William Brent Bell
Sarà per l'ambientazione romana, ma l'horror “L'altra faccia del diavolo”, di William Brent Bell, ricorda alquanto il passabile “Il rito” (di Michael Hafström, con Anthony Hopkins). Si apre con un filmato, piuttosto ben realizzato, sulla scena di un massacro, nel lontano 1989. La protagonista del film è la figlia della donna che commise quegli omicidi perché posseduta dal demonio, e che ora vegeta in un ospedale psichiatrico di Roma, legato al Vaticano, dov'è stata misteriosamente trasferita dall'America. Ormai cresciuta, Isabella (Fernanda Andrade) vorrebbe realizzare un documentario su quei fatti, e quindi va a Roma per vedere la madre, continuamente seguita e filmata dal suo collaboratore Michael.
Il film quindi è realizzato in quella forma pseudo-documentaria per cui si va affermando la definizione di found footage movies (filmati ritrovati). Proporrei piuttosto, e qui l'adotterò, la definizione REC – che permette anche il richiamo a uno dei migliori film del genere, benché successivo al capolavoro di Mirick e Sanchez “The Blair Witch Project” (per non parlare di “Cannibal Holocaust”...). Infatti non è affatto detto che nei film di questo genere il footage sia perduto e poi found, anche se è la soluzione narrativa principe. Può benissimo essere realizzato - nella finzione, ovviamente - a scopo documentaristico o di studio, come qui. In questo si congiunge col mockumentary - con la differenza che il mockumentary ha per definizione la forma del prodotto completato, del documentario terminato e proposto al pubblico: ciò comporta la possibilità evidente che la narrazione sia ingannevole, mentre la forma REC possiede delle marche di verità, o per dire meglio di documento, “brute” e dirette. Si ricorda anche un caso particolarmente barocco nell'interessante e sottovalutato “Il quarto tipo” di Olatunde Osunsanmi (yes!), in cui vedevamo il materiale (pseudo) documentaristico replicato in forma di fiction, con compresenza dei due livelli sullo schermo in un autentico caso di split screen narrativo.
Il modesto “L'altra faccia del diavolo” è normale amministrazione sulla possessione demoniaca, che qui appare particolarmente contagiosa, mentre la Chiesa e la psichiatria, unite, ne negano l'evidenza (un caso divertente è che lo psichiatra si chiama Antonio Costa, come uno dei massimi critici e storici del cinema italiani). Niente di rilevante, nel film; ma in verità non è spiacevole alla visione. Il suo aspetto migliore è una discreta costruzione dell'atmosfera, che indovina qualche buon tocco (una suora cieca incrociata per strada per un attimo ha un volto così efficace che è stata messa, alquanto ingannevolmente, anche sul poster del film). La forma “documentaristica” e il budget limitato cospirano per far sì che vengano evitate le forme più fantastiche del sottogenere esorcistico, levitazioni, trasformazioni mostruose ecc., rese familiari da “L'esorcista” di William Friedkin; e questo dà al film una certa aria di realtà. La favorisce anche una buona interpretazione, sobria e quindi inquietante, di Suzan Crowley nel ruolo della madre.
Peccato che questa impressione di realtà sia messa a dura prova proprio dalla forma pseudo-documentaria. Per definizione, nei film REC la presenza della macchina da presa viene diegetizzata – i.e., inserita nel racconto. La protagonista e i due preti suoi compagni sono continuamente accompagnati dalla telecamera di Michael. Ora, guardiamo la scena in cui Isabella incontra per la prima volta sua madre in manicomio: è una scena assolutamente a due: la madre possiede una conoscenza preternaturale dei fatti (l'aborto di Isabella) ma sembra non accorgersi della presenza di un terzo incomodo che filma. Neanche quando un primissimo piano implicherebbe un avvicinamento della mdp (poi la scena è anche montata, ma lasciamo perdere). Ma c'è di peggio. I due preti compiono esorcismi senza l'autorizzazione della Chiesa (contestano come ipocrisia la sua prudenza in questi casi) e sono legittimamente spaventati all'idea che ciò venga a conoscenza delle gerarchie ecclesiastiche. Ebbene, mentre fanno un esorcismo a una ragazza, e mentre complottano per farne uno alla madre di Isabella, si lasciano filmare da Michael!
In breve, per poter mantenere la forma REC la sceneggiatura è costretta a spostarsi sul piano di una totale illogicità. Vale la pena di notare, tuttavia, che questa illogicità non affonda la finzione cinematografica come se, diciamo, per sbaglio fossero inquadrati i riflettori o i microfoni, o il montatore avesse lasciato dentro i ciak. Evidentemente la convenzione narrativa è più forte del carattere evidentemente traballante (cioè non sempre mantenuto) del presupposto. Il che ci consente di dire che – dopo la sorpresa delle prime volte – ormai nel cinema la modalità REC è diventata un semplice stile di presentazione: in altri termini, è passata dal dominio della narrativa a quello della retorica.
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