Lars von Trier
L'apertura col viso rigido di Kirsten Dunst in primissimo piano (uno di quei PPP così stretti di Lars von Trier) che apre lentamente gli occhi è la perfetta illustrazione della melancolia. La caratterizzano perseveranza e indolenza, esibizionismo e dissimulazione, introspezione e irresolutezza, distacco e depressione. Il suo pianeta è Saturno. Tutto questo è Justine (Kirsten Dunst) nel film. Ma non dobbiamo dimenticare che il melancolico è anche profeta: guida alla comunione con Dio – o, come qui, guida le persone che ama alla comunione con la morte.
Capolavoro di Lars von Trier superiore ad “Antichrist”, segnato da quell'incredibile realismo “trieriano” che sa far lampeggiare il barbaglio del vero assoluto nelle cose, “Melancholia” consta di un prologo e due episodi, intitolati alle due sorelle Justine e Claire. Il prologo mostra, in un montaggio poetico d'immagini sulla musica di Wagner, come il pianeta errante Melancholia si schianti contro la Terra (la fine del mondo è dunque già dichiarata all'inizio: tutta la nostra visione del film si svolge nel cono di questo lutto). Le immagini del disastro, di un disumana bellezza, si fondono con immagini surreali e sconvolgenti di Justine; con la visualizzazione del suo mondo onirico; con diverse citazioni pittoriche; con la morte delle creature viventi, racchiusa e simboleggiata in quella del cavallo; con raffinate figure in cui la geometria narrativa viene concretizzata in geometria visiva. Lo scontro di Melancholia con la Terra sembra un coito stellare, ricorda la fecondazione dell'ovulo - ma al contrario: nel senso che non serve a produrre la vita bensì a cancellarla in tutto l'universo (Justine, che “sa le cose”, dichiara a un certo punto che la vita è un'eccezione unica nel cosmo). Ma quello che nel film di Lars von Trier è diverso da mille catastrofi alla Flammarion concepite ben prima che fosse inventato il cinema è la calma accettazione con cui viene messo in scena il destino.
Il primo episodio si apre - con un brusco passaggio alla mdp a mano - sulla limousine che porta i due sposi Justine e Michael alla loro festa di nozze nella villa della sorella di lei, Claire (Charlotte Gainsborough). Sullo stretto viottolo di campagna la limousine stenta seriamente a manovrare; e la sua difficoltà a muoversi, realizzata in modi insieme comici e unsettling, è un'anticipazione allegorica del fallimento della festa (cui fra l'altro gli sposi arrivano con ore di ritardo). Questo matrimonio turbato da una corrente ghiacciata di imbarazzo e follia è parente stretto di tanti matrimoni, riunioni e celebrazioni che abbiamo visto nei film del Dogma (e ne ha la stessa immediatezza linguistica). Mentre appare in cielo il pianeta Melancholia, in Justine la melancolia prende il sopravvento. Vediamo tensioni sotterranee ma soprattutto un rifiuto non spiegato (come quello di Bartleby lo scrivano) di Justine - sicché alla fine Michael fa le valige e tristemente se ne va. Justine è connessa al pianeta; è lei che lo vede per primo: “Che stella è quella?” Poiché Justine è l'incarnazione del temperamento melancolico - ciò che unisce in una linea ideale il pianeta, il racconto, la sua protagonista e il regista, che in lei si rispecchia.
Se la prima parte mette in scena la fine (sul nascere) di un matrimonio, la seconda mette in scena la fine del mondo (lo spazio non consente di analizzare qui il raffinato gioco di ripetizioni e scarti fra i due splendidi “mezzi film”). Justine raggiunge i familiari - Claire, suo marito John, il loro figlio ragazzino - mentre, immenso sull'orizzonte, Melancholia si avvicina alla Terra. Tutti credono che le passerà solo vicino, a partire dal cognato John, il portatore della certezza scientifica (e dello status sociale) destinata a essere distrutta: John sarà il primo a uscire di scena. Ma Justine misteriosamente sa. Sa che questa è la fine del mondo - per dirla con T.S. Eliot, “not with a bang but with a whimper”: vedi la sua ironia crudele quando Claire propone di rendere pomposo l'evento con un brindisi in terrazza quale ultima sfida dell'umanità.
Di notte Justine si bagna nuda alla luce di Melancholia: anche questo possiamo vederlo come un freddo atto sessuale, senza concepimento perché il tempo di tutti i concepimenti è finito; lei, che non ha sposato Michael, qui sposa il pianeta. Mentre Melancholia si avvicina, poi sembra allontanarsi, poi si riavvicina (una danza di morte, si dice nel film), Justine, la veggente, dichiara a Claire che “siamo soli”; “la vita è soltanto sulla Terra – e per poco ancora”; e soprattutto: “l'unica cosa che so è che la vita sulla Terra è cattiva”.
Sappiamo che per Lars von Trier il giudizio sull'umanità si concentra nel nome della città di un suo film famoso: Dogville: la città dei cani. Ma non solo. Nei suoi ultimi film il regista danese è arrivato a una forma di gnosticismo radicale: la vita è il male in se stessa. Di qui l'aspetto demoniaco della natura, già dichiarato in “Antichrist”, con il quale “Melancholia” ha rapporti assai stretti, anche sul piano visuale. Anche qui ritroviamo il brulicare immondo di insetti sotto l'immediata superficie.
E dopo l'esplosione in fiamme della Terra non ci sarà nell'universo vuoto nessuno a rimpiangerla. Un pessimismo cosmico che noi italiani, lettori di Leopardi, possiamo intendere perfettamente.
Ma tutto questo non sarebbe completo senza aggiungere che Lars Von Trier trasfonde nel film - in feconda contraddizione con quel suo pessimismo cosmico - un alto sentire umano. Come nell'infernale “Riget” (“The Kingdom”) esisteva, alla base della gotica costruzione di orrore e delirio dell'ospedale, l'umile umanità dei due inservienti mongoloidi, così qui il pianto segreto di Justine nell'abbraccio al nipotino dopo averlo illuso con la pietosa bugia della grotta magica equilibra e in un certo senso riscatta il male della vita e l'inevitabile distruzione. Quella dolorosa umanità e comprensione che dà al cinema di Lars Von Trier la sua dreyeriana grandezza.
mercoledì 9 novembre 2011
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