Alessandro Comodin
In “Jagdfieber” (La febbre della caccia), il breve documentario con cui Alessandro Comodin si è fatto conoscere a livello internazionale, il cineasta friulano segue due cacciatori, separati, alla caccia del cinghiale nella boscaglia francese. L'istinto della caccia non è raccontato attraverso una drammaturgia (e sì, anche il documentarismo possiede una drammaturgia). Il pedinamento incessante, “aderente”, della mdp, scandito dal selvaggio abbaiare incessante dei cani, sulle tracce della preda che non si scorge mai, ci avvolge e ci sospinge: dai cacciatori passa a noi spettatori un'ansietà, una brama di vedere (che è il modo cinematografico di cacciare) questa preda che si nasconde nel folto – e di arrivare allo spettacolo del sacrificio. Scivoliamo dentro un'identificazione, una comprensione profonda, che ci riporta ad atmosfere mitiche e arcaiche. Le concentra e le annuncia la citazione che apre il film, sopra il dettaglio dell'occhio dell'animale morto: “Mia madre bevve il sangue rosso. Subito mi riconobbe” - è la nekuia, l'evocazione dei morti col sangue, la pagina più cupa e primitiva dell'“Odissea”.
La stessa trasformazione dell'immagine in conoscenza che c'è in “Jagdfieber” la troviamo, potenziata a livello di lungometraggio, nel bellissimo “L'estate di Giacomo” (una fiction che si rovescia in documentario, un documentario che si rovescia in fiction), vincitore del “Pardo d'oro Cineasti del presente” a Locarno, che esce in Italia distribuito dalla Tucker Film.
Giacomo è un ragazzo sordo; subito nell'apertura, inquadrato di schiena alla batteria, si nota il suo apparecchio sopra l'orecchio. Il suo tratto più evidente è un modo particolare di parlare, precipitato: perché per un sordo la sua propria lingua è una lingua straniera. Una maniera di “sparare” le frasi che in qualche modo si accorda con un atteggiamento spigoloso; c'è come un'aggressività sotterranea, che il film esemplifica nell'assordante assolo alla batteria di Giacomo in apertura; i suoi scherzi hanno la stessa bruschezza: “Attenta, io ti copo !” (ti ammazzo). Giacomo parla e si muove esattamente come chi ha vissuto molto nella solitudine: la campana di vetro della sordità.
Lui passa il tempo estivo con l'amica Stefania, ed è una danza di corteggiamento fra due diverse ritrosie. In Giacomo, si esprime come prepotenza giocosa adolescenziale/amicale, momenti di tenerezza alternati a scherzi verbali e fisici quasi violenti; in Stefi, come una sorta di rilassata stabilità: un equilibrio che intuisce il desiderio nelle aggressioni burlesche e risponde colpo su colpo - nascondendo non paura (lei è una indomabile) bensì la comprensione della fragilità del gioco.
Subito dopo l'apertura alla batteria, viene quella che è forse la pagina più stupefacente e ammirevole del film: semplicemente una camminata di dieci minuti fra le piante (“Natura di merda!”, ringhia Giacomo) per raggiungere il Tagliamento, il fiume “padre” del Friuli, e tuffarsi e poi fare un picnic. Qui il film raggiunge un momento di purezza assoluta. E' un film di corpi, di piante, di luce, d'acqua, di rumori (il lavoro sul suono, di Florian Namias, è davvero fenomenale) - ma non un film impressionista, fenomenico, perché ne emerge un racconto forte; non si risolve in macchie di esperienza sensoriale ma da questa appare allo spettatore una storia conchiusa: non per via drammaturgica, appunto, ma sarebbe giusto dire per empatia. Anche attraverso la stupefacente verità dei suoi interpreti, o meglio soggetti, Giacomo Zulian e Stefania Comodin (e poi Barbara Colombo che appare alla fine), il film riporta la diretta evidenza dell'esperienza: è la realtà immediata e tattile che si trasforma in storia.
Alla fine, questa danza di corteggiamento ha raggiunto il suo punto limite e si ferma (“Ti vedo che sei molto timida con me”). Si arriva sempre al momento in questi rituali in cui bisogna accettare di fare un passo avanti, passando dal segnale alla realtà, o di fare un passo indietro - e noi esseri umani siamo fatti in modo tale che in questo secondo caso copriamo le tracce, torniamo alla finzione del caso e del gioco.
Vediamo Giacomo e Stefi ritornare, insieme sulla stessa bicicletta, ed entra una canzone extradiegetica: “I remember fifty years ago”. Così il testo della canzone si sovrimprime all'inquadratura e la determina; parla del passato, e consegna al passato quella danza dell'estate. La mdp che precede i due ragazzi in camera-car a un certo punto si allontana dalla coppia, accelerando, li rimette alla lontananza, come in un finale.
Ha un senso che questo passaggio sia l'unico momento apertamente enunciativo del film (ce ne sono stati altri, ma nascosti nel flusso). Questo è un passaggio liminare. E' la fine di una tappa esistenziale, che possiamo facilmente identificare nell'adolescenza; segna il confine tra un segmento di vita e un altro. Nella sezione conclusiva del film vediamo Giacomo con un'altra ragazza, Barbara, anche lei sorda, come capiamo dal modo di parlare. Sono sempre sul Tagliamento, ma in un punto affatto diverso, il greto sassoso più a Nord. Sono fidanzati. Entra la voce narrante di lei che parla sui dubbi e le incertezze dell'amore. Lui la rassicura con un abbraccio.
Non è una fine; è il punto medio di un nuovo periodo. Per un film così intrinseco al flusso della vita, un punto fermo sarebbe una violazione.
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