Paolo Sorrentino
Una coproduzione internazionale in cui una vecchia rockstar in ritiro (rugoso, fragile, ma abbarbicato al look di un tempo: capelli lunghi nerissimi, rossetto e occhi bistrati) dopo la morte del padre con cui non parlava da anni scopre che questi, ebreo reduce dal campo di sterminio, aveva passato la vita a dare la caccia all'ex comandante del Lager – e assume su di sé quella ricerca, in giro per gli Stati Uniti. Sembrerebbe una di quelle idee buone al massimo per un film ironico d'azione. E invece Paolo Sorrentino nello stupendo “This Must Be the Place”, su una sceneggiatura scritta insieme a Umberto Contarello, ne fa uno dei film più folgoranti dell'anno, e dei migliori della sua carriera cinematografica.
Come la mafia ne “L'amico di famiglia”, la caccia al nazista in America è per Sorrentino il quadro (attenzione: questo vuol dire tutt'altro che lo sfondo!) entro il quale si sviluppa il ritratto di una persona. Il protagonista Cheyenne è una di quelle figure enigmatiche e chiuse, dolorose di un dolore nascosto, che realizzano i classici ritratti sorrentiniani: uomini che si sono costruiti intorno una barriera. Sean Penn ne dà un'interpretazione monumentale – e a volte si sente una sorta di tensione fra questa prova attoriale e la regia, quasi che l'attore tendesse a mangiarsi il film; ma la verità è che questa tensione fornisce a “This Must Be the Place” parte del suo fascino.
Inizia in Irlanda, con la classica situazione di “tempo bloccato” dei film di Sorrentino, con quelle stanze tristi (per esempio quelle di Andreotti ne “Il divo”, ma non solo) che materializzano uno stato esistenziale. Oppresso da un grumo silenzioso di insoddisfazione e senso di colpa, Cheyenne dice alla moglie che teme di avere la depressione, e lei gli risponde di non confonderla con la noia. Battuta cui risponde più tardi il cacciatore di nazisti Mordecai (che guarda con divertita partecipazione segreta alla ricerca, dilettantesca ma fortunata, di Cheyenne) dicendogli “Mi sa tanto che avevi proprio bisogno di un diversivo”.
Inizia in Irlanda e si sviluppa in America in forma di road movie, fiorendo in memorabili sviluppi e affascinanti digressioni (come non citare uno sconvolgente cameo di David Byrne nella parte di se stesso). Sorrentino ha sempre la capacità di realizzare un cinema simbolico visualmente radicato nella realtà. E' un regista dello sguardo; ma le sue superbe carrellate a scoprire sono anche capaci di andare oltre i personaggi, come una che si avvicina, li supera, ed esce dalla finestra. Il termine migliore per definire questo film è quello di sospensione.
Il grottesco sempre presente nel realismo sorrentiniano prende la forma dell'iperrealismo (et pour cause, in un film così americano). Questi paesaggi, questi visi, queste figure di comuni cittadini americani, tutto sposa la realtà concreta con l'assolutezza di una ricostruzione più vera del vero (un platonismo dell'individuale?), quale la troviamo nelle foto di Diane Arbus o nelle sculture di Duane Hanson. Anche il vecchio tedesco nudo nella neve alla conclusione non è solo una geniale soluzione di sceneggiatura; sul piano figurativo è iperrealismo puro. Ed è questo iperrealismo che dà ai momenti di sospensione quasi onirica del film - non come situazione oggettiva ma come proiezione dello sguardo del protagonista - un valore vagamente epifanico.
“Il segreto è il tempo”: il protagonista nascosto di “This Must Be the Place” è il tempo stesso. Questo film è pieno di discorso sul tempo come misura del valore delle cose (per inciso, va segnalato anche un bellissimo discorso sul perché le donne si concedono quando vengono corteggiate molto a lungo). Paradossalmente, quello che dà la sua terribilità all'Olocausto è che non si può dimenticare - non il contrario. Su questo concetto del tempo come valore concordano tutti i personaggi, dal cacciatore di nazisti Mordecai allo stesso nazista in fuga. Ora, come entra questo riguardo a Cheyenne? Per capirlo possiamo riferirci a un'altra frase che sentiamo nel film: “Non hai mai cominciato a fumare perché sei rimasto un bambino”. Cheyenne, pietrificandosi nel suo look di vent'anni prima (e pertanto grottesco), nonché nella rottura adolescenziale col padre, ha cercato di fermare il tempo. Il suo viaggio alla scoperta di se stesso, dell'Olocausto, del padre morto, della giustizia, dell'America, è la scoperta del tempo.
Per questo alla fine del film inizia a fumare, si taglia i capelli, abbandona quel suo look da Peter Pan invecchiato, e così cambiato va a trovare la madre di sua figlia. Con la conclusione del viaggio, il tempo ha ricominciato a scorrere.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
2 commenti:
ciao Giorgio, leggo con piacere e condivido in toto la tua recensione del film di sorrentino. Andrei ancora oltre nella straordinaria scena del nazista nudo nella neve: si è trattato proprio di riattualizzare lo "spettacolo" (portare davanti agli occhi) dei lager nazisti nell'unico modo eticamente possibile (sostenibile). La vendetta è far fisicamente assumere, iperrealisticamente, al corpo del vecchio nazista la postura che il protagonista ha visto, fra le altre, nelle diapositive mostrate agli adoloscenti ignari(tali e quali a lui).
Grazie per le tue recensioni!
Manlio
Mi spiace non ricordare il precedente commento che inavvertitamente ho cancellato, non mi ci riprovo proprio a riscriverlo, ma dato che ho trovato il film splendido e che concordo sullo "straordinaria" per la scena del nazista - precedente commento - e aggiungerei sublime quasi quanto "l'urlo" di Munch, fisso solo un punto, anzi IL punto che mi hai rivelato : la donna che aspettava alla finestra è la madre di sua figlia. Perchè io non l'avevo capito, cosa mi è sfuggito ?
Posta un commento