domenica 25 marzo 2012

Cesare deve morire

Paolo e Vittorio Taviani

Circa vent'anni fa, alla Mostra del Cinema di Venezia, fu presentato un notevolissimo mediometraggio italiano dal titolo “Oreste a Tor Bella Monaca”, di Carolos Zonars, co-sceneggiato con Francesco Suriano. La vicenda eschilea di Oreste viene riprodotta in un campo di zingari; Oreste, uccisore della madre che ha ucciso il padre, viene giudicato dal tribunale zingaro, il Kris; un coro di zingare ha la parola. L'angosciosa disanima della legge primitiva, il giusto e il cattivo, l'uomo e la donna, il ruolo della madre contro il dovere della vendetta, riecheggiava nella loro cultura arcaica producendo una sorta di profonda comprensione del testo che gli dava accenti di incredibile drammaticità: drammaticità perché contemporaneità: Eschilo non messo in scena ma, si potrebbe dire, vissuto.
C'è qualcosa di analogo nello splendido “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, Orso d'Oro a Berlino. I carcerati della “sezione di alta sicurezza” a Rebibbia mettono in scena il “Giulio Cesare” di Shakespeare, sotto la guida del regista Fabio Cavalli (che firma coi Taviani la sceneggiatura), in una riduzione che nondimeno ne salva la potenza di linguaggio, trasposta dagli interpreti sul piano dei loro dialetti. Seguiamo il progetto, per via documentaristica, dai provini iniziali alle prove in carcere fino alla recita in teatro davanti a un pubblico di parenti e amici, dopo di che gli attori rientrano in cella (le ultime parole sono dell'interprete di Cassio, un ergastolano: “Da quando ho conosciuto l'arte, 'sta cella è diventata una prigione”).
Come nel mediometraggio prima citato, si produce un senso sconvolgente di “verità”, per un analogo cortocircuito fra il testo e le vite: stavolta non su base etnica, bensì culturale (la subcultura camorrista e mafiosa da cui molti provengono), potenziata dal dialetto. Ed anche di storia personale che entra in risonanza con il testo, come quando l'interprete di Bruto si accascia su una battuta che gli ricorda un episodio vissuto (“le parole erano diverse – ma uguali”). E' anche per questo cortocircuito (ma non solo) che questi interpreti appaiono di una bravura che lascia agghiacciati.
Il film funziona nei due sensi. Se l'attore porta una realtà a Bruto, la parte di Bruto si riflette sull'attore. Si leggono in controluce, drammaticamente, le interiorità. Film di uomini in prigione, non privo di un sottotesto di rapide notazioni sulla situazione carceraria (il desiderio della “femmina”, la depressione dopo i colloqui, la sensazione del “fine pena mai”, la lunghezza delle notti), “Cesare deve morire” al di là di ogni buonismo ce li presenta come uomini nella loro nuda umanità.
Le parole di Shakespeare assumono un nuovo significato. Nella bizzarra scena shakespeariana in cui, quando Bruto e Cassio si appartano, gli altri congiurati in disparte discutono sul cielo di Roma, uno degli attori osserva scherzosamente che questi personaggi sono strambi, “stanno p'ammazzà 'o capo” e parlano del tramonto; tutti questi carcerati sanno bene cosa significa “ammazzà 'o capo” - è la loro vita reale, non il testo di un copione. E infatti nella scena dell'assassinio di Cesare, con l'interprete al centro del cortile e i congiurati che lo circondano a distanza, questa non è soltanto la corretta disposizione teatrale: si mette in scena Shakespeare e si mette in scena un assassinio di camorra, col capo nel cerchio dei suoi seguaci che prima lo lusingano poi lo accoltellano. Senti un vero sentimento di disperazione quando Bruto, che lo amava eppure deve tradirlo, colpisce Cesare con tanta violenza che il pugnale di cartone si storce. Shakespeare diventa veramente di carne e sangue - ciò che risponde alla grande paura del teatro moderno, quella della falsità.
Antichi concetti di onore e tradimento prendono vita. Così il romanesco di Ottavio che davanti al cadavere del suo nemico Bruto lo elogia, “Questo è 'n'omo”, assume un'indicibile pregnanza. Ma non è solamente un discorso di risonanza delle parole e delle situazioni. C'è una variazione semantica - come quanto Cesare dice a Metello Cimbro che rifiuta di richiamare suo fratello “esiliato come infame”; o poi nel doppio senso di “branco”; o quando Antonio sussurra al cadavere di Cesare “Noi uomini tuoi come mastini - porteremo per queste terre il ferro”. Va da sé che nel suo discorso al popolo romano il famoso “uomini d'onore”, ossessivamente ripetuto, assume un nuovo, reale, potente significato.
Stante l'indisponibilità della sala teatrale in ristrutturazione, vediamo svolgersi le prove negli spazi aperti e nei corridoi di Rebibbia. Ecco allora che la prigione diventa non sfondo ma luogo, il testo si fonde con la vita del carcere, tutta Rebibbia diventa Roma, tutti i carcerati diventano il popolo romano. Quando Cassio descrive a Bruto, che non guarda, la scena di Cesare che rifiuta la corona (anche in Shakespeare è riferita attraverso una narrazione), Cassio sta guardando da un finestrone sul cortile della prigione e si sentono le urla da fuori: sembrano i rumori di una rivolta in carcere. La mattina delle Idi di Marzo Cesare appare, in toga, seguito dai suoi uomini, avanzando solennemente per uno stretto camminamento all'aperto. Il “Non fuggite!” gridato agli astanti dopo l'uccisione è Shakespeare ed è insieme un omicidio in carcere. Ancor più impressionante quando, nelle orazioni di Bruto e poi di Antonio nel cortile della prigione, la folla dei “romani” tumultua da dentro le celle aggrappandosi alle sbarre delle finestre per guardare giù.
Gli studiosi del documentario sanno bene che in esso si crea una spirale: la realtà filmata in quanto filmata recita se stessa come realtà (l'esempio di scuola è il classico “Night Mail” di Harry Wyatt e Basil Wright). Non è art brut che i Taviani mettono in scena, “Cesare deve morire” è tutto meno che naïf; in questo film si crea un'autentica vertigine peirciana. Quando l'interprete di Bruto nella sua cella racconta ai compagni di prigione cosa successe a Roma quel giorno, c'è la mdp, c'è l'illuminazione, s'intuisce che ci deve essere spazio sufficiente per filmare: è messa in scena, non meno che la parte in teatro. Il film lo dichiara esplicitamente quando mostra Cassio e Bruto che provano il loro dialogo ciascuno nella sua cella, ma montandoli in una serie di falsi campi/controcampi – ed esplicitando poi l'artificio con un commento ironico e un'inquadratura del vero compagno di cella di Cassio (il montaggio è firmato dal grande Roberto Perpignani).
Inoltre, in alcuni passaggi del film la tragedia perde l'elemento teatrale per divenire cinema. Quando all'inizio Cesare passando con Antonio sussurra la famosa battuta contro gli uomini magri, è appunto solo sussurrata, al di fuori della logica di uno spettacolo dal vero: non è più teatro, non è prova, è realizzazione cinematografica del testo; esattamente come l'apparizione del fantasma di Cesare a Bruto con una soggettiva di avvicinamento.
La bella fotografia di Simone Zampagni staglia le figure, scolpisce le fisionomie e le rende drammatiche in forti primissimi piani o in maestose inquadrature dal basso. Potenza del primo piano di Cesare quando dice che non grazierà l'“infame”! Non vediamo più un carcerato che recita, sentiamo di avere davanti davvero Caio Giulio Cesare, conquistatore della Gallia e dittatore di Roma. La fotografia del film sa trascorrere da un quotidiano nobilitato - perché è proprio dei Taviani nobilitare sul piano visivo il quotidiano - a una dimensione solenne e tragica. I fratelli Taviani hanno sempre posseduto un elemento di alto formalismo - che invero è spesso a rischio di diventare accademia; ma non in questo caso. Per potenza, lucidità della costruzione, superba coincidenza di contenuto drammatico e di elaborazione formale, non solo “Cesare deve morire” è il loro miglior film da diversi anni a questa parte ma potrebbe anche essere considerato il loro capolavoro.

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