituzioni, come l'ospedale, non possono
accettare Alina se non nei momenti di emergenza, o vengono parimenti
rifiutate, paradossalmente col rito esorcistico il pope e le monache
tentano di aiutarla - fermamente convinti, come sentiamo, che il
diavolo sfrutta i nostri desideri per provocare il caos (che lei
possa essere indemoniata lo sospetta anche il vecchio medico
dell'ospedale). Con eguale e opposta convinzione la dottoressa nel
finale è orrificata dall'esorcismo. E ai poliziotti tocca il loro
solito maledetto mestiere: tirare le somme.
Dopo
la morte di Alina, Voichita si toglie l'abito da novizia.
Racconta senza infingimenti ai poliziotti quanto è successo. Pope e
monache vengono portati in città come possibili imputati e
testimoni. Nel finale, quando vediamo il traffico cittadino, i
semafori, gli operai che lavorano in strada col martello pneumatico,
vediamo un altro mondo; il convento fra la neve coi suoi antichi
rituali sembra l'illustrazione ingiallita di un libro sul Medioevo.
Ma
qui ci aspetta una doccia fredda. Ai poliziotti - che discutevano
(con evidente portata simbolica) dell'inverno che non si decide a
finire - arriva la notizia di un nuovo omicidio: un ragazzo ha
accoltellato la madre e ha messo le foto su Internet. Se siamo
onesti, qui il nostro razionalismo occidentale vacilla. Come può la
mente com/prendere l'abisso del male? E' davvero solo la
demenza di una società in crisi? O forse c'è veramente una forza
oscura che agisce sulla follia umana?
Subito
dopo vediamo passare davanti all'auto ferma all'incrocio una fila di
bambini – e dubitiamo se sotto quella loro scontata innocenza non
possa essere al lavoro un Male che già rode. Proprio in quella una
palata di neve sudicia e nera (gettata da un bambino? spostata dalla
corriera che passa?) colpisce il parabrezza e per un attimo lo
oscura. Quella manata di neve nera ha lo
stesso impatto dell'impronta diabolica sul muro in “Madre Giovanna
degli Angeli” di Kawalerowicz, un film che certamente Mungiu
conosce. Almeno per un attimo dubitiamo: Le diable
probablement.
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